Satire (Persio)/Note/Alla Satira VI

Note alla Satira VI

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Aulo Persio Flacco - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Monti (1803)
Note alla Satira VI
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NOTE


Alla Satira VI.


Si burla della follìa di quegli avari, che risparmiano per arricchire l’erede.

Io era a questo termine della mia traduzione, quando venni a sapere, che il P. Solari Scolopio, culto scrittore, e buon matematico ha di fresco intrapresa, e mi si dice ancor terminata una nuova versione di Persio con un proposito singolarissimo. Niente egli atterrito dalla tenebrosa precisione di Persio, niente disanimato dalla riflessione che l’esametro latino è assai più lungo di sua natura che non l’endecasillabo italiano, a cui manca per una parte il soccorso delle brevi, e si aggiugne dall’altra il perpetuo inevitabile strascico degli articoli, e più altri ostacoli che ognuno ben sente, il P. Solari confidato nella sua somma perizia delle due lingue si è accinto (per quello mi si racconta) a traslatar Persio in tanti versi italiani quanti latini. So che tutto si può aspettare da quell’ingegno, e lo credo senza temere che non siagli intervenuta la disgrazia di Labeone (V. la nota al v. 4 della prima satira). Nulladimeno un tanto coraggio mi ha da prima fatto paura, parendo a me ardire anche troppo l’attentarsi di volgerlo in terza rima. Indi, come suole accadere, mi sono invogliato di seguirne l’esempio, e tanto ho eseguito nella satira unica che mi restava. Non ispero, nè pretendo veruna lode a questo genere di traduzione, prendendo a lottare con un testo più gravido d’idee, che di parole, e che fa giustamente la disperazione degli eruditi. Contuttociò è tanta la pieghevolezza del nostro idioma, tanti i suoi schermi, le sue parate, i suoi artificj, che io non solo non vo’ pentirmi di questo temerario capriccio, ma stimo anzi che la versione di questa satira la non sia di certo la peggiore tra le altre sorelle sue. Che più? A me sembra che l’indole e la fisonomia di Persio vi sia stata più conservata. Questo pregio di fedeltà, se discompagnasi dall’eleganza e dalla chiarezza non monta un frullo, lo so ancor io; e una bella [p. 112 modifica]infedele fa sempre miglior fortuna che una brutta fedele. Ma forse un disinganno se non altro ne risulterà nell’opinione di coloro, che senza cognizione di causa accusano di troppa mollezza e verbosità la più bella di tutte le moderne lingue, e la più suscettiva nel tempo stesso di tutte le tinte e caratteri, che il soggetto può dimandare.

Ove il P. Solari si risolva a far contento il pubblico della sua versione, ciò sarà senza dubbio con discapito della mia; ma vi farà guadagno la lingua e la letteratura italiana. Ciò fa sì, che messe da parte le apprensioni dell’amor proprio, io unisca sinceramente i miei voti a quelli del pubblico.

lunai portum. v. 9. — Or chiamasi porto Venere, e porto Lerice. Questo verso è di Ennio.

mæonides quintus. v. 11. — Racconta Ennio ne’ suoi annali una apparizione d’Omero, venuto a fargli sapere che la sua anima aveva prima abitato il corpo d’un pavone, poi quello del cantore dell’Iliade, dal quale in processo di altre metempsicosi aveva finalmente migrato in quello di Ennio stesso. Essendo Quinto il prenome di Ennio, apparisce chiara la beffa di Persio su questo sogno, finito il quale il povero sognatore si trovò di essere non Q. Omero, ma Q. Ennio qual erasi addormentato.

pictus. v. 32. — Vedi la nota al v. 89 della satira I.

cænam funeris. v. 33. — Gli antichi erano assai solleciti e vaghi di queste funebri cene, alle quali credevasi che assistessero le anime dei defunti, e si compiacessero alle lodi solite a recitarsi durante il convito sulle virtù dell’estinto: idea religiosa e piena pur di conforto, poichè prolungava in certo modo oltre le ceneri la lusinga dell’esistenza. La costumanza di queste pie gozzoviglie rediviva nei funebri agapi della prima Chiesa si mantiene ancora a’ dì nostri; ma non è nè l’erede, nè i congiunti che fanno banchetto. Come vanno i vostri affari, Sig. Curato? fu chiesto un giorno al Parroco di Monterotondo — Ringraziamo il Signore, che mi ha mandato ventidue morti più dell’anno scorso. Odo dire che in Lombardia si chiamano la polpetta dell’Arciprete.

