Saggi critici/Studio sopra Emilio Zola
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[ 5i ]
STUDIO SOPRA EMILIO ZOLA1
I
La corruzione politica.
Emilio Zola è il pittore inesorabile di quella vasta corruzione francese, che, larvata sotto il regno di Luigi Filippo, si snudò il seno sfacciatamente sotto l’Impero.
Nessun regno prometteva cosí bene di sé, come quello di Luigi Filippo. Re colto e intelligente, educato dalla sventura, circondato di uomini illustri, portato sugli scudi dalla parte piú eletta della nazione. Il suo sogno fu «le just e milieu», un partito moderato lontano dagli estremi, in bilico tra legittimisti e repubblicani. Dopo il primo va e vieni, il regno borghese e a suffragio ristretto prese quella forma, e di quella visse e di quella mori. Quando l’un estremo ingrossava e minacciava, si facevano certe concessioni «prò forma», e udivi fieri discorsi sulla politica estera, magnifiche frasi sulla Polonia, impetuose tirate contro i gesuiti, e si restituiva la patria alle ceneri di Bonaparte. Queste concezioni non erano aurora di nessun nuovo sistema, erano parentesi, presto chiuse, e ricominciava il solito periodo. Il periodo era lo «statu quo», il «bonum est nos sic esse», la pace «á tout prix» al di fuori, e al di dentro la quiete con la piú ampia soddisfazione degl’interessi materiali: fu perciò chiamato il regno de’ soddisfatti. Quando tornavano a rumoreggiare, si poggiava a destra, si facevano leggi repressive, si amoreggiava co’ duchi e co’ conti. Questo «juste milieu» con movimenti tattici a destra o a sinistra fu chiamato «jeu de bascule». Era un regno all’italiana, perché gl’italiani sono eccellenti nell’arte del mezzo termine. Caratteristica di quel regno era il difetto di ogni ideale e di ogni scopo; ciò che dicevasi stabilitá dinastica e politica, o in altri termini lo «statu quo». Il movimento faceva paura, e non intendevano quei conservatori dottrinarii, che non si conserva se non mutando e rimutando, come avviene di ogni corpo vivo. La teoria diplomatica dell’equilibrio fu applicata alla politica interna, e tutto il «savoir faire» fu posto nel prender linguaggio ora di destra, ora di sinistra, e volger l’una contro l’altra le due bandiere, senza una bandiera propria. Sotto al luccicare delle frasi sentivi il vacuo di un partito volteggiatore senza bandiera. La tattica riuscí’ a dare una vita artificiale a questo regno anemico. Si mirò a creare interessi, a farsi amici, a costituire un partito numeroso nel Parlamento, e ad assicurare la sua base nei collegi elettorali. Venne l’era del favoritismo e della corruzione. Si appagarono le vanitá co’ nastri, e gli appetiti coi grassi affari. La legion d’onore brillò su tutte le lordure, e con gli appalti, le concessioni e i fondi segreti si sviluppò l’affarismo. Cosí fu creato un corpo elettorale a immagine de’ deputati, e il buon Guizot, gioiva, e diceva a elettori e deputati: — Arricchitevi! — .
Pure questa corruzione era limitata e pudica. Voglio dire che attingeva solo le classi politiche, e rimaneva coperta sotto la splendida vernice della scienza e dell’eloquenza. Nondimeno il male che fece questo regno fu gravissimo, perché quando lo sfibramento de’ caratteri e delle coscienze prende le alte classi, è difficile arrestare il contagio nei piú umili strati sociali.
E questo avvenne sotto l’Impero, che non impedí quella corruzione, anzi se ne fece base e arte di governo. Col suffragio universale entrarono nella vita politica tutte le basse classi, e la corruzione si dilatò, s’infiltrò in tutta la nazione. In luogo di soddisfare a’ legittimi bisogni di queste classi, e sollevare il loro ambiente intellettuale e morale, 1 ’ Impero se ne fece adulatore, e secondò i piú bassi istinti, ponendo a suo servigio l’ignoranza credula de’ contadini e la cupidigia astiosa degli operai. Quel regno di «pervenuti», memori ancora dei trivii e delle case di gioco e di piacere onde uscirono, prese l’aria di quei bassi fondi sotto all’insolito splendore degli ori e delle porpore. La corruzione in alto s’incrociava con la corruzione in basso, e si comunicavano le piú cattive loro qualitá. Ne’ piú umili villaggi si sviluppò la febbre del potere e del guadagno, e i piú piccoli borghesi sognavano milioni e prefetture. Nelle alte regioni, tra’ piú elevati fini politici sentivi la puzza della sentina, sentivi ne’ piú alti funzionarii talora la spia, il mezzano, il femminiero, il giocatore, il basso affarista.
In mezzo a quest’atmosfera viziata menò la prima giovinezza Emilio Zola. E quando, compiuti gli studii classici con molta lode, calmati i bollori e gli affanni giovanili, si guardò d’attorno e prese la penna, quel sozzo quadro dell’Impero gli tornò innanzi, e gli offri ricca materia ai suoi racconti. Quei suoi Contes á Ninon esprimono i palpiti della sua giovinezza piena d’inganni e di disinganni. Venne Thérèse Raquin, un romanzo psicologico, dove un’analisi profonda e insieme minuta dá giá la misura delle sue forze geniali. Ma non ci è ancora il novatore, non ci è lo scrittore originale. Lascia i racconti d’immaginazione, e studia il reale e il nudo. E allo studio si presenta come modello Parigi sotto l’Impero. La corruzione a Plassans e la corruzione alle Tuileries sono le due corruzioni incrociate, eroi Rougon padre e figlio, il padre a Plassans, il figlio a Parigi. Questa è la materia de’ due romanzi, La fortune des Rougon e Son Excellence Eugène Rougon, materia sparsa anche un po’ dappertutto negli altri romanzi.II
La corruzione sociale.
Un giorno la letteratura prendeva di mira i nobili, e li assaliva con l’ironia, col sarcasmo, col ridicolo; poi toccò a’ borghesi, personificati ne’ banchieri, affaristi, borsisti e simili; oggi viene la volta della bassa borghesia e degli operai, i preconizzati eredi del Terzo stato, decorati col nome di popolo, vocabolo che dal suo significato generico fu tirato a designare propriamente queste ultime classi.
Sotto nome di socialismo fu inaugurata la lotta di questo popolo contro le classi superiori. A poco a poco, secondo che la lotta prendeva carattere piú sociale che politico, il popolo si trasformò negli operai, la parte prominente e chiassosa ne’ grandi centri, i soldati di tutte le rivoluzioni, i combattenti delle barricate.
La letteratura prese un carattere sociale, e rappresentò la miseria e la bravura degli operai e del popolo, e fece valere il suo patriottismo e i suoi diritti. S’invocò l’ingerenza dello Stato contro la libera concorrenza, e la missione dello Stato fu posta nell’assicurare «le droit au travail». La prima Repubblica si trovò innanzi questo formidabile problema, e non potè scioglierlo che a colpi di fucile. Il secondo Impero, portato su dalle classi operaie, fece meglio: lo sciolse con la corruzione.
Corrompendo le classi superiori, i gruppi propriamente politici, con l’affarismo, i piaceri, gli onori, i guadagni illeciti, non fece che sviluppare su piú larga scala il sistema Guizot. Corrompendo le «masse», la «vile multitude», segui le tradizioni del romano impero, anch’esso democratico, volte le spalle alle classi superiori.
A quelli storici che vantano Cesare, primo corruttore della democrazia romana, potrei domandare quale fu la storia di quella democrazia imperiale, o piuttosto se quella democrazia ebbe una storia. In veritá, ella è morta, e di vivo ci è solo Tacito, che la dipinse e la marchiò. Oggi una falsa democrazia tenta la riabilitazione di Tiberio o di Nerone o di Caligola, principi democratici, e dannano Tacito come aristocratico e calunniatore. Principi democratici di quella fatta compariscono come un cattivo genio fra le nazioni decadute, fattisi capi e promotori della universale corruzione, secondando gl’istinti piú grossolani delle moltitudini per sete di falsa popolaritá, e usando i vizii pubblici a istrumento di governo. Questo fu il cesarismo, e a quel tipo s’informò il secondo Impero, vagheggiando qualcosa di simile a quel sistema di governo, che si compendiò in due parole: «panetti et circenses». Demolí Parigi per dar pane agli operai, imprese vaste costruzioni, favori industrie equivoche, sviluppò il lusso, i bisogni fattizii, le feste e i piaceri; agglomerò in vasti mercati quella moltitudine turbolenta di Parigi, come bestie ben domesticate e ben pasciute, ridotte a immagine della borghesia soddisfatta. Sognavano il progresso sociale e si ebbe la corruzione sociale. Cosi fu sciolto il problema.
Quell’Impero si disse progressista e democratico. E fu un falso progresso e una falsa democrazia. Perché progresso c’è quando si eleva lo stato economico, morale e intellettuale della nazione, e base della vita pubblica sia la giustizia, e base della vita privata sia l’onesto lavoro.
E democrazia c’è quando le classi inferiori con l’istruzione, con la educazione, co’ buoni esempi, con la disciplina si avvicinino alle classi piú colte e piú educate. Quello era un progresso e una democrazia a rovescio, tendente a sviluppare la parte animale e grossolana, e ad abbassare tutta la nazione a quegli strati infimi, che si chiamavano popolo.
Agglomerate le moltitudini in quei vasti mercati, abbandonate a’ loro istinti e a’ loro vizii, alle loro malizie e alle loro industrie equivoche, vegetavano sotto l’occhio paterno di una polizia vigile e bene ordinata, che a custodire la verginitá del loro cervello tenea li in mezzo spie e agenti segreti e sapeva tutto e vedeva tutto. Fu il regno della pancia piena e del cervello vuoto. E la pancia ebbe la sua filosofia, ridotta a moneta spicciola, a uso di tutti. Quella gente a viso rubicondo, a sazio ventre, chiamava furfanti quelli che si mescolavano di politica e pescavano nel torbido, annodando intrighi e cospirazioni, e sosteneva che l’onesta gente dee pensare al suo commercio, e provvedere al ventre, e non darsi malinconia, caschi il mondo. Cosa importava a questa gente onesta, a questo ventre, la Francia, e il suo avvenire e la libertá? La memoria fresca di Cajenna fortificava ne’ meno docili questa filosofia pecorina a uso della gente onesta. Sonavano ancora nell’orecchio tra il fischio delle palle quelle parole memorabili: «Que les scélerats tremblent, et que les honnêtes gens se rassurent!».
