Satire (Ariosto 1809)/Satira IV

Satira IV

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Satira III Satira V
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A

M. SIGISMONDO

MALAGUZZO


SATIRA QUARTA

Per certo governo datogli dal Duca dimostra, quanto egli fosse mal atto ad altro esercizio, che a quel delle Muse: e che l’essere preso da amore non è laudabile molto ne gli uomini di tempo.

Il ventesimo giorno di Febraio
     Chiude oggi l’anno, che da questi monti,
     Che danno a’ Toschi il vento di Rovaio,
Qui scesi, dove da diversi fonti
     Con eterno romor confondon l’acque
     La Turrita col Serchio fra duo ponti,
Per custodir, come al Signor mio piacque,
     Il gregge Grafagnin, che a lui ricorso
     Ebbe, tosto ch’a Roma il Leon giacque:
Che spaventato, e messo in fuga, e morso
     L’aveva dianzi, e l’avria mal condotto,
     Se non venía dal Ciel giusto soccorso.

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E questo in tanto tempo è il primo motto,
     Ch’io fo a le Dee, che guardano la pianta,
     De le cui fronde io fui già così ghiotto.
La novità del loco è stata tanta,
     C’ho fatto, come augel, che muta gabbia,
     Che molti giorni resta, che non canta.
Sigismondo cugin, che taciuto abbia
     Non ti meravigliar, ma meraviglia
     Abbi, che morto non sia ormai di rabbia,
Vedendomi lontan cento e più miglia,
     E m’abbian monti, e fiumi, e selve escluso
     Da chi tien del mio cor sola la briglia.
Con altre cause e più degne mi scuso
     Con gli altri amici (a dirti il ver); ma teco
     Liberamente il mio peccato accuso.
Altri, a chi lo dicessi, un occhio bieco
     Mi volgerebbe addosso, e un muso stretto:
     Guata poco cervel, poi diría seco.
Degno uom, da chi esser debba un popol retto,
     Uom, che poco lontan da cinquant’anni
     Vaneggi ne i pensier di giovinetto.
E direbbe il Vangel di San Giovanni;
     Che se ben erro, pur non son sì losco,
     Che ’l mio error non conosca, e ch’io no ’l danni.
Ma che giova, s’io il danno, e s’io ’l conosco?
     Se non ci posso riparar? ne trovi
     Rimedio alcun, che spenga questo tosco?

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Tu forte, e saggio, che a tua posta muovi
     Questi affetti da te, che in uom nascscendo,
     Natura affigge con sì saldi chiovi!
Fisse in me questo, e forse non sì orrendo,
     Come in alcun, c’ha di me tanta cura,
     Che non può tollerar, ch’io non mi emendo;
E fa, come io so alcun, che dice e giura,
     Che quello e questo è becco, e quanto lungo
     Sia il cimier del suo capo non misura.
Io non uccido, io non percuoto, o pungo,
     Io non do noia altrui; se ben mi dolgo,
     Che da chi meco è sempre, io mi dilungo:
Per ciò non dico, nè a difender tolgo,
     Che non sia fallo il mio; ma non sì grave,
     Che di via più non ne perdoni il volgo.
Con minor acqua il volgo, non che lave
     Maggior macchia di questa, ma sovente
     Al vizio titol di virtù dato have.
Ermilian sì del denaio ardente,
     Come d’Alessi il Gianfa, e che lo brama
     Ogn’ora in ogni loco, da ogni gente:
Nè amico, nè fratel, nè se stesso ama;
     Uomo d’industria, uomo di grande ingegno,
     Di gran saper, di gran valor si chiama.
Gonfia Rinieri, ed ha il suo grado a sdegno;
     Esser gli par quel, che non è; più innanzi
     (Che in tre salti ir non può ) si mette il segno.

