Satire (Ariosto 1809)/Satira III
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AD
ANNIBALE
MALAGUZZO
SATIRA TERZA
Seguita pure in dannare la servitù delle corti: duolsi delle promesse a lui dal Pontefice non osservate: dimostra le cagioni delle malagevolezze, che si trovano in acquistare le ricchezze: ed in ultimo danna l’avarizia e la malvagità de’ Cortigiani.
Poi, che Annibal intendere vuoi, come
La fo col Duca Alfonso, e s’io mi sento
Più grave, o men, de le mutate some:
Perchè s’anco di questo mi lamento,
Tu mi dirai, c’ho il guidaresco rotto,
E ch’io son di natura un rozzon lento:
Senza molto pensar dirò di botto,
Che un peso e l’altro ugualmente mi spiace,
E fora meglio a nessun esser sotto.
Dimmi, or c’ho rotto il dosso, e se ti piace,
Dimmi, ch’io sia una rozza, e dimmi peggio:
In somma esser non so, se non verace:
Che, s’al mio genitor, tosto ch’a Reggio
Daria mi partorì, faceva il giuoco,
Che fè Saturno al suo ne l’alto seggio,
Sì che di me sol fosse questo poco,
Nel qual dieci tra i frati e le sirocchie
È bisognato, che tutti abbian loco;
La pazzia non avrei de le ranocchie
Fatta giammai, d’ir procacciando, a cui
Scoprirmi il capo, e piegar le ginocchie.
Ma poi che figliuol unico non fui,
Nè mai fu troppo a ’ miei Mercurio amico,
E viver son sforzato a spese altrui;
Meglio è, s’appresso il Duca mi nutrico,
Che andare a questo e a quel de l’umil volgo
Accattandomi il pan, come mendico.
So ben, che dal parer de i più mi tolgo:
Lo stare in corte stimano grandezza;
Io pel contrario a servitù rivolgo.
Stiaci volentier dunque chi l’apprezza:
Fuor n’uscirò ben io; s’un dì il Figliuolo
Di Maria vorrà usarmi gentilezza.
Non si adatta una sella, o un basto solo
Ad ogni dosso: ad un par che non l’abbia,
A l’altro stringe, e preme, e gli dà duolo.
Mal può durar il rosignuolo in gabbia:
Più vi sta il cardellino, e più il fanello:
La rondine in un dì vi muor di rabbia.
Chi brama onor di sproni, o di cappello,
Serva Re, Duca, Cardinale, o Papa;
Io no, che poco curo e questo, e quello.
In casa mia mi sa meglio una rapa,
Ch’io cuoco, e cotta su uno stecco inforco,
E mondo, e spargo poi di aceto e sapa;
Che a l’altrui mensa tordo, starna, o porco
Selvaggio: e così sotto una vil coltre,
Come di seta, o d’oro, ben mi corco:
E più mi piace di posar le poltre
Membra, che di vantarle, che a gli Sciti
Sian state, a gl’Indi, a gli Etiòpi, ed oltre.
De gli uomini son varj gli appetiti;
E chi piace la chierca, a chi la spada,
A chi la patria, a chi gli strani liti.
Chi vuol andar a torno, a torno vada,
Vegga Inghilterra, Ungheria, Francia, e Spagna:
A me piace abitar la mia contrada.
Visto ho Toscana, Lombardía, Romagna;
Quel Monte che divide, e quel che serra
Italia, e un mare e l’altro, che la bagna.
Questo mi basta; il resto de la terra,
Senza mai pagar l’oste, andrò cercando
Con Tolomeo, sia il mondo in pace, o in guerra.
E tutto il mar, senza far voti, quando
Lampeggi il ciel, sicuro in su le carte
Verrò, più che su i legni, volteggiando.
Il servigio del Duca, d’ogni parte,
Che ci sia buona, più mi piace in questa,
Che dal nido natío raro si parte.