Questo ha voluto rappresentare Emilio Zola nel suo romanzo: Le ventre de Paris. Passato è il tempo che gli scrittori inneggiavano agli operai, vantando la loro virtú e i loro diritti. Zola descrive questa democrazia corrotta di Parigi senza pietá, senza velo, nella sua cruda e oscena nuditá. E se ti senti male, e se ti vengono i brividi, questo ha voluto lui, persuaso che primo rimedio a’ grandi mali è avere una coscienza di quelli cosí viva e presente, che non ti lasci tranquillo e ti sforzi a meditarvi su.
Un fuggitivo di Cajenna cerca rifugio nella casa del fratello, divenuto un grosso e grasso e onesto pizzicagnolo. La testa forte della casa è la moglie. Lisa, la bella del quartiere, l’oracolo del marito. Florent, il fuggitivo, divenuto ispettore de’ mercati, assiste di per di a quella contaminazione universale, e glie ne viene lo stomaco, e nella sua semplicitá partecipa a intrighi sciocchi contro l’Impero. La cognata, per amore del suo quieto vivere, e grazie alla nuova filosofia dell’onesta gente, lo denunzia in tutta tranquillitá di coscienza alla Polizia, e un bel giorno è arrestato in mezzo agli applausi di tutti gli onesti, e vede il suo compagno di stanza divenuto il suo delatore, e delatori i suoi compagni di congiura, e la sua amante sposa della sua spia. Onde un certo pittore scapato, che ha conservato un po’ di rettitudine tra tutta quella gente onesta, preso da orrore esclama: — «Quels gredins que les honnêtes gens!» — . In queste ultime parole è tutto il sugo del romanzo.
In un ambiente sociale cosí morboso anche i buoni sono condotti fatalmente verso la miseria e la vergogna. La vita sociale è una lenta e inavvertita depravazione de’ nostri buoni istinti e buoni sentimenti. Come si fa a mantenersi un onesto uomo in una societá dove il senso morale è cosí pervertito, che gli onesti sono messi in canzone come sciocchi, e uomini notoriamente furfanti, a guisa di meretrici che predichino castitá, si fanno essi predicatori di onestá, e trovi chi stringa loro la mano? Una societá è perduta, quando il tornaconto è di essere un accorto briccone, anzi che un brav’omo. Tra questi esempi un marito e una moglie, a cui non mancavano dei buoni istinti e delle corrette abitudini, si lasciano attrarre dall’onda, si che insinuandosi negli animi loro a poco a poco l’infezione comune, finiscono nell’ultima depravazione dell’idiotismo e della miseria. Questo è il tema dell’Assommoir. E questa pittura fa Zola della democrazia parigina sotto il secondo Impero.
Di questi due romanzi il successo è stato clamoroso, e molte le edizioni. Il che mostra per lo meno che lo scrittore ha messo il dito nella piaga.
III
La corruzione naturale.
La corruttela politica e sociale, in cui era la Francia fin da’ tempi di Luigi Filippo, aveva giá ispirato il romanzo francese. Esauste le velleitá classiche e romantiche, la letteratura volgeva le spalle alle Lucrezie romane e medioevali, i due tipi delle due scuole combattenti, e prendeva abito e colore nazionale, scegliendo a materia la storia e i costumi paesani, ora per via di allusioni, cerne nel Roi s’amuse, ora per via di tesi, come dalla Matilde della Sand alla Femme de Claude del Dumas ora per via d’intrecci atti a muovere la curiositá, come ne’ Misteri di Parigi. Questi romanzi sono in fondo psicologici, avendo per base un’azione determinata dallo sviluppo de’ caratteri o de’ fenomeni psichici. Questo è il vero titolo d’onore della moderna letteratura dirimpetto all’antica, di aver sostituito agl’intrecci curiosi e attraenti de’ Gil Blas, delle Pamele e delle Clarisse una storia fina e conscia dell’anima, dove è principe il Balzac, non solo per arte di stile, ma per finezza di osservazione.
Ma il romanzo psicologico non poteva parere sufficiente ne’ tempi nostri, quando i fenomeni psichici non sono piú un primo filosofico, anzi sono un effetto di cause piú alte e piú lontane. La storia psicologica è divenuta una storia naturale, dove resta assorbita l’anima stessa. Come questa trasformazione sia avvenuta anche nell’arte, e per quali gradazioni, e con quali strani miscugli di panteismo e di materialismo, riflettendo in sé in modo grezzo e talora contraddittorio tutto il movimento intellettuale di questo secolo, sarebbe un lavoro critico interessantissimo e sperabile, se i nostri letterati, sperduti nella critica spicciola e giornaliera, e spesso frivola, si volgessero a queste altezze. Incalzato dall’argomento, io esamino in che modo questo movimento si riflette in Emilio Zola.
È naturale che, educato in mezzo a questo nuovo ambiente del pensiero moderno, il nostro giovine dee guardare il romanzo alla Balzac come una forma giá esaurita, e dee volgere in mente un «nescio quid» corrispondente a’ nuovi studii. Nella sua audacia giovanile tutte le regole dell’arte generalmente ricevute gli paiono fittizie e arbitrarie, e dice in sé stesso: — La regola sono io — .
Fu un ribelle cosí appassionato, come nel collegio era stato un appassionato apostolo. Adorava in Provenza quello che bruciò a Parigi. Lá al suo banco di scuola, con gli occhi nel classico professore, scrivendo, ficcando tutto nella memoria come Vangelo, era tenuto primo tra’ primi, colmo delle spoglie opime dette premi scolastici, conquistate nello studio de’ classici. Il dabben professore sognava in lui qualche redivivo Virgilio. Sognava anche lui, cuore tenero, immaginazione ardente, sognava amori, felicitá, ignoti ideali, sotto a quel bel cielo di Provenza caro a’ Trovatori. Ebbe il suo piccolo romanzo comune a’ giovani, amori, follie, lacrime, gioie, e poi disinganni, disperazioni. La sua fede nell’ideale fu scossa; il dubbio gli consunse l’anima. A sedici anni andò a Parigi, portandosi appresso l’immagine della nativa Provenza, la patria della sua amata. Vi andò malinconico, incredulo, senza orizzonte, senza avvenire, come era Leopardi nella solitaria Recanati. Ma Zola era sano e forte; la sua malattia era morale, propria de’ grandi predestinati, quando cercano e non trovano ancora sé stessi. A Parigi fu la crisi; gli si apersero nuovi orizzonti, nuovi studii; Parigi gli parve un immenso laboratorio, dove si seppellí e studiò. Vide come un nuovo avvenire, fondato sulla realtá e sulla scienza. Cosa gli parvero allora que’ sogni e quegl’ideali e quegli amori e quegli studii classici e quella vita di collegio? Si formò in lui l’uomo nuovo; e il primo segno fu una ribellione feroce contro sé stesso, l’odio di quello ch’ei fu. Lo scettico ne avrebbe riso: il nuovo credente se ne indegna, odia e maledice. E scrive Mes haines, libro di una fede piena di bile, dove l’odio contro le dottrine scolastiche e la servitú classica è uguale al suo entusiasmo innanzi a quella luce di scienza e di realtá, a quel nuovo sole che gl’irradia l’avvenire europeo. La sua ambizione è di essere il precursore, l’operaio della prima ora. «Les décombres tombant avec fracas, une poussière de plátre emplit l’air.» A noi «l’angoisse amère de l’enfantement», a’ nostri nipoti «les enivrantes salisfactions que donne l’oeuvre édifiée».
Mena la vita tra’ piú corrotti strati di Parigi e il raccoglimento dello studio. Quella vasta corruzione politica e sociale non l’offende, non lo disgusta, anzi lo attira, come materia di studio e di scienza, e ci sta dentro con lo stomaco a tutta prova di uno studente di medicina, che sta fra’ cadaveri come in un giardino balsamico. Osservatore e pensatore a un tempo, quella corruzione è a lui una realtá interessante ch’egli studia nei suoi particolari piú minuti e piú puzzolenti, con la soddisfazione di un pensatore, che ci vede cosí bene applicati principii della scienza.
Ed eccogli innanzi il principio dell’elezione naturale e della lotta per resistenza e dell’adattamento e della ereditá e dell’ambiente, il nuovo catechismo dell’avvenire come a lui appare. La psicologia diviene fisiologia, il carattere diviene temperamento: virtú e vizi! sono buoni o cattivi istinti, fenomeni naturali stampati nelle protuberanze del capo e nei segni della fisonomia. È una rivoluzione ch’egli trasporta nell’estetica, e ne fa la sua idea fissa. Egregio Zola, chi ci sa spiegare da quale tua protuberanza è nata questa tua idea fissa? Ne domanderemo al professore Tommasi.
E con questa idea in capo concepisce un poema «nescio quid majus Iliade», composto di romanzi staccati, che sono come le fila di un vasto ordito non ancora compiuto, e che si potrebbe continuare sino alla consumazione de’ secoli. È la storia di una famiglia, che dal suo vecchio Adamo va innanzi di generazione in generazione, e in fondo sempre quella, sempre col marchio della famiglia in fronte.
L’Adamo di questa famiglia è papá Rougon, e l’Èva è mamma Felicita. Figli e figlie si portano appresso istinti paterni e materni, secondo il principio di ereditá, istinti variamente modificati dal temperamento, dall’ambiente, dal clima storico.