maris expers. v. 39. — Possiede la lingua latina molti vocaboli d’opposto significato. Al v. 6 della prima di queste satire s’incontra il verbo elevat non in senso di alzare, ma di deprimere, avvilire, sminuire di prezzo; ed è metafora tolta dalle bilance delle quali va in alto il guscio che meno pesa. Cicerone l’usurpa in questo [p. 113 modifica]intendimento assai volte e Livio e Properzio ed altri del miglior secolo. Della stessa natura sono le parole impotens che or significa impotente or prepotente, egelidus che vale egualmente gelido e tepido, sperare in senso di temere; così infractus, edurum, enode; e di tutte vedi i molti e limpidi esempi riportati dal Forcellini. La lingua italiana che in qualità di figlia primogenita della latina si adorna mirabilmente di tutte le materne vaghezze, essa pure va ricca di non pochi vocaboli della stessa indole. Sperar peggio, sperare sterilità, disse il Villani; insperati mali usò leggiadramente il Rezzonico, ed ebbe certo di mira l’insperatum nec opinatum malum di Cicerone; e l’Ariosto c. 13 del Fur. :

Io porterò del mio parlar supplizio,
     Perchè a colui, che qui m’ha chiusa, spero
     Che costei ne darà subito indizio.


Così fortuna, posto assolutamente, tanto vale la buona che la mala ventura; così odor di letame disse il Boccaccio; così mille volte niente e nulla in vece di qualche cosa, e niuno e nullo in vece d’alcuno. Di più alcuno in luogo di niuno, come l’aucun francese, si ha per moltissimi esempi e del Novelliere Antico, e dello stesso Boccaccio nel Decamerone, e di Dante sì nel Convivio che nella Cantica dell’inferno per ben due volte. Ed una la notò pel primo il P. Lombardi al verso 9, canto i:

Al piano è si la roccia discoscesa,
Che alcuna via darebbe a chi su fosse.


Ma l’altra al v. 43, c. 3, non l’ha osservata nè il Lombardi, nè verun altro commentatore:

Cacciarli i ciel per non esser men belli,
Nè lo profondo inferno li riceve,
Chè alcuna gloria i rei avrebber d’elli.


Se alcuna non si prende qui pure in senso di niuna, la bellezza del concetto è tradita; e basta por mente a ciò che conseguita per rimanerne convinti. Dante parla qui de’ poltroni: dice che la lor vita è tanto bassa, che invidiosi son d’ogni altra sorte, cioè anche della sorte de’ reprobi; dice che misericordia e giustizia li sdegna, dice che sono a Dio spiacenti ed a’ nemici sui, dice in somma che nè pure i dannati li vogliono in compagnìa, tanto son vili e sprezzati e abborriti. Dopo ciò non è egli aperta contraddizione il dirli atti a recar qualche gloria? e a chi poi? a chi li detesta e rifiuta. Ma alcuna [p. 114 modifica]stando in luogo di niuna il concetto è bellissimo, nè Dante poteva trovar modo di rendere più spregevole la condizione di questi sciaurati che mai non fur vivi, quanto col fare che l’inferno stesso ricusi di riceverli nel suo seno. Questo sentimento d’orgoglio negli stessi dannati è sublime, ed è stato fonte di grandi bellezze al Milton nel disegnare il carattere di Satana. Il Machiavelli l’intese certo nel senso mio, ma buffonescamente in quel suo epigramma:

La notte che mori Pier Soderini
     L’alma n’andò dell’Inferno alla bocca;
     E il diavol gli gridò: anima sciocca,
     Che Inferno? Vanne al Limbo co’ bambini.


Tornando ai latini, tra’ vocaboli ambigui di che parliamo trovasi expers, che ha valor negativo del pari che affirmativo. Il presente passo di Persio non ne lascia alcun dubbio, e ne iilustra uno di Orazio nella s. 8, l. 2, e un altro di Catullo nella Chioma di Berenice. Orazio scherzando sulla cena di Nasidieno motteggia un certo vino di Chio, dicendolo Chium maris expers; e con questo expers di doppio ed opposto significato viene con leggiadra ironìa a chiamarlo Chio fatto in casa, e Chio navigato nel tempo stesso. Queste parole a due tagli, dirò così, fanno effetto bellissimo nel linguaggio satirico pungendo insieme e lodando. La lingua italiana ne ha di molte, che nel discorso famigliare si usano tuttodì, fra le quali è notissimo il bravo, da par suo, de’ Gesuiti, col qual detto avevano quegli accorti trovato un modo gentile di lodare e corbellare tutto ad un tempo. Niuno, ch’io mi sappia, tra’ commentatori d’Orazio ha rilevata la finezza del senso dianzi avvertito, e molto meno l’avrei saputo far io senza l’aiuto di peritissimo conoscitore delle grazie oraziane, il cittadino Consultor Paradisi, matematico insigne, ed erede del genio paterno sì nel verso che nella prosa.