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Non vuol, che in ben vestir altri l’avanzi;
     Spenditor, Scalco, Falconiero, e Cuoco,
     Vuol chi lo scalzi, e chi li tagli innanzi.
Oggi uno, e diman vende un altro loco,
     Quel, che in molt’anni acquistàr gli avi, e i patri,
     Getta a man piene, e non a poco a poco.
Costui non è chi morda, o che gli latri;
     Ma liberal, magnanimo si noma
     Fra i volgari giudicj oscuri ed atri.
Solonio di faccende sì gran soma
     Tolle a portar, che ne saria già morto
     Il più forte somier, che vada a Roma.
Tu ’l vedi in Banchi, a la Dogana, al Porto,
     In Camera Apostolica, in Castello,
     Da un ponte a l’altro a un volger d’occhi sorto.
Si stilla notte e dì sempre il cervello,
     Come al Papa ogn’or dia freschi guadagni,
     Con dazj nuovi, e multe, e con balzello.
Gode fargli saper, che se ne lagni,
     E dica ogn’un, che a l’util del padrone
     Non riguardi parenti, nè compagni.
Il popol l’odia, ed ha d’odiar ragione;
     Se d’ogni mal, che la città flagella,
     Gli è ver, ch’egli sia il capo, e la cagione.
E pur grande, e magnifico s’appella,
     Nè, senza prima discoprirsi il capo,
     Il nobile, o ’l plebeo mai gli favella.

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Laurin si fa de la sua patria capo,
     Ed in privato il pubblico converte;
     Tre ne confina, a sei ne taglia il capo;
Comincia volpe, ed indi a forze aperte
     Esce leon, poi c’ha il popol sedutto
     Con licenze, con doni, e con offerte:
Gl’iniqui alzando, e deprimendo in lutto
     I buoni, acquista titolo di saggio,
     Di furti, stupri, e d’omicidj brutto.
Così dà onore a chi dovrebbe oltraggio,
     Nè sa da colpa a colpa scerner l’orbo
     Giudicio, a cui non mostra il Sol mai raggio;
Estima il corbo cigno, e il cigno corbo:
     Se sentisse, ch’io amassi, faria un viso,
     Come mordesse allora allora un sorbo.
Dica ognun, come vuole, e siagli avviso
     Quel che gli pare: in somma ti confesso,
     Chi qui perduto ho il canto, il giuoco, e il riso.
Questa è la prima, ma molt’altre appresso,
     E molt’altre ragion posso allegarte,
     Che da le Dee m’han tolto di Permesso.
Già mi fur dolci inviti a empir le carte
     I luoghi ameni, di che il nostro Reggio,
     Il natío nido mio n’ha la sua parte.
Il tuo Maurizían sempre vagheggio,
     La bella stanza, e ’l Rodano vicino
     Da le Naiade amato ombroso seggio.

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Il lucido vivaio, onde il giardino
     Si cinge intorno, ’l fresco rio che corre,
     Rigando l’erbe, ove poi fa il molino.
Non mi si pon de la memoria torre
     Le vigne, e i solchi del fecondo Iaco,
     Le valle, e ’l colle, e la ben posta torre.
Cercando or questo, ed or quel loco opaco,
     Quivi in più d’una lingua, e in più d’un stile,
     Rivi traea fin dal Gorgoneo laco.
Erano allora gli anni miei fra Aprile
     E Maggio belli, ch’or l’Ottobre dietro
     Si lasciano, e non pur Luglio, e Sestile.
Ma nè d’Ascra potrian, nè di Libetro
     Le amene valli, senza il cor sereno,
     Far da me uscir gioconda rima, o metro.
Dove altro albergo era di questo meno
     Conveniente a i sacri studj, voto
     D’ogni giocondità, d’ogni orror pieno?
La nuda Pania tra l’Aurora e ’l Noto,
     De l’altre parti il giogo mi circonda,
     Che fa d’un Pellegrin la gloria noto.
Questo è una falda, ove abito, profonda,
     D’onde non muovo piè senza salire
     Del selvoso Appennin la fiera sponda.
O starmi in rocca, o voglia a l’aria uscire,
     Accuse, e liti sempre, e gridi ascolto,
     Furti, omicidj, odj, vendette, ed ire.