Papá Rougon era una legittimista di Plassans. Ma il figlio Eugenio sta a Parigi, fiuta il bonapartismo, diviene suo agente segreto. Vince Bonaparte, ed eccoti papá Rougon divenuto un ricevitore a gran contento di mamma Felicita, Eugenio a poco a poco diviene Sua Eccellenza, il fratello Aristide si rivela un affarista di prima forza, e fa gli affari suoi e di Eugenio. Rougon, Eugenio, Aristide, sono giá tre romanzi. Poi vengono i romanzi delle figlie. E vedi in iscena Lisa, Marta. Aggiungi nipoti, cognati, i zii e le zie, hai storie interminabili. Felice chi può tenere in mente quel filo epico, o, se vi piace meglio, scientifico, che cuce e annoda un si gran numero di storie!
Dove questo concetto appare piú netto e piú terribile, è nella Curée. Ivi di padre corrotto e fiacco vedi uscir figlio peggiore infemminito anche nella vita di collegio, e voltolarsi in questa duplice corruzione una femmina moglie del padre, concubina del figlio. Una storia impossibile, ma cosí preparata, con cosí fina analisi, con tanta evidenza e naturalezza di gradazioni, che tu all’ultimo dici: — Non poteva essere altrimenti — .
L’ultima parola di questa corruzione è la follia e l’idiotismo. Vedi la Conquête de Plassans. Una Rougon, consunta di amore pretino, impazzisce, e muore alla vista di una sottana presso al suo capezzale! Era Sergio, il figlio prete, e le parve l’altio: «Elle expira, en apercevant, dans la clarté rouge, la scrutane de Serge».
IV
Il processo ereditario.
Sembra a prima giunta che rappresentare e vituperare la corruttela napoleonica sia lo scopo di questi romanzi, perché quella corruttela dal Due dicembre a Sédan è l’ambiente in cui vive la famiglia Rougon. E come questa famiglia ha la sua storia parte a Parigi, parte a Plassans, quella corruttela vi è dipinta nell’alto e nel basso, in cittá e provincia. Come avviene in simili casi, quella storia individuale non sarebbe che un mezzo ingegnoso e molto in uso di raggiungere un fine più generale. L’individuo ci sta per l’ambiente, serve a farci comprendere quel suo ambiente politico e sociale profondamente corrotto.
E pare che quando Zola pose mano al suo lavoro, questo appunto avesse in animo. Si sente sotto alla sua penna l’odio repubblicano e patriottico verso il vinto di Sédan, un sentimento di repulsione quasi personale, che gli fa caricare le tinte e mancare l’effetto. L’imperatore vi è guardato sotto un aspetto che può esser vero, ma è certamente parziale, e nessuno lo riconoscerá in quel ritratto.
Se non che, appena messo in via, il sentimento artistico piglia la mano, e l’interesse si concentra principalmente nella storia individuale. Questa ha certamente un significato politico e sociale, che a mente fredda, quando l’interesse artistico è consumato, offre ricca materia di meditazione al pensatore.
E non è neppure questa storia individuale che interessa lo scrittore, si che il motivo che colora lo stile sia la varietá e la qualitá degli avvenimenti. Ciò che lo interessa, non è la storia, ma il processo storico.
Come un filosofo volge la sua curiositá e il suo interesse non ai fatti, ma alle leggi che li governano; cosí tutta l’attenzione dello scrittore è volta a spiegarci la genesi degli avvenimenti, o, come si dice, la logica, il processo della storia. Questo ò il nuovo e il piccante del racconto.
Il principio di ereditá è il suo cavallo di battaglia. — Dimmi onde vieni, e ti dirò chi sei. — Come la qualitá ereditaria si mantenga sempre in tutte ie varietá e modificazioni della vita, questa è la novitá, che attira attorno a sé come farfalla il nostro artista.
Pietro Rougon è figlio di un giardiniere, che sposò Adelaide, la figlia del suo padrone, morto pazzo allo spedale. Rougon padre mori dopo quindici mesi di matrimonio, e Adelaide entrò in relazioni illecite con un Macquart, un contrabbandiere, da cui ebbe due bastardi, Antonio e Orsola. C’era nello spirito di Adelaide un ramo di quella pazzia che colse e uccise suo padre. Ecco gli antecedenti ereditarii.
Pietro, il figlio legittimo, era
Pietro ha il buon senso egoistico e avido del contadino, che gli serve di contrappeso a’ malati nervi materni, e i cui effetti si veggono spiccati ne’ due bastardi, figli di Macquart il contrabbandiere. Da questa base ereditaria nasce la storia della famiglia Rougon-Macquart.
In tutta questa famiglia ci è la incubazione de’ piú violenti appetiti. Ma ne’ Rougon l’aviditá è soddisfatta, perché accompagnata con la chiarezza e la tenacitá dello scopo, e l’intelligenza de’ mezzi. Ne’ Macquart i nervi inconsistenti della madre e i vizii e la vita a caso del padre contrabbandiere suscitano desiderai che pullulano insoddisfatti in mezzo a una vita oziosa, viziosa e senza scopo. Perciò il ramo legittimo prospera; il ramo bastardo ammiserisce e scende ne’ piú bassi strati sociali.
Pietro Rougon, il capo della famiglia, spoglia tutti, spoglia la madre, spoglia fratello e sorella. Il fratello dice un giorno:
Rougon, arricchitosi a spese della madre e de’ fratelli, sposa Felicita, figlia di un mercante d’olio. Il giardiniere s’ingentilisce, diviene un negoziante. Felicita è una donnetta svelta e intelligente e fanno un bel paio.
Rougon è laborioso, ordinato, e sta co’ conservatori; Antonio è un ozioso vagabondo, e vive a spese della moglie e de’ figli, dicendo ogni male possibile del fratello che l’ha spogliato, e della societá e de’ ricchi. Il loro destino è scritto nella loro vita e la loro vita è determinata da condizioni ereditarie. La madre comune fini, come suo padre, al manicomio.
Venuto il bonapartismo, Rougon salva anche lui la societá a Plassans come Bonaparte l’avea salvata a Parigi, e ne ha in merito l’ufficio di ricevitore e il nastro rosso. Antonio, il disonore della famiglia, è fatto tacere e andar via a furia di quattrini.
I figli di Rougon hanno chi l’una, chi l’altra qualitá di padre e madre. Eugenio è tutto papá, ma l’intelligenza e la sveltezza l’ha da mamma Felicita, e, cominciando spia, finisce ministro dell’ordine, ’e poi ministro della libertá, voltabile con quel fiuto del vento, ch’era qualitá di famiglia. Aristide piglia dal padre la cupidigia e l’affarismo, e dalla madre la vanitá del lusso, si gitta nelle speculazioni piú arrischiate, diviene un milionario col piede sempre nella bancarotta, tira ne’ suoi vizii e ne’ suoi disordini figlio e moglie, che sfogano ozii e libidini nello stesso letto, e spoglia la moglie, come il padre aveva spogliato la madre. Marta era tutto sua nonna, corpo e anima, prese da lei le crisi nervose, le scissure dell’anima, e mori pazza come lei. Il solo Pascal non ha nulla di ereditario per una eccentricitá della natura, e riesce un distinto e modesto scienziato. Passò la vita a meditare appunto questo principio dell’ereditá, e mentre la nonna in un’ultima crisi nervosa vien folle, e Rougon dá i danari ad Antonio perché andasse via, e Antonio conta quelle colonne di marenghi, Pascal presente guarda impassibile madre e figli, e li avvicina, li paragona, pensa al principio dell’ereditá. In questo Pascal Zola ha voluto adombrare sé stesso.
Questa è la storia del ramo legittimo. Veniamo a’ bastardi, Antonio e Orsola, figli di contrabbandiere.
Orsola, maritata a un Muret, cappellaio, muore consunta, mutatasi in tisi la neurosi materna. Il marito di dolore s’impicca. Lascia due figli, Francesco e Silverio. Francesco diviene un commesso in casa Rougon, ed è, come la cugina Marta, tutto sua nonna. Cugino e cugina si sposano, e finiscono tutt’e due pazzi come la nonna, una fine ereditaria determinata da un prete che fa della quieta e buona Marta prima una pinzochera, e poi un’amante. Silverio vive in casa la nonna, solo con sola, una vita concentrata, malinconica, tutto nonna e libri, cosí a caso e senza guida. Empie la mente di vaghi ideali, s’unisce agl’insorti contro il colpo di Stato, lui e la Mictte, la portabandiera, la fanciulla amata; una palla uccide lei sul campo, e lui prigioniero è fucilato lá, in quel cimitero che fu testimonio de’ loro primi colloqui amorosi. La esaltazione nervosa della nonna era in lui, e il sangue dell’avventuriere, del contrabbandiere. Madre tisica, fratello pazzo, lui un esaltato, un entusiasta, un predestinato martire del gendarme.
Questa è la storia ereditaria di Orsola e figli. Vediamo Antonio.
Sposa una venditrice di castagne, Fina, anima di colomba, corpo di gigante. E vive in casa di lei e a spese di lei. All’una piace il fumetto, all’altro il vino, e si bastonano di santa ragione. Figli simili. Lisa, belloccia, grassoccia, sanguigna come la madre, amica della buona vita come il padre, fu regalata a una signora a Parigi, e lá diviene il modello di ciò che Zola chiamò Ventre de Paris. Gervasia concepita tra l’ubbriachezza e le percosse, di cui portava il segno nella coscia dritta, pallida, sottile, un bel visetto tondo e delicato, visse tra fumetto e amori, correndo le vie, e fu poi l’eroina dell’Assammoir, morta idiota e miserabile. C’è poi Giovanni, robusto come la madre, ineducato come il padre. E chi sa di qual romanzo, ancora a nascere, sará l’eroe Giovanni.
Tutti questi romanzi sono, dunque, una storia ereditaria di due famiglie uscite dalla stessa madre, l’una legittima e l’altra bastarda.
Il carattere comune delle due famiglie, ed ereditario, è l’aviditá, che fa gli uni salire e gli altri scendere, e si sviluppa in mezzo a quadri vivaci della corruttela napoleonica, politica e sociale.
Il romanziere ha voluto cogliere due piccioni a una fava; ha voluto rappresentare il principio ereditario in istoria individuale, e ha voluto servarsi di queste istorie per rappresentare la corruttela pubblica.