Ma ecco il passo di Catullo che fa impazzare tutti i suoi traduttori ed interpreti, tuttochè Persio li metta sul buon cammino:

Quicum ego, dum virgo quondam fuit, omnibus expers
     Unguentis, una millia multa bibi.


Gl’interpreti che pigliano l’expers in senso di privazione fanno dire a questa nobilissima chioma (poichè è dessa che parla) una cosa di poco onore per lei, e da tacersi, anzi che da cantarsi, quella cioè di non aver bevuto, durante la virginità di Berenice, nè una stilla pure d’unguento. Poteva toccar di peggio alle sordide e [p. 115 modifica]miserabili chiome d’una villana? L’Einsio convinto non poter stare co’ capelli di regale donzella questa assoluta privazione d’aromi, e non pensando alla doppia forza dell’expers, sostituisce omnibus expersa unguentis, lezione sospettata anche dai due Dacier. Il Marcilio vuole aspersa, e il Valckenario expleta, ben sentendo tutti che in questo passo la ragione e il buon senso chiamano e vogliono imperiosamente un vocabolo che esprima non privazione, ma partecipazione e copia d’unguenti. Giuseppe Scaligero provandosi, siccome ha tentato pure il Salvini, di restituire il testo dell’elegia di Callimaco sulla traduzione fattane da Catullo, rende l’expers latino col participio δευόμενος, che gode di doppia e contraria significazione: la prima di bagnato, irrigato, inzuppato, la seconda di privo, bisognoso, mancante. Può stare adunque che questo δευόμενος fosse appunto la voce usata qui da Callimaco, e che il suo traduttore Catullo per non mandare la lingua latina inferiore di privilegi alla greca sia andato a cercare in quell’expers un termine equivalente ed anfibio. Questo ingegnoso sospetto non è mio, ma di uno fra’ molti e bravi studenti dell’Università di Pavia, il giovane Mustoxidi corcirese, ch’io son solito di chiamare il mio Plutarco, perchè sin d’ora questa nascente speranza de’ buoni studi sa un po’ di tutto e il sa bene.

Il P. Pagnini, a cui dobbiamo tante e si belle versioni dal greco, traduce a piè pari

Con lei, priva d’odor, mentre fu vergine ec.


Che questa astinenza d’odori la corra bene per una chioma claustrale e socratica, siccome quella dell’egregio traduttore, l’intendo. Ma priva d’odori la chioma di avvenente donzella? di donzella educata al trono fra le morbidezze di una corte voluttuosa? la chioma in fine di Berenice, le cui profusioni nei balsami sono celebri nella storia quanto il costo delle piramidi? E poniamo che mentre le assire, le persiane, le arabe, le caldee, le greche, tutte in somma le vergini del mondo tutto saturavano liberamente i capelli di quante volevano quintessenze odorose, poniamo, io dissi, che il costume egiziano fosse stato sì rigido da interdirle, a che pro la chioma medesima vien ella a ricordare questi suoi sfregi? Ov’è la convenienza del pensiero, ove il decoro della regal condizione, la creanza in fine e il giudizio del poeta che la deifica?

Il Vossio, per uscire del ginepraio, legge omnibus expers unguentis murrae millia multa bibi, e adoprasi di provare che alle fanciulle pria [p. 116 modifica]d’andare a marito non era conceduto che l’uso della semplice mirra. Ma lasciando stare che la lezione murrae non è che una congettura senza appoggio di codice, io consulto i trattatori tutti quanti della materia unguentaria, e trovo tutto l’opposto della vossiana asserzione: trovo di più che unguentum è vocabolo generico che abbraccia tutta sorta d’odori si composti che semplici. Nel seno di questo termine generale io ho dunque non pure il nardo, l’amaraco, il cinnamomo, e quanti altri stillati odoriferi si possano mai concepire, ma la mirra eziandio, ed anzi la mirra prima di tutti, poichè μύρον suona unguento, e il profumiere, che in latino è unguentarius, in greco è μυροπώλης. Ora leggendo come il Vossio pur vuole, omnibus expers unguentis murræ millia multa bibi, non è egli lo stesso stessissimo che il leggere omnibus expers unguentis, unguenti millia multa bibi? E l’acre ingegno di Foscolo che nel suo bel commento alla chioma Berenicea ha difeso l’opinione del Vossio, può egli contentarsi e applaudirsi di questo senso? Colgo qui volentieri occasione di dare a questo ancor giovane ma già celebre ingegno un argomento certissimo d’amicizia e di stima, confutandolo. Egli chiama uno scherzo erudito lo splendido suo lavoro: ma quando il peso dell’erudizione viene alleviato da continui tratti di bella e sentita filosofia, lo scherzo non può consistere che in qualche pungente vivacità, ignoscenda quidem scirent si ignoscere docti, cioè i pedanti. Del resto s’egli è tanto adesso che scherza, che sarà di noi allor quando farà da vero? E per l’onore d’Italia io desidero che ciò sia presto.