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Sì, che or con chiaro, or con turbato volto
     Convien, ch’alcuno prieghi, alcun minacci,
     Altri condanni, ed altri mandi assolto;
Ch’ogni dì scriva, ed empia fogli, e spacci
     Al Duca or per consiglio, or per aiuto,
     Sì che i ladron, c’ho d’ogn’intorno, scacci.
Dei saper la licenza, in ch’è venuto
     Questo paese, poi che la Pantera,
     Indi il Leon l’ha fra gli artigli avuto.
Qui vanno gli assassini in sì gran schiera,
     Che un’altra, che per prenderli ci è posta,
     Non osa trar del sacco la bandiera.
Saggio chi dal castel poco si scosta:
     Ben scrivo a chi più tocca, ma non torna,
     Secondo ch’io vorrei, mai la risposta.
Ogni terra in se stessa alza le corna;
     Che sono ottantatrè tutte partite
     Da la sedizíon, che ci soggiorna.
Vedi or, se Apollo, quando io ce lo invite,
     Vorrà venir, lasciando Delfo, e Cinto,
     In queste grotte a sentir sempre lite.
Dimandar mi potresti, chi m’ha spinto
     Da i dolci studj, e compagnia sì cara
     In questo rincrescevol laberinto?
Tu dei saper, che la mia voglia avara
     Unqua non fu; ch’io solea star contento
     De lo stipendio, che traea in Ferrara.

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Ma non sai forse, come uscì poi lento
     Succedendo la guerra; e come volse
     Il Duca, che restasse in tutto spento?
Fin che quella durò, non me ne dolse;
     Mi dolse di veder, che poi la mano
     Chiusa restò, ch’ogni timor si sciolse.
Tanto più che l’ufficio di Melano,
     Poi che le leggi mi tacean fra l’armi,
     Bramar gli affitti suoi mi facea in vano.
Ricorsi al Duca: o voi, Signor, levarmi
     Dovete di bisogno, o non v’incresca,
     Ch’io vada altra pastura a procacciarmi.
Grafagnini in quel tempo, essendo fresca
     La lor revoluzion, che spinto fuori
     Avea Marzocco a procacciar d’altr’esca,
Con lettere frequenti, e ambasciatori
     Replicavano al Duca, e facean fretta
     D’aver lor capi, e loro usati onori.
Fu di me fatta una improvvisa eletta,
     O fosse, perchè il termine era breve
     Di consigliar chi pel miglior si metta:
O pur fu appresso il mio Signor più leve
     Il bisogno de’ sudditi, che ’l mio;
     Di ch’obligo gli ho, quanto se gli deve.
Obligo gli ho del buon voler, più ch’io
     Mi contenti del dono, il quale è grande,
     Ma non molto conforme al mio desio.

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Or se di me a quest’uomini dimande;
     Potrian dir, che bisogno era di asprezza,
     Non di clemenza a l’opre lor nefande.
Come nè in me, così nè contentezza
     È forse in lor; io per me son quel Gallo,
     Che la gemma ha trovato, e non l’apprezza.
Son come il Veneziano, a cui il cavallo
     Di Mauritania in eccellenza buono
     Donato fu dal Re di Portogallo;
Il qual, per aggradire il real dono,
     Non discernendo, che mestier diversi
     Volger timoni, e regger briglie sono;
Sopra vi salse, e cominciò a tenersi
     Con mani al legno, e co’ sproni a la pancia:
     Non vo’ (seco dicea) che tu mi versi.
Sente il cavallo pungersi, e si lancia;
     E ’l buon nocchier più allora preme, e stringe
     Lo sprone al fianco, aguzzo più che lancia,
E di sangue la bocca, e ’l fren li tinge:
     Non sa il cavallo a chi ubbidire, o a questo
     Che ’l torna indietro, o a quel che l’urta e spinge.
Pur se ne sbriga in pochi salti presto:
     Rimane in terra il Cavalier col fianco,
     Con la spalla, e col capo rotto e pesto.
Tutto di polve, e di paura bianco
     Si levò al fin, del Re mal satisfatto,
     E lungamente poi se ne dolse anco.

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Meglio avrebbe egli, ed io meglio avrei fatto;
     Egli il ben del cavallo, io del paese;
     A dir: o Re, o Signor, non ci son atto;
Sii pur a un altro di tal don cortese.