V
L’ideale di Zola.
L’interessante in questi romanzi di Zola non è la storia, ma il processo storico. I fatti ci stanno per dimostrale questa veritá formolata da Leibnitz, che il futuro è generato dal presente, e il presente dal passato, o, in altri termini, che la storia del mondo non è un gioco casuale, ma è una serie di cause e di effetti, la cui base, e qui è l’interessante, è fisiologica, e perciò ereditaria. I diversi racconti, come s’è visto, non sono che movimenti ed evoluzioni di un solo principio ereditario, la storia di una famiglia ne’ due suoi rami, legittimo e bastardo, fondata sulla successione ereditaria, de’ temperamenti, degli istinti, de’ vizii e della virtú.
Di questo principio un certo sentore istintivo non è mancato mai nella umanitá, guidata dalla esperienza. E ne fanno prova parecchie sentenze e proverbii, come: «tal padre, tal figlio», e «se vuoi conoscere la figlia, guarda la madre». Ma questo era un piú o meno, un approssimativo, un proverbio sperduto tra mille. A nessuno mai era venuto in mente di fondare su questo principio la storia del mondo. E ciò ha fatto Zola, introducendo un nuovo fattore nella filosofia della storia, il principio fisiologico o ereditario, modificato e sviluppato dall’ambiente sociale.
Come il romanzo psicologico ebbe a suoi antenati Cartesio, Malebranche, Pascal, una fina analisi de’ caratteri, degl’istinti e de’ sentimenti abbozzata da filosofi prima che l’arte vi avesse posto mano; cosí Zola ha avuto a suo predecessore Darwin e la sua scuola, o, com’egli dice con fede intera, la scienza. Ciò che la scienza inizia, l’arte compie.
Zola ha detto: — Quello che l’uomo è, in gran parte giá è stato ne’ genitori — . Ora, questo principio, dimostrato oggi con esattezza scientifica, e giá ammesso prima sotto nome di «predisposizioni ereditarie», diviene il filo conduttore, e, se posso dir cosí, la mente o l’idea di tutt’i suoi racconti.
É l’idea sua, ma non è l’idea del lettore. Il quale non è possibile che la segua attraverso a tutto quel labirinto di legittimi e bastardi, di maschi e femmine, di suoceri e nuore e cognati e zíi e nipoti e nonne, e per non avere il capogiro si chiude in ciascun romanzo, e abbandona a lui la sua idea e il suo filo conduttore. Capisco che nessun romanzo si può né intendere né gustare tutto senza quelli che precedono e che seguono; ma il lettore preferisce una mezza intelligenza e un mezzo gusto, e lo pianta li. O cosa importa a lui il concetto scientifico, il principio della ereditá? Questo, se vuole, lo vedrá in Darwin o nelle lezioni del professore Tommasi. Un lavoro d’arte non spiega e non dimostra; materializza e forma, a quel modo che secondo il professore Tommasi l’uomo nella cellula proligera materializza tutto sé stesso, il suo tipo umano, vizii e virtú, difetti, malattie e bellezze. In questa virtú inconsciente è l’artista. E parimente il lettore non domanda come si spiegano i fatti, ma se li vuol vedere avanti muoversi come li vede nel mondo. Il valore de’ fatti e anche la loro spiegazione dee risultare dallo stesso loro succedersi e concatenarsi e dal vivo della rappresentazione. Se voi ponete a quelli per base una idea critica e spiega ti va, e fate di quella il perno e la chiave de’ vostri racconti, il lettore non vi siegue.
D’altra parte, la scienza può bene concentrare l’attenzione su di un solo principio e stabilirlo in tutt’i suoi aspetti, e poi passare ad altro. Ma un lavoro d’arte è rappresentazione simultanea della vita, e voi non potete spiegarmela con un solo fattore, senza mutilarla e insieme esagerarla. Il principio ereditario non è il solo fattore della vita, e se voi volete ridurmi la vita a quello, cadete in esagerazione. In effetti, la logica della vita vi costringe a metter ne’ vostri racconti molte cose che sono fuori di quel principio e anche contro. Il vostro Pascal voi me lo chiamate una eccentricitá della natura. Ma la natura è cosí piena di queste eccentricitá che talora la eccezione diviene regola. E a ogni modo è impossibile che voi tiriate avanti con questo filo conduttore senza stiracchiature, e costruzioni artificiose, e applicazioni forzate, che fanno sorridere. E all’ultimo, che gusto c’è ad imparare con si lungo cammino e intricato quello che si legge in mezz’ora in una pagina scientifica?
Scommetto che non ci sia stato nessun lettore cosí paziente, che abbia potuto seguire il romanziere in tutt’i suoi andirivieni ereditarii. Ma cosa importa a lui? È la sua idea fissa, ed è l’energia di questa idea, che ha fatto di lui un artista. Gli è parso di vedere nuovi colori, nuovi movimenti e attitudini dei fatti, nuovi processi e spiegazioni. Ha avuto come una rivelazione di un nuovo mondo dell’arte, e lo ha amato, e se n’è ispirato. £ quella idea che gli ha data la pazienza di cosí vasti orditi, e di cosí tenaci connessioni, e gli ha aguzzata l’invenzione e gli ha aperte le piaghe piú occulte delle azioni umane.
Se vogliamo comprendere e gustare Zola, dobbiamo dimenticare la sua idea, quella appunto che gli ha acceso il sangue ed esaltato il cervello. O piuttosto dobbiamo farla nostra idea, spogliandola di quelle forme particolari sotto alle quali è apparsa a Zola. Invano il maestro ci sgriderá e ci chiamerá all’ubbidienza. Per noi il filo è rotto, l’omnibus è in rovina, la parentela è dimenticata, tutta quella costruzione anatomica-fisiologica-ereditaria con tanto studio ingegnoso messa su va in dileguo. Leggiamo romanzo per romanzo, prendiamo i personaggi cosí come sono, e poco ci cale il loro cognome, e di chi sieno o nipoti o zii; sono essi innanzi tutto che c’interessano; è il romanzo in sé stesso che ci piace o ci dispiace; le derivazioni, le origini, le connessioni, le spiegazioni le rendiamo all’autore; non è roba che ci possiamo assimilare.
Quando abbiamo innanzi uno di questi romanzi, diciamo subito: — Ecco un romanzo realista, — e ci facciamo a quella forma e a quel processo. Ci troviamo anche il principio ereditario; ma lo mettiamo a posto, e non gli diamo una importanza né principale, né grande; l’istinto artistico ci porta a mirare l’attuale e il presente, e le origini le lasciamo all’archeologia. Ben vogliamo nel presente mirare qualche cosa che è morto come catena degli esseri; ma è un sentimento filosofico di cui teniamo conto nell’arte, come di cosa accessoria. Quella che ci pizzica e ci stimola è la vita in atto, nella sua realtá. E perché questo troviamo in Zola, diciamo: — L’idea di Zola è il realismo. — Sicuro, risponde Zola; ma la fonte delle fonti, il principio de’ principii, la realtá della realtá, è il legame ereditario; un romanzo non si può intendere che non si leggano tutti; la mia opera non è questo o quello, è il tutto, è un universo; fuori di qua non ci è piú creazione, ci è il caos; volete voi distruggere il mio universo, volete il caos? — Si, lo vogliamo, e ci nuotiamo al di dentro deliziosamente. Eccomi innanzi una giovinetta simpatica, piena di grazia; io sto con gli occhi in quegli occhi neri e dolci, e il cuore mi batte; e tu vuoi spiegarmi in lei suo padre e sua mamma e sua nonna; ma per la croce di Dio, fatti in lá, ch’io vegga, ch’io ami quella cara creatura; cosa è dirimpetto a lei tutto il tuo universo? cosa importa a me la tua scienza? — Questo è l’amore, e questa è l’arte.
VI
L’artista.
Lasciamo stare il legame intellettuale che cuce insieme i romanzi di Zola e fa di quelli un tutto solo, non compiuto ancora. Quel legame serve all’artista per creare nella sua fantasia l’illusione di un mondo nuovo scoperto e appercetto da lui, e stimolare la sua facoltá inventiva e concentrare la sua attenzione. A noi sfugge la cucitura; ma rimane la tela, pezzo per pezzo.
Ma anche a lui che è un artista, avviene il medesimo. Una volta entrato nel romanzo, quell’insieme ereditario diviene accessorio, e gli sta innanzi questo o quello, e si applica a rilevarlo in tutta la sua realtá, vale a dire in tutt’i suoi fattori. Prima di slanciare nell’azione il suo personaggio, fa la sua critica, cioè a dire espone tutti gli elementi di cui quello è un impasto. Carattere principale di questo secolo decimonono è appunto il lavoro critico che si va sempre più sviluppando. Ritrarre l’uomo nella storia, o, come si dice, nell’ambiente, e nel clima storico, era la cima di un lavoro critico. Chi si applicava principalmente all’uomo e inventava caratteri e scrutava e analizzava sentimenti, faceva il romanzo psicologico; chi guardava piú all’ambiente, faceva il romanzo storico. Alcuni sono eccellenti nell’uno e nell’altro genere strettamente collegati, come il Manzoni, uno spirito critico creatore. Questi sono giá realisti, perché le loro analisi psichiche e storiche tendono appunto a togliere l’uomo dal suo astratto isolamento, dalla sua idealitá, e farlo cosa viva, collocarlo nella realtá della sua natura psichica e del suo ambiente storico. Sono realisti; ma persiste in loro un certo ideale di convenzione in cui ponevano l’arte; sicché cercano posizioni psichiche straordinarie e maravigliose, azioni e intrecci solleticanti, e abbelliscono la realtá e caricano il colorito; la passione patriottica o liberale o democratica ingrandisce le lenti. Un bel difetto questo, che la nuova generazione estranea alle nostre generose follie non suol perdonare. E vennero i realisti, piú realisti della realtá. A costoro, che patria? e che umanitá? e che libertá? sono fisime, un mondo fatto senza di loro e chiuso a loro; l’arte non ci ha nulla a vedere. Madama Bovary è piú interessante che Ghita, soprattutto piú vera. E perché quelli stavano un po’ nelle nuvole, questi cercarono l’arte nella melma, e bassi fondi sociali vennero su e divennero motivi artistici. Questo periodo di riabilitazioni archeologiche e di sozzure inverniciate e di pittura da salons, da case da giuoco e da trivio, fu reazione a quell’ideale di convenzione, perciò poco durevole. Segna un’epoca frivola di piaceri e di affari, scomparso momentaneamente dall’orizzonte ogni ideale. Realismo non parve a quest’arte un titolo abbastanza espressivo; si chiamò il «verismo», e non ci è niente di meno vero in questa vita brutta, volgare, mutilata ed esagerata.