Perciò gli studj miei poco molesta,
Nè mi toglie, onde mai tutto partire
Non posso, perchè il cor sempre ci resta.
Parmi vederti qui ridere, e dire,
Che non amor di patria, nè di studi,
Ma di donna è cagion, che non voglio ire.
Liberamente tel confesso; or chiudi
La bocca, che a difender la bugía
Non volli prender mai spada, nè scudi.
Del mio star qui qual la cagion si sia,
Io ci sto volentieri; ora nessuno
Abbia a tor, più di me, la cura mia.
S’io fossi andato a Roma, dirà alcuno,
A farmi uccellator de’ benefici,
Preso a la rete n’avrei già più d’uno:
Tanto più ch’ora de gli antichi amici
Del Papa, innanzi che virtude, o sorte
Lo sublimasse al sommo de gli uffici;
E prima, che gli aprissero le porte
I Fiorentini, quando il suo Giuliano
Si riparò ne la Feltresca corte;
Ove col formator del Cortigiano,
Col Bembo, e gli altri sacri al divo Apollo,
Facea l’esilio suo men duro, e strano;
E dopo ancor, quando levaro il collo
Medici ne la patria; e il Gonfalone,
Fuggendo del palazzo, ebbe il gran crollo;
E fin, che a Roma s’andò a far Leone,
Io gli fui grato sempre, e in apparenza
Mostrò amar più di me poche persone.
E più volte Legato, ed in Fiorenza
Mi disse, che al bisogno mai non era
Per far da me al fratel suo differenza.
Per questo parrà altrui cosa leggiera,
Che stando io a Roma, già m’avessi posta
La cresta dentro verde, e di fuor nera.
A chi parrà così, farò risposta
Con uno esempio: leggilo, che meno
Leggerlo a te, che a me scriverlo, costa.
Una stagion fu già, che sì il terreno
Arse, che ’l Sol di nuovo a Faetonte
De ’ suoi corsier parea aver dato il freno.
Secco ogni pozzo, secco era ogni fonte;
Li stagni, i rivi, e i fiumi più famosi
Tutti passar si potean senza ponte.
In quel tempo d’armenti, e de’ lanosi
Greggi, io non so s’io dico ricco, o grave
Era un pastor fra gli altri bisognosi;
Che poi che l’acqua per tutte le cave
Cercò in darno, si volse a quel Signore,
Che mai non suol fraudar, chi in lui fede have;
Ed ebbe lume, e inspirazion di core,
Ch’indi lontano trovería nel fondo
Di certa valle il desiato umore.
Con moglie e figli, e con ciò ch’avea al mondo,
Là si condusse; e con gli ordigni suoi
L’acqua trovò, nè molto andò profondo:
E non avendo con che attinger poi,
Se non un vaso picciolo ed angusto,
Disse: che mio sia ’l primo non v’annoi.
Di mogliema il secondo, e ’l terzo è giusto,
Che sia de’ figli, e il quarto, e fin che cessi
L’ardente sete, onde è ciascuno adusto.
Gli altri vo’ ad un ad un, che sien concessi,
Secondo le fatiche, a li famigli,
Che meco in opra a far il pozzo ho messi.
Poi su ciascuna bestia si consigli;
Che di quelle, che a perderle è più danno,
Innanzi a l’altre la cura si pigli.
Con questa legge un dopo l’altro vanno
A bere; e per non esser i sezzai,
Tutti ivi grandi i lor meriti fanno.
Questo una Gaza, che già amata assai
Fu dal padrone, ed in delizia avuta,
Vedendo, ed ascoltando, gridò: guai!
Io non gli son parente, nè venuta,
A far il pozzo, nè di più guadagno
Gli son per esser mai, ch’io gli sia suta;
Veggio, che dietro a gli altri mi rimagno:
Morrò di sete, quando non procacci
Di trovar per mio scampo altro rigagno.
