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NOTE


Alla Satira V.


Orazio alle fonti d’Epicuro e Aristippo aveva attinte le massime di una indulgente e cortigianesca filosofia, quale a’ suoi tempi si confaceva. Persio più austero d’Orazio, e vivente in tempi più contaminati e difficili, predicò ne’ suoi versi le stoiche discipline; parlò della virtù non per pompa ma per sistema, non derise il vizio, ma lo esecrò; non pattuì col delitto, ma apertamente il perseguitò, e fu spettacolo degno di maraviglia il vedere la severità di Zenone e l’onestà di Crisippo negli scritti e sul volto di nobilissimo e bellissimo giovinetto. Quindi la tanta disparità che s’incontra nelle opere di questi due ingegni, dico d’Orazio e di Persio, ognuno de’ quali dipingendo se stesso e il suo secolo adoprò colori sì opposti, quanto lo erano le dottrine che professavano, quanto differiva la galanteria della corte d’Augusto dalle atroci libidini di Nerone. Il giovine discepolo di Cornuto si alza dunque di molto pel rigore delle sentenze sopra il cinico amico di Mecenate, e la presente satira ne fa prova. Considerati ambidue come filosofi, l’uno è Senocrate, l’altro è Diogene, ma Diogene colla porpora di Aristippo. L’uno inculca, e ciò che più monta, mette in pratica i dogmi dell’onesto e del retto; l’altro li raccomanda colle parole, e li tradisce col fatto; l’uno è tutto pudore, l’altro lacera ad ogni passo il velo della verecondia con una disinvoltura tutta degna delle cene di Trimalcione; l’uno con angelica purità raccomanda composito jus fasque animo, sanctoque recessus Mentis, et incoctum generoso pectus onesto; l’altro, tument... cum inguina, num si Ancilla, aut verna est præsto puer, impetus in quem Continuo fiat, mali tentigine rumpi? Non ego. L’uno in somma è il catechismo della virtù, l’altro è l’apostolo della mollezza, e il breviario de’ cortigiani.

L’officio di Satirico, perchè bene si adempia, richiede una coscienza che non conosca rimorsi, e tal caratere che sicuro di sè medesimo non tema le grida nè gl’insulti del vizio perseguitato.