L’artista di questa scuola è Zola. È lui, che, pur combattendo ogni tendenza convenzionale dell’arte, e atteggiandosi a novatore, ripiglia le tradizioni, e non distrugge, ma compie il romanzo psicologico e storico assorbendolo e realizzandolo ancora piú nel suo romanzo fisiologico. Quel preteso verismo era una depravazione, come sogliono essere tutte le reazioni. Il realismo di Zola è una continuazione, un ulteriore sviluppo del passato, perciò un passo innanzi, un progresso. Egli è riuscito a riempire una lacuna nello studio critico dell’uomo, aggiungendo all’elemento psichico e storico anche i fattori naturali, prima vita, da cui sorgono gli stessi fenomeni psichici, e la cui azione collettiva forma l’ambiente storico. Naturalmente, come avviene ad ogni novatore, egli fa di questa prima vita la base e l’ordito di tutto il suo universo, e si abitua a guardare tutto con l’occhio medico. Di qui una certa esagerazione e un certo artificio di costruzione. Sono combinazioni intellettuali, che si liquefanno innanzi al calore dell’artista, quando entra nel vivo della rappresentazione, romanzo per romanzo. E allora, tirato dal vero o ispirato dall’argomento, ti fa una critica compiuta dei suoi personaggi a base ereditaria. E trovi tutti gli elementi che concorrono alla formazione di questo o quell’individuo, gl’istinti ereditarii, l’educazione, i contatti, l’ambiente sociale, che sono come tanti strati e formazioni successive, il cui risultato è la psiche o il carattere, l’essere cosí o cosí. Il suo romanzo è dunque uno studio piú acuto e piú compiuto dell’uomo, a base fisiologica. Non è una negazione o diversione; è un progresso artistico corrispondente al progresso scientifico, che ha reso scienza l’antropologia e la pedagogia. E il progresso artistico è anche in questo, che essendo lo studio dell’uomo piú compiuto e vicino alla scienza, quel po’ d’ideale che si notava negli studii imperfetti dei romanzi passati, e che erano scappate di una immaginazione non ancora disciplinata da abitudini scientifiche, si trova ora naturalmente consumato e assorbito.
Prendiamo un esempio. La Lucia del Manzoni ha la bontá di Agnese, sua mamma. Ma la bontá di Agnese in quel suo ambiente contadinesco diviene volgare, e si collega a qualitá conformi, la curiositá, la vanitá, una certa dissimulazione, una certa rilassatezza di sentimenti morali. In Lucia si sente l’azione di padre Cristoforo, e la sua bontá è raffinata da’ sentimenti religiosi, collegata con qualitá superiori alla sua condizione e alla sua coltura. Fin qui si comprende Lucia. Ma l’artista che ha innanzi fini ideali religiosi, e malgrado il suo realismo porta nelle ossa anche lui l’ereditá rettorica del passato, come in certi punti fa di padre Cristoforo una caricatura di costruzione ideale, fa di Lucia un modello, e mentre brucia incenso alla santa, dimentica la donna, a cui dá una delicatezza di sentimenti e una coscienza di sé, che può essere effetto miracoloso della grazia divina, non certo conseguenza spiegabile dello sviluppo naturale. In questa ingenua e buona creatura, fatta una statua ideale in mezzo a questo basso mondo, troviamo non piú lei, ma i fini e l’idea del suo creatore. Questo è l’ideale di convenzione, o la costruzione ideale.
Vediamo ora Miette e Silverio, un episodio ideale in mezzo al basso mondo rappresentato da Zola. Anche loro fanno parte di questo basso mondo e lo portano nel sangue e te lo fanno sentire in mezzo alla poesia della loro gioventú! Miette è figlia ad un avventuriere condannato per ladro, raccolta in una casa per caritá, e chiamata da’ monelli la figlia del ladro. Ha dal padre la robustezza e il coraggio, e le sue tonde e vigorose braccia fanno stupire. Maltrattata, soverchiata, ingiuriata, provocata e provocante, minacciata e minacciosa, tutto questo fondo volgare è trasformato e purificato dall’amore. Ama Silverio, e nessuna religione le ha insegnato il pudore nell’amore. Senza religione, senza educazione, semplice figlia della natura, ha dell’amore una ignoranza eguale al desiderio. Amare è per lei sentire in Silverio come un fratello, e andare dove lui, e parlare a lui, stare insieme, cuore a cuore.
Quando dice a Silverio: — Tu non devi amarmi come sorella; voglio qualcosa di piú; — è grido di natura, non è parola d’impudica. Se tiene alta la bandiera nella battaglia contro il colpo di Stato, gli è perché Silverio è lá, presso a lei. E se non fugge, se tra’ fuggenti sta sempre li, ritta la bandiera, e se cade avvolta con quella, non è bravura, non è sentimento del diritto, non è religione della bandiera, o cosa sa lei di tutto questo? Sono atti inconscienti, che a lei non sono belli e non brutti, sono cosa naturale. Non l’ammiriamo, perché non poteva fare altrimenti. L’impressione che ci fa è questa: la cosa doveva andare cosí. L’uno artista vuole che noi ammiriamo Lucia; l’altro vuole che noi comprendiamo Miette. L’uno sotto forme reali è un idealista; l’altro sotto forme ideali è un realista L’ideale vi è spiegato e messo a posto.VII
Reale e ideale in Zola.
Molti disputano di reale e d’ideale, e spesso senza conclusione, perché manca a parecchi il concetto chiaro e giusto di questi vocaboli.
Si crede che il realismo sia l’opposto dell’ideale, e si crede che l’ideale sia semplicemente un gioco d’immaginazione, una superposizione alla realtá. Con questi falsi presupposti le dispute non possono avere nessuna fine ragionevole.
Che nell’uomo ci sieno caratteri incontestati di animalitá, nessuno l’ha messo mai in dubbio. E mi pare opera sprecata quella di Darwin, quando con tanta copia di osservazioni, anatomiche e fisiologiche, vuol dimostrarmi l’animalitá dell’organismo umano. Quest’animalitá apparisce quasi ella sola nelle origini de’ popoli e nei primi anni degl’individui. L’umano, cioè quello che caratterizza nell’animale l’uomo, apparisce piú tardi.L’appetito si purifica e diviene sentimento, le sensazioni si trasformano in immagini, gl’istinti si alzano a idee. Il progresso non è altro, se non uno scostarsi sempre piú dal comune e dal generale, cioè a dire dalla parte animalesca, e spiritualizzarsi, umanizzarsi, particolarizzarsi, affermarsi come umanitá.
Ci sono certe idee fondamentali che costituiscono l’umanitá, come religione, famiglia, patria, libertá, giustizia, fratellanza umana e simili. Queste idee appariscono prima come sentimenti, immagini, e si chiamano l’ideale, cioè calda aspirazione a un di lá, a una idea pura, non ancora realizzata, ma a cui la realtá vuole avvicinarsi.
Questo è l’ideale nella sua forma spontanea, e ha la sua religione e la sua arte, e anche piú tardi la sua filosofia quando prende nello spirito una forma riflessa e si annunzia come idea.
I semidei, gli eroi, i santi non sono altro che l’espressione storica meno lontana dall’ideale. Naturalmente gli uomini usano una lente d’ingrandimento, guardando tutto a traverso l’ideale, e dove non giunge la realtá suppliscono con l’immaginazione. Indi quell’abbellire e ingrandire il reale, che costituisce l’essenza dell’arte nelle etá eroiche, secondo modelli ideali, e che continuandosi in etá riflessa e d’imitazione ti formano un’arte tipica di convenzione. In questi tempi il modello non è al di fuori, nella realtá, ma è nello spirito, nell’immaginazione. L’uomo vede un modello al di lá di quello che gli offrono i sensi.
Questo stato dello spirito, sviluppato da una conveniente educazione, è favorevole alla produzione artistica, e corrisponde a quei tempi, ne’ quali è posta l’eccellenza dell’arte. Nondimeno il puro ideale, opera inconsciente dell’immaginazione e superiore alla realtá, è uno stato inferiore nella storia del progresso. Quanto s’accosta piú al reale e si specchia e si trova in quello, tanto s’innalza piú nell’uomo l’elemento umano e piú mostra di sua forza. La storia dell’umanitá è un continuo realizzarsi degl’ideali umani, e questo è il progresso.
Il realismo dunque suppone uno stato superiore di coltura, ed è la gloria della societá moderna. A quel modo che il realismo tirò la filosofia dalle astrattezze e dalle immaginazioni, oggi ha tirata l’arte dal tradizionale e dal convenzionale, e l’ha avvicinata alla natura e alla storia.
Il realismo appare dapprima come reazione a uno spiritualismo esagerato e a un ideale divenuto rettorico. La parte animale dell’uomo si ribella a quello spiritualismo ascetico e astratto, e lo assale con la caricatura e con l’ironia, e rivendica a sé una parte maggiore che non le spetti. Questa reazione della materia tira seco la corruzione e la licenza de’ costumi, un’allegra licenza prodotta da un intelletto adulto e beffardo. Ci è progresso nella scienza, e ci è decadenza nella vita. L’animalitá, sotto l’equilibrio, si afferma essa sola, e fa della vita un carnevale perpetuo, e cosí si riflette nell’arte. Il sentimento ritorna sensazione; l’ideale in quella sua esagerazione diviene una caricatura; l’amore prende una forma oscena, voluttuosa e libidinosa; l’artista diguazza nel fango, e il pubblico usa l’arte a solletico de’ suoi sensi e de’ suoi istinti animaleschi.