Cugin, con questo esempio vo’ che spacci
Quei, che credon, che ’l Papa porre innanti
Mi debba a Neri, a Vanni, a Lotti,e a Bacci.
I nipoti, e i parenti, che son tanti,
Prima hanno a ber; poi quei, che l’ajutaro
A vestirsi il più bel di tutti i manti.
Bevuto ch’abbian questi, gli fia caro,
Che beano quei, che contra il Soderino
Per tornarlo in Firenze si levaro.
L’un dice: io fui con Pietro in Casentino,
E d’esser preso e morto a risco venni:
Io gli prestai denar, grida Brandino.
Dice un altro: a mie spese il frate tenni
Un anno, e lo rimessi in veste e in arme;
Di cavallo, e d’argento gli sovvenni.
Se fin, che tutti beano, aspetto a trarme
La volontà di bere; o me di sete,
O secco il pozzo d’acqua veder parme.
Meglio è star ne la solita quíete,
Che provar, s’egli è ver, che qualunque erge
Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete.
Ma sia ver, se ben gli altri vi sommerge,
Che costui sol non accostasse al rivo,
Che del passato ogni memoria asterge.
Testimonio son io di quel, ch’io scrivo;
Ch’io non l’ho ritrovato, quando il piede
Gli baciai prima, di memoria privo.
Piegossi a me da la beata sede;
La mano, e poi le gote ambe mi prese,
E ’l santo bacio in amendue mi diede.
Di mezza quella Bolla anco cortese
Mi fu, de la qual ora il mio Bibiena
Espedito m’ha il resto a le mie spese.
Indi col seno, e con la falda piena
Di speme, ma di pioggia molle e brutto,
La notte andai fin al Montone a cena.
Or sia vero, che ’l Papa attenda tutto
Ciò, che già offerse, e voglia di quel seme,
Che già tant’anni sparsi, or darmi il frutto.
Sia ver, che tante mitre, e diademe
Mi doni, quante Giona di Cappella
A la messa Papal non vede insieme;
Sia ver, che d’oro m’empia la scarsella,
E le maniche, e ’l grembo; e se non basta,
M’empia la gola, il ventre, e le budella;
Sarà per questo piena quella vasta
Ingordigia d’aver? rimarrà sazia
Per ciò la sitibonda mia cerasta?
Dal Marocco al Catai, dal Nilo in Dazia,
Non che a Roma, anderò, se di potervi
Saziare i desiderj impetro grazia.
Ma, quando Cardinale, o de li servi
Io sia il gran servo; e non ritrovino anco
Termine i desiderj miei protervi;
In ch’util mi risulta essermi stanco
In salir tanti gradi? meglio fora
Starmi in riposo, o affaticarmi manco.
Nel tempo, ch’era nuovo il mondo ancora;
E che inesperta era la gente prima;
E non eran l’astuzie, che son ora;
A piè d’un alto monte, la cui cima
Parea toccasse il cielo, un popol, quale
Non so mostrar, vivea ne la valle ima;
Che più volte osservando la ineguale
Luna, or con corna, or senza, or piena, or scema,
Girare il cielo al corso naturale;
E credendo poter da la suprema
Parte del mondo giungervi, e vederla
Come si accresca, e come in sè si prema;
Chi con canestro, e chi con sacco per la
Montagna, cominciar correr in su,
Ingordi tutti a gara di tenerla.
Vedendo poi non esser giunti più
Vicini a lei, cadeano a terra lassi,
Bramando in van d’esser rimasi giù:
Quei, ch’alti li vedean dai poggi bassi,
Credendo che toccassero la Luna,
Dietro, venian con frettolosi passi.
Questo monte è la ruota di Fortuna,
Ne la cui cima il volgo ignaro pensa,
Ch’ogni quiete sia, nè ve n’è alcuna.
Se ne l’onor contento, o ne la immensa
Ricchezza si trovasse, io loderei
Non aver, se non qui, la voglia intensa.