Io sperava d’aver posto fine a questo dotto litigio (che in ultimo sallo Iddio se vale un cece col buco), ma il Casaubono e con seco altri eruditi mi riconducono a Persio, e gridano che maris in questo luogo è genitivo non di mare, ma di mas; e che allora sapere maris expers deve spiegarsi sapienza non maschia, cioè, molle, effemminata. L’intenzione è ottima, ma l’espressione latina non corrisponde; poichè se maris è genitivo di mas, allora sapere maris expers suona netto e chiaro sapienza che non ha sperimentato il maschio, ovvero non toccata dal maschio. La quale sporca metafora buonissima per la pulledra d’Orazio, che ludit exsultim, metuitque tangi, se del pari convengasi alla sapienza, il lascio decidere a chi ben conosce il pudore degli stalloni nella monta delle cavalle. Lo Stelluti rigettando l’opinione del Casaubono (il quale però alla fine declina nel sentimento da noi adottato), fa del passo d’Orazio e di Persio tutto un [p. 117 modifica]pasticcio, e con una sua curiosa erudizione spiegando li Chium maris expers del primo per un vino non fatturato coll’acqua marina, finisce col paragonare, senza avvedersene, il sapere del secondo ad una bottiglia: poi traduce, non si sa come,

. . . . . . . . . . . dopo che questo
Nostro saper, a cui per anco noto
Non era il navigar, dal greco lito
Col pepe e con le palme in Roma venne.


e così indovinala, Grillo. Non debbo separarmi da questa nota (la quale, spero, interessa tutta l’alta e bassa pedanterìa) senza avvertire che il venit precedente, alcuni il vogliono derivato non da venio ma da veneo. O s’interpreti venne, o piuttosto si vende, la sentenza torna la stessa. Se non che la prima interpretazione è sostenuta da quel verso di Giovenale in proposito appunto di un grecolo ciarlatano:

Advectus Roman quo pruna et coctona vento;


verso visibilmente coniato su quello di Persio. Inoltre io comprendo bensì come la sapienza greca sia venuta a Roma cum pipere et palmis, poichè la nave che porta le droghe porta anche il filosofo; ma non intendo come con queste droghe si venda pure la filosofia.

laurus. v. 43. — In occasione di riportata vittoria se ne mandava al senato l’avviso con lettere laureate. Deride qui Persio (felicemente contra il suo solito) la sognata vittoria germanica di Caligola, e i preparativi del suo trionfo procurati da Cesonia sua moglie. Leggine, se vuoi ridere, il racconto in Svetonio.

centum paria. v. 48. — Sottintendi di gladiatori.

non adeo. v. 51. — Piglierebbe affar grande chi tutte volesse riportare le varie e matte interpretazioni, colle quali si è vessato questo passo, a mio parere, chiarissimo. L’erede interrogato e comandato di spiegarsi chiaro su le spese degli spettacoli che il vecchio si è ostinato di dare, nè osando apertamente contraddirgli spaventato da quel væ nisi connives, si schermisce e tira a distornelo con una risposta indiretta, ricordandogli che ha tuttavia un podere non abbastanza ridotto a coltivazione, non adeo exossatus ager. Il che torna lo stesso che dirgli: se hai questa voglia di spendere, spendi nel bonificare quel fondo. Meritano poi davvero la scutica quegl’interpreti che leggono non audeo in vece di non adeo, non si accorgendo, che così il verso cammina zoppo.

lampada. v. 61. — Allude alla corsa de’ lampadiferi, che si [p. 118 modifica]faceva correndo nudi, e consegnandosi l’uno dopo l’altro delle faci fino ad un segno determinato. A questa corsa paragona Lucrezio la vita umana, e Persio l’ordine delle successioni. L’uno e l’altro assai bene.

popa venter. v. 74. — Popa sustantivo significa vittimario: qui però è fatto addiettivo e val pingue, ed ha molta forza e proprietà, null’altro essendo il mestiere de’ vittimarj, che il ferire le vittime, ingozzarsele, ed ingrassare.

catasta. v. 77 — Era una specie di tavolato eminente, e chiuso da cancelli di legno, ove si sponevano alla vendita ben tersi e ingrassati gli schiavi: fra’ quali erano in pregio singolarmente per bella corporatura quelli di Cappadocia.

acervi. v. 80. — Il sillogismo acervale, altrimenti sorite, di cui narrano inventore Crisippo, era una subdola e cavillosa argomentazione procedente all’infinito. L’intendimento adunque di Persio si è di mostrare che i limiti alle brame dell’avarizia sono ardui a fissarsi quanto quelli dell’argomento sorite.







fine.