Questi intervalli carnavaleschi dell’arte segnano il passaggio da un’arte vecchia e in putrefazione a un’arte nuova, e sono perciò essenzialmente transitorii. L’umanitá risorge in nuovi.deali, meglio realizzati, piú conformi alla natura e al pensiero, anzi a base scientifica e naturale. Nel reale si sente il desiderio degl’ideali perduti, e la tendenza a volerli ricuperare. L’ideale risorge, ma in quella misura e in quel limite che gli è imposto da un intelletto piú adulto ed educato, e dalla realtá meglio scrutata. Quando nella corruzione di un popolo il reale è rappresentato dall’arte in modo che si senta la presenza dell’ideale nell’anima dell’artista, la risurrezione non è lontana. Si sente piú viva la vicinanza dell’ideale nelle dolorose negazioni di Giacomo Leopardi, che nelle affermazioni epiche del Medio evo. L’ideale risorge in forma negativa, come uno scontento nell’artista della realtá che lo circonda, e un’aspirazione a un cielo piú puro.
Questo è il realismo di Zola. Da una parte si vede nelle sue rappresentazioni un lungo studio del reale, una grande scrupolositá a coglierlo cosí com’è dal vero, a riprodurlo nella sua obbiettivitá con la curiositá e l’interesse dello scienziato, e senza aggiungervi di suo nulla, soffocando le sue idee e i suoi sentimenti. Usa colori crudi, e si vale della sua potente immaginazione non ad altro che a fissar meglio nella mente la cosa nella sua natura. Pure, da Questo reale riprodotto con una esattezza soverchia anche alla scienza, e con una perfetta indifferenza dell’artista, come se analizzasse un pezzo anatomico, sfugge un sentimento dell’ideale tanto piú vivo, quanto è maggiore quella esattezza e quella indifferenza. Perché l’ideale si move nel cervello dell’artista, e s’infiltra senza sua saputa in tutte le rappresentazioni. Voi lo sentite, e non lo vedete in nessuna parte, essendo l’artista in guardia contro sé stesso, contro i suoi piú cari sentimenti. Egli teme di nuocere alla illusione e scemar fede al vero, rivelando le sue impressioni di uomo offeso innanzi a quella putredine sociale che gli sta innanzi. E la guarda con occhio chiaro e secco, e la espone cosí com’è nella sua nuditá, con inesorabile severitá di giudice anzi che con cuore commosso di poeta. Questa è l’esattezza e l’indifferenza di Zola, questa è la nuditá e la cruditá de’ suoi colori. Quella corruzione senza velo e senza pudore e senza impressioni spaventa la tua immaginazione, offende in te tutto quello che ti è rimasto di umano, sveglia, spoltrisce il tuo senso morale. Cosi gl’iloti ubbriachi erano spettacolo educativo. Que’ quadri di Zola crudi e turpi riescono altamente morali, e piú bestialmente laido è il quadro, piú si rivolta e reagisce la coscienza di uomo, l’ideale. Siamo in tempo in cui la corruzione sociale è raffinata e ipocrita, e volentieri si nasconde sotto veli artificiali. La turpitudine sente vergogna e si rannicchia sotto parole lambiccate e di buon tuono. Zola straccia i panni alla meretrice e la mette alla gogna. La gente schizzinosa grida: — Oibò! Zola è un immorale, — e chiude gli occhi e raggrinza il naso. Tranquillatevi, buona gente, e non giochiamo piú a chi si nasconde; la parola dee esser marchio e non maschera. Questo è lo stile di Zola, un vero stile che penetra nella carne e fa spicciare il sangue.
Eugenio Sue non ha l’indifferenza di Zola. Si dimena, fa esclamazioni, interviene lui nel racconto, mostra i suoi fini e le sue tesi. I fatti sembrano immaginati per dimostrare o per correggere, e non guadagnano la tua fede. Zola non ha fini, non tendenze personali, non vuol dimostrare nulla, vuol rappresentare dal vero, fuori del racconto non ci è che il racconto, la fede del lettore è intera, la illusione è perfetta. E se un fine si ottiene, se il tuo senso morale, se il tuo sentimento dell’ideale, frustato a sangue, si sveglia e grida, sembra impressione naturale delle cose, alla quale rimane estraneo l’autore.
Pure, questa indifferenza scientifica dell’artista a lungo andare riuscirebbe in contraddizione con le impressioni del lettore, se egli a quando a quando non ti avvertisse che il primo martire delle sue rappresentazioni è lui, e che l’«homo sum» opera in lui cosí vivamente come negli altri. E vi riesce mediante similitudini, confronti, antitesi, che sono come un chiarore improvviso del senso umano in mezzo a quelle tenebre della nostra animalitá. Tale è la conclusione del primo romanzo, La fortune des Rougon. Vedi la casa dello zio scintillante di luci, risonante di grida festose per la vittoria del Bonaparte, mentre piú lá si andava quagliando il sangue del nipote, martire del colpo di Stato. Questa contemporaneitá di situazioni opposte, questi ravvicinamenti improvvisi sono la scintilla che rivela nell’artista la presenza dell’ideale.
VIII
Il realismo di Zola.
Dell’ideale ha Zola una mezza coscienza, perciò piú poetica. Ciò che in lui ha la chiarezza di un predeterminato, è il suo realismo. Questo però gli si presenta quasi inconsapevolmente non come negazione dell’ideale, ma come limite e misura di quello, e il risultato artistico, un vero progresso, è questo, che in luogo di un ideale fantastico e rettorico ha un ideale positivo e vivo, l’ideale cosí come si trova nella realtá.
La natura gli ha dato facoltá proporzionate al suo fine, innanzi tutto un talento raro di osservazione sviluppato da un intelletto educato all’analisi e alla riflessione scientifica. Si può dire che, fissati bene in mente certi dati astratti della scienza, si sia messo allo studio della realtá per acquistarvi l’occhio clinico. La sua osservazione non è immediata e senza fini preconcetti. A quel modo che il poeta vede il reale a traverso l’ideale, egli vede il reale a traverso la scienza, e studia societá e individui per trovarvi una prova di fatto de’ suoi dati fisiologici e anatomici. Questo occhio clinico di scienziato è l’originalitá della sua osservazione. Sembra un medico e insieme uomo di mondo, che percorre le sale di uno spedale in mezzo a’ suoi ammalati, e niente gli sfugge. Il medico, fatto inesorabile dall’amore della scienza, non ha cuore, e non ha immaginazione e non vede in quegli ammalati che una ricca materia di osservazioni a profitto della scienza. Come un personaggio gli balza avanti, Zola ti fissa in pochi tratti i suoi caratteri fisiologici e anatomici, e lo segue con l’occhio, studiando con curiositá le gradazioni e lo sviluppo e le ultime forme di quei caratteri. Questa storia di un carattere nel suo lento sviluppo si vede anche nei suoi predecessori, salvo che in lui l’indagine è piú profonda e acuta, e scende ne’ primi fenomeni della materia umana che sono meno osservati, e che pur sono il fatum dell’esistenza, fenomeno dipendente dal sangue ereditario e dal temperamento. Questo è il sottosuolo del romanzo psicologico, smosso appena dagli altri, e penetrato da lui fin nelle ime viscere con nuovo aratro della scienza.
La sua osservazione è compiuta e fin ne’ minimi particolari esatta. Non ci è apparenza di cielo, non accidente di materia, non gradazione o fenomeno cosí fuggevole che gli sfugga. Quando sceglie un soggetto, ha giá nel capo tutto un arsenale di osservazioni raccolte, che sono giá come un terreno solido dove cammina sicuro, dando al racconto un carattere di realtá, che s’impossessa subito del lettore, come di cose vedute e presenti. Indi quella sua abbondanza e pienezza di descrizioni, che sono come una mostra della sua ricchezza, simili a que’ pranzi copiosi ed eleganti, dove il padrone di casa fa pompa di sua opulenza. Viene un punto che il povero convitato dice in cuor suo: — Basta — . E questo avviene anche qui, quando il povero lettore si sente come naufrago in tanta copia di fatti e di accidenti, e non ha lena d’andare innanzi, e ci si addormenta sopra.
Ma l’autore esce sereno e fresco a galla, e ripiglia il racconto con nuova lena. Di rado scorgi in lui segno di stanchezza. Miracoloso nelle descrizioni, potentissimo nelle analisi. La sua originalitá è nelle sfumature o gradazioni, che lo allontanano dagli estremi cari a’ poeti, e lo tengono nella via di mezzo, voglio dire in quella media temperatura, dove trovi caldo e freddo, sanitá e malattia, e col linguaggio comune, virtú e vizio, tutt’insieme, sicché il risultato non è l’uno e non è l’altro, ma è la realtá, come si mostra il piú spesso, un «medium quid», una mediocritá. Felicissimo soprattutto nel rappresentare quello stato di mezza coscienza che è comune ai piú, sottratta quasi alla volontá, e che se non assolve e non legittima il male, ti offre circostanze attenuanti. Il lettore che vede nelle azioni una catena necessaria, come una serie di premesse e conseguenze, dice: — L’è una fatalitá; non poteva andare altrimenti — . L’ira di Giove e di Venere, che negli antichi spiegava e attenuava il male, qui è il sangue ereditario e il temperamento. Fedra ha il suo riscontro nella moglie incestuosa di Saccard. Li era un affare d’Iddii o di Dee; qui è un affare di reni. Sono i due estremi del movimento artistico.