Ma se vediamo i Papi, e i Re, che Dei
Stimiamo in terra, star sempre in travaglio,
Che sia contento in lor, dir non potrei.
Se di ricchezze al Turco, o s’io m’agguaglio,
Di dignitate al Papa, ed ancor brami
Salir più in alto, e mal me ne prevaglio;
Convenevol è ben, che ordisca e trami
Di non patire a la vita disagio,
Che, più di quanto ho al mondo, è ragion ch’ami.
Ma, se l’uomo è sì ricco, che sta ad agio
Di quel, che dà Natura, contentarse
Dovria, se fren pone al desir malvagio:
Che non digiuni, quando vorria trarse
L’ingorda fame, ed abbia fuoco e tetto,
Se dal freddo, o dal Sol vuol ripararse:
Nè gli convenga andare a piè, se astretto
È di mutar paese; ed abbia in casa
Chi la mensa apparecchi, e acconci il letto.
Chi mi può dare o mezza, o tutta rasa
La testa, più di questo? ci è misura ·
Di quanto pon capir tutte le vasa.
Convenevole è ancor, che s’abbia cura
De l’onor suo; ma tal, che non divenga
Ambizíone, e passi ogni misura.
Il vero onore è, ch’uom da ben ti tenga
Ciascuno, e che tu sia: che non essendo,
Forza è, che la bugia tosto si spenga.
Che Cavaliero, o Conte, o Reverendo
Il popolo ti chiami, io non t’onoro,
Se meglio in te, che ’l titol, non comprendo,
Che gloria t’è vestir di seta e d’oro,
E quando in piazza appari, o ne la chiesa
Ti si levi il cappuccio il popol soro?
Poi dica dietro: ecco chi diede presa
Per danari a’ Francesi Porta Giove,
Che ’l suo Signor gli avea data in difesa.
Quante collane, quante cappe nuove
Per dignità si comprano, che sono
Pubblici vituperj in Roma, e altrove?
Vestir di romagnuolo, ed esser buono,
Io mi contento: ed a chi vuol con macchia
Di bareria, l’oro e la seta dono.
Diverso al mio parer il Bomba gracchia,
E dice: abb’io pur roba, e sia l’acquisto
O venuto pel dado, o per la macchia:
Sempre ricchezze riverir ho visto
Più che virtù; poco il mal dir mi nuoce;
Se riniega anco, e si bestemmia Cristo:
Pian piano, Bomba, non alzar la voce:
Bestemmian Cristo gli uomini ribaldi
Peggior di quei, che lo chiovaro in croce.
Ma ben gli onesti, e i buoni dicon mal di
Te, e dicon ver, che carte false, e dadi
Ti danno i beni, c’hai mobili, e saldi.
E tu dai lor da dirlo, perchè radi
Più di te in questa terra straccian tele
D’oro, e broccati, velluti, e zendadi.
Quel, che dovresti ascondere, rivele;
A’ furti tuoi, che star devrian di piatto,
Per me’ mostrarli, allumi le candele:
E dai materia, ch’ogni savio, e matto
Intender vuol, come ville, e palazzi
Dentro e di fuor in sì pochi anni hai fatto;
E come così vesti, e così sguazzi;
E risponder è forza, che a te è avviso
Esser grand’uomo, e che dentro ne guazzi.
Pur che non se lo veggia dire in viso,
Non stima il Borno, che sia biasmo, s’ode
Mormorar dietro, ch’abbia il frate ucciso.
Se ben è stato in bando un pezzo, or gode
L’ereditate in pace; e chi gli agogna
Mal, freme in darno, e indarno se ne rode.
Quell’altro va se stesso a porre in gogna,
Facendosi veder con quella aguzza
Mitra, acquistata con tanta vergogna.
Non avendo più pel d’una cucuzza,
Ha meritato con brutti servigi
La dignitate, e ’l titolo che puzza
A gli spirti celesti, umani, e stigi.