Si può ora indovinare che gli uomini di Zola non sono eroi, e neppure uomini compiuti, colti ne’ gradi piú elevati e piú intelligenti della societá. Sono i piú, come dicono i francesi, il «demi monde», anche nella reggia un «demi monde» tendente verso il basso, piú presso all’animalitá che all’umano. Il teatro è degno di simili attori. ZoLa trova i suoi uomini nelle piú volgari e impure agglomerazioni delle cittá. Parigi gli offre tipi d’ogni sorta, e luoghi corrispondenti. Non ci è trivio e non casa impura, elegante o sordida, dove il suo sguardo non si arresti, e non ci è tipo cosí vile che non lo tenti. Ci è come una calamita che lo attira a que’ tipi e in que’ luoghi. E la calamita è quella stessa sua disposizione di spirito che lo trae verso la parte bestiale umana e i luoghi corrispondenti, dove l’ambiente è atto a fecondare e favorire nel loro sviluppo que’ tipi originarii e naturali, non modificati e trasformati abbastanza da una educazione elevata. Indi è che i suoi tipi naturali e animali trovano poca resistenza anzi favore nel corso della loro esistenza. Tutte le circostanze della vita aiutano i cattivi germi, e li conducono a perfetto sviluppo, con si poche deviazioni e divergenze, che la vita ti pare nel suo cammino uno sviluppo logico, una deduzione di certi istinti originarii cosí fatale, come in un sillogismo, e quegli uomini a lungo andare ti paiono come innaturati e imbestiati sotto forma umana.
Questo marchio di animalitá sulla fronte dell’uomo non è espresso solo nelle azioni; Zola persegue i suoi uomini sino ne’ loro gesti piú volgari e nel loro argot piú grossolano. Ha lo stile reciso, rapido, sicuro, come coltello di chirurgo; i colori crudi e vivi, sfacciati come una donna nuda; lingua propria, potente, a cui il gergo è rilievo. Dopo Prudhon, il piú grande stilista francese è lui.
In una societá corrotta e ipocrita lo stile è diretto a coprire il nudo, e lo scrittore è tanto piú gradito, quanto è piú elegante. L’eleganza è un bel vestito sul nudo. Stile aulico, che si allontana sempre piú da Rabelais e da Montaigne, e dalla magnificenza del secolo d’oro passa all’ultima raffinatezza e alla piúfiorita rettorica. Si forma cosí un tradizionale buon gusto, tutto di convenzione. Quello che era un pregiudizio classico, diviene regola e costume. Merito de’ romantici è di aver dato il primo assalto a questa preziositá di stile, santificata come forma dell’ideale e lingua dell’immaginazione. Ciascuno sa quali resistenze trovò a Parigi Le roi s’amuse e Lucrèce Borgia. I buongustai che vivono e fioriscono anche oggi, e Dio li prosperi, gridavano contro una lingua cosí vicina al reale che diceva pane al pane. Volevano non solo il vestito, ma il belletto. Come i fanatici papisti finiranno con portarsi via papi e religione, quegli spasimanti dell’ideale finirono con disgustarne la gente. E come se l’ideale fosse lui il colpevole, addosso all’ideale!
Quest’ultimo tempo della letteratura francese mostra nelle varie e perplesse tendenze dello stile un realismo non ancora sicuro di sé, penetrato di elementi tradizionali e rettorici. Si direbbe un realismo bene educato che sta molto alle convenienze e alle cerimonie, e non osa romperla col pubblico guantato. Ma l’artista non accarezza il pubblico, lo conquista e lo comanda. E non è difficile. Perché il pubblico, come la donna, vuol essere soggiogato e ama la forza e l’ardire. Zola con la sua audacia ha destato il fanatismo nel pubblico sonnolento. Lodano soprattutto in lui lo scamiciato. Ci trovano non solo la realtá purificata di ogni rettorica, ma tutta la realtá, anche la realtá indecente, anche l’argot. E Chi ne piglia scandalo si turi le orecchie, solo tra’ mille avidi, a giudicarne dalle numerose edizioni. Quale romanzo francese ha avuto 11 successo dell’Assommoir e del Ventre de Paris? Neppure l’ultimo libro di Victor Hugo.
Pure, tutte le qualitá notate non bastano a spiegarci un successo tanto straordinario. Le ricche descrizioni, le delicate analisi, lo stile esatto ed audace possono fare al piú un libro di scienza o di critica, piacevole a leggere, non un’opera d’arte.
Lasciamo i fiori e le frasche, e torniamo alle nuditá di Dante. Sta bene. Ma dietro a quella nuditá c’è Dante, il piú ideale de’ poeti.
Lasciamo la rettorica e facciamo del realismo. Benissimo. Ma come l’ideale senza un vivo sentimento del reale è vuoto e astratto, cosí il tuo realismo rimarrá stupido e insipido, se tu non hai un vivo sentimento dell’ideale.
E qui è l’originalitá di Zola. Egli è realista come uno scienziato, e idealista come un poeta. Il suo occhio clinico, a malgrado di lui, manda scintille; il reale si ripercote nella sua anima, e lá, senza ch’egli lo sappia, è presente l’ideale.
Per ottenere questa ripercussione bisogna esser poeta, vale a dire si richiedono alcune facoltá ideali.
Ora Zola, lo scienziato e il clinico, ebbe da natura potenti facoltá ideali.
IX
Le facoltá ideali di Zola.
La mente è un prodotto di predisposizioni ereditarie e di condizioni fisiologiche, che si vanno organizzando col mezzo de’ sensi, e ricevono una impronta definitiva dall’ambiente morale e dall’educazione.
Questa è la teoria di Zola, riflesso della scienza contemporanea. E i suoi romanzi hanno per fine di rappresentare questo processo della natura.
Ci è dunque in ciascun romanzo una favola concepita e ordita in modo, che esprima il movimento delle forze naturali nel suo corso necessario, la cui risultante è il carattere e la personalitá. Ne’ romanzi ordinarti il carattere è un dato, un primo; qui è il prodotto.
Ma per concepire e ordire una favola simile non basta scienza e non osservazione; si richiedono facoltá ideali.
Un uomo può rappresentare l’animalitá o la degradazione nella specie umana; ma per questo si richiede innanzi tutto che lui sia un uomo, e il piú altamente collocato nella specie.
Zola ha da natura la facoltá costruttrice o architettonica, la prima forza, ideale. Nelle sue costruzioni c’è fantasia e logica. La prima posizione, che la fantasia gli suggerisce, si può dire che sia in lui come la rima, la quale sforzi il cervello a trovare la consonanza. La vita è una logica animata, una successione di fatti necessarii, e Zola non lancia fuori un fatto, che non trovi la sua spiegazione ne’ fatti anteriori. Niente lascia al caso; niente al miracolo e alla meraviglia; tutto è preordinato e coordinato, il primo dato si trova nell’ultimo risultato. L’uomo di scienza procede passo passo, sperimentando e osservando; e non si domanda onde parta e ove vada. Piú che scienziato, Zola è metafisico, che forma lui il mondo, secondo la sua idea, e forma cosí il mondo mentale accomodato a tutte le condizioni intellettuali e logiche. Non solo in lui non fa difetto questa facoltá metafisica o ideale; anzi vi è con qualche esagerazione, sí che escano costruzioni artificiali e a tesi.
Ciascuna favola poetica è una costruzione, che ha per base la realtá contemporanea, cioè a dire la realtá come è concepita in quel dato tempo. L’originalitá di Zola è appunto questo, che la sua costruzione ha per base la realtá di oggi, coni’ è data dalla scienza e come si concepisce oggi. Onde nasce una grande varietá di forme e di colori nuovi, che ringiovaniscono il repertorio poetico. 11 suo difetto non è di essere troppo realista, ma è il soverchio idealismo, perché, operando con perfetta coscienza della sua idea, la sua favola non è una imitazione del processo naturale, con quelle inconseguenze, varietá e deviazioni e distrazioni, che offre la storia, ma una costruzione mentale o tipica.
Il fine mentale o tipico che penetra in tutta la favola è l’animalitá, il tipo bestiale dell’uomo. L’ideale è qui la soddisfazione degli appetiti in tutte le sue forme. E questo ideale non si riscontra solo in questo o in quel personaggio, ma in tutto l’ambiente di una societá degradata. Dico degradata, e cosí pare anche allo scrittore, il quale, rappresentando tipi animaleschi, rimane lui uomo.
Il Casti rappresentò la bestialitá umana sotto forme addirittura animali, cogliendo in quei tipi il grottesco. Quando quei vizii gli parevano ridicoli e materia di commedie, vuol dire che la societá era mezzo guasta, compreso lui. In questa esposizione di Zola non c’è vestigio di quel «rire gaulois», di quello spirito, di quella superficialitá spensierata, che alcuni credono propria della natura francese. Qui è una nazione che comincia a riflettere e a impensierirsi, e fa la faccia scura. Zola è l’anima di questa nazione. È cessato lo scherzo. Il tono nella sua cruditá è severo. Mentre gli uomini imbestiati gavazzano, ci è intorno a loro non so che di glaciale che li accusa. E il tono di Zola, la sua idealitá. Dante non ride, ma ringhia. Zola non ringhia neppure. E marmoreo. E ci è del dantesco in quel marmoreo.
Molti nella rappresentazione di cose brutte e volgari fanno sentire la loro ripugnanza,
Ché voler ciò udire è bassa voglia, |
e anche la loro collera, e talora cercano rimedio in personaggi contrapposti, in un marchese di Posa. La rappresentazione penetrata di una falsa sentimentalitá ti si offre scissa, ondeggiante tra due correnti. Ci è non so che di questo sentimentalismo, in questa ripugnanza a guardar le cose come le sono, e chiuder gli occhi, come fanno certi animali innanzi al pericolo. Guardare in faccia il male e rappresentarlo nella sua veritá, questa è arte virile. E la virilitá di Zola. Però è impossibile che le cose osservate e rappresentate non abbiano ripercussione. E qui è ap-punto la differenza tra scienziato e artista. Nello scienziato la ripercussione prende forma dalla riflessione; nell’artista dalla immaginazione e dal sentimento.
Ora Zola, che nell’osservazione de’ fatti ha l’esattezza di uno scienziato, e nella genesi fisica de’ fenomeni morali ha l’occhio acuto di un clinico, nella rappresentazione ha tutta l’idealitá di un artista. Quello che ha visto con l’occhio materiale, quando nel racconto gli torna innanzi, si ripercote nella sua; immaginazione. Li è il foco dove si fondono e si trasformano i metalli; li è il centro della vita ideale, che dá agli oggetti la sua movenza e la sua luce. Veggasi nel Ventre de Paris quella fila sonnolenta di bestie da soma, che porta i viveri alla grande cittá, tra que’ viali che non finiscono mai, illuminati a grandi distanze, che pare dormano anche loro. Quegli oggetti naturali, colti dal vero, hanno il battesimo dell’immaginazione, sono una scena, sono oggetti dipinti, ideati o immaginati. Si vede che sono passati per l’immaginazione dell’artista, la quale vi ha messa su la sua impronta.
E non solo sono idealizzati dall’immaginazione, ma anche dal sentimento. L’impressione morale dell’artista è li scolpita sulla loro faccia. Non è che l’impressione si stacchi, è incorporata nell’oggetto, nella forma della sua rappresentazione. Perché l’oggetto non può essere mai rappresentato tutto, com’è in natura; ond’è che ti viene innanzi questa, piuttosto che quella forma di esso? Gli è che in quella forma lo ha ripercosso la immaginazione, e quella forma è uscita fuori dall’impressione morale. La lotta di acqua tra due lavandaie furibonde nell’Assommoir è materia grottesca da tenersi i fianchi per le risa; pure non ridi, e senti la stessa impressione morale dello scrittore, senti disgusto e ripugnanza, ti turi il naso e chiudi gli occhi, come per sottrarre i sensi a quella turpitudine di fatti e di parole, cosí come avviene nella lotta tra Sinone e mastro Adamo.
Gli artisti sono grandi maghi che rendono gli oggetti leggieri come ombre, e se li appropriano, e fi fanno creature della loro immaginazione e della loro impressione. Il reale non è che la materia prima, trasformata da quell’industria che si chiama arte; può essere una base, non può essere mai edifizio. L’arte era giunta a trasformare essa medesima la base, creando una vita fattizia e fantastica, dove il reale non si conosceva piú. Il progresso oggi è questo che il reale s’è posto come fatto e come scienza, vuol essere rispettato anche dall’arte. Sicuro. L’arte nelle sue trasformazioni dee conservare inalterata la base, riprodurre nelle sue invenzioni e nelle sue trasformazioni la realtá naturale, imitare anche il processo naturale. Questo è il realismo di Zola. Ma con questo non c’è ancora un artista. Lo fa artista il vivo sentimento dell’ideale umano e la potente immaginazione costruttrice e rappresentatrice.
X
«La Curée».
Voglio ora addurre qualche esempio, che dia un concetto piú preciso della maniera di Zola. Prendo la Curée. È un romanzo breve, rapido, senza distrazioni e senza deviazioni, diritto e fulmineo. Gli avvenimenti s’incalzano e non ti sorprendono; se hai un po’ d’attenzione, fin nelle prime pagine fiuti giá la catastrofe.
Le prime pagine rappresentano una trottata del bel mondo, come di quelle che si fanno a Chiaia. È inutile dire che i menomi particolari de’ luoghi e delle persone fanno stacco, e ti balzano vivi dinanzi agli occhi; sappiamo giá qual pittore è Zola. Se difetto c’è, è nel soverchio. Si ferma la fila delle vetture. Dai un’occhiata sullo spettacolo. Ti passano innanzi dame e cavalieri, che sono i personaggi del romanzo, e un procace giovinetto biondo, roseo, sbarbato ne fa la rassegna a una dama ancor giovine, accovacciata nella vettura, col capo indietro e le membra abbandonate, ne’ cui occhi languidi leggi stanchezza non sazietá di piaceri. Sono i due eroi del romanzo, Renata e Massimo.
Renata sente un brivido, quando la sua gamba s’incontra in quella dell’altro. E chi è quest’altro? È Massimo, il figlio di suo marito. Presentite giá la fine.
Massimo è l’ultima forma della razza Rougon, la forma ermafrodita. Mangia i danari che il padre accumula. Gode senza fatica. È giá «blasé». Cerca piaceri piú piccanti. La sua immaginazione depravata non si maraviglia piú di nulla.
Renata, la moglie del padre di lui, affoga nella monotonia dei suoi appetiti, delle sue feste, del suo lusso: sempre gli stessi amori, gli stessi tradimenti. Desidera non so che nuovo, e ne’ suoi languori fantastica. Non vi sembra che l’incesto sia giá nell’animo di questo e di quella?
Intorno a loro è l’atmosfera imperiale satura di vizii e di piaceri. Ciò che avete visto nella trottata, lo vedete ora nel pranzo, di cui fa gli onori la «chère maman», come la chiama Massimo. Tutta questa roba si move, gesticola, chiassa, si rivela nel suo naturale, senza pudore. È un pubblico «mêlé», sotto una vernice; il nobile scaduto, il nobile arrivato, il borghese cupido, tra mezzani, compari e affaristi, uccellatori e uccellati, tra dame mezzo vestite, nelle cui nuditá fiuti la cortigiana. Questa è l’atmosfera che s’è creata il marito, e in mezzo a cui si muovono il figlio e la moglie.
Il marito è Aristide, figlio di quel Rougon che, spogliati i fratelli, fiutò il Due dicembre, e fece la sua fortuna. Il suo primogenito, Eugenio, il grand’uomo della famiglia, fu ministro. Aveva l’ambizione senza scrupoli, sfacciato, del papá, di cui Aristide aveva la cupidigia. S’avevano divisi i vizii paterni. Un gradino piú giú era la sorella, Sidonia, in cui la cupidigia avea presa la forma di mezzana, la forma ultima della degradazione femminile.
Aristide muta il suo cognome in Saccard, d’accordo col fratello, che resta Rougon. Ha un posticino, con poco di certo, ma con molto d’incerto. Eugenio diviene ministro, Aristide diviene affarista, protetto e spinto su dal fratello. Mentre muore la moglie, accetta per l’intramessa della sorella una nuova moglie disonorata giá e che gli paga il suo disonore con la pingue dote. Il padre aveva spogliato i fratelli; lui, spoglia la moglie, e prezzo della spoliazione è l’incesto.
Un marito che lascia fare la moglie, perché vuole spogliala, una moglie che lascia fare il marito, perché vuole disonorarlo, e il bello Massimo che si lascia fare dall’uno e dall’altra, e concorre a quella spoliazione e a quel disonore, ecco la base del romanzo. E attorno una atmosfera simile, che dalla trottata e dal convito si allarga e investe tutta Parigi, dalla reggia imperiale sino alle case pubbliche. Quella moglie, quel marito, quel figlio, ecco i tipi. Ci è in quell’atmosfera non so che meretricio, rapace e imbelle.
Marito, moglie, figlio coabitano come si trovassero per caso insieme in uno stesso albergo. Ciascuno fa la via sua. Camminano di fronte affari e piaceri.
Zola che descrive con tanto vigore la scena della trottata e del pranzo, e ci fa sfilare innanzi tutt’i personaggi del racconto attorno a quella strana famiglia, si ferma qui e fa un passo indietro, e ci racconta, come si dice, gli antecedenti, le prime origini di quei tre dannati a convivere. La storia di quelle anime è narrata con la precisione di un anatomico, a cui la scienza abbia tolto ogni senso di pietá o di ribrezzo. L’immaginazione stessa è al servigio della scienza, e sta lf quasi come una carta geografica, che dia chiarezza e rilievo alle piú laide qualitá della degradazione umana. La parola è brutale, cinica; non ci è velo, non ipocrisia in padre e figlio, ai quali è negata ogni vista di un mondo morale superiore, ogni rimorso e ogni vergogna, e stanno poco al di lá di un puro istinto animale. Il figlio è cinico, e si crede spiritoso. Il padre è ladro, e si crede una gran testa. Mettono un raffinamento l’uno ne’ piaceri, l’altro negli affari. Dov’è la vergogna, trovano la vanagloria. Cosa possibile, dove la licenza è divenuta costume pubblico, il buon genere e il buon tuono, e l’aria compiacente accoglie in sé tutte le sozzure. Questo consenso o compiacenza universale uccide il dramma; non ci è attrito o lotta nella societá, e nell’anima degli attori. Sono nati cosí. La vita è quella. La bontá stessa è passiva senza impulso, senza azione, ritirata nella sua tristezza, com’è nel padre di Renata. Ci è un «fatum» naturale e sociale, che pesa sugli attori e gl’involge come in una nebbia, senza ch’ei se ne accorgano: ci si ride e ci si gavazza sotto.
Il racconto sarebbe impossibile, se non ci fosse Renata, nata angiolo e pervertita in quell’aere infetto.
Renata non era una Rougon. Veniva di famiglia borghese e onesta, era buona, docile, facilmente impressionabile; sua zia una brava donna, suo padre un gentiluomo onorato e dabbene. I suoi istinti erano buoni, ma privi d’ogni forza di resistenza. Educata in un «pensionato di damigelle», v’imparò le arti e i modi del ben comparire sociale. Usci a diciassette anni, ignara del mondo e come cera, su cui la societá imprime la sua forma. Non fu sedotta, fu violentata. Il matrimonio fu coperchio al disonore, mezzana una Rougon. La casa maritale fu il teatro, dove potea far pompa delle sue virtú collegiali, inchinarsi, danzare, chiacchierare, primeggiare nel lusso e nelle mode. Il marito, vero Rougon, non guardava a lei, ma alla dote. Quella che fu a lei mezzana di matrimonio, sorella del marito, fu anche a lei mezzana di piaceri. Stordendosi nel rumore della vita, tra vanitá e baldorie, tra danze e libidini, non c’era tempo né modo di guardarsi dentro, d’interrogarsi. Massimo, uscito’ di collegio con tutt’i vizii che vi s’imparano, fu il suo carino, poi il suo camerata, il confidente. Aveva un’aria di donna, che incantava le dame. Fece le prime armi con la cameriera. Narrava a lei le sue bravure, tutte le storielle delle ragazze perdute, era un repertorio vivente; e lei a ridere, ridere. La sua immaginazione divenne meretricia. Venuta la sazietá, fu trista, nervosa, capricciosa; cercava nuovi solletichi, qualcosa di terribile che risvegliasse il senso del piacere. Divenne cupa, e pur talora tra gli odori de’ campi ricordava il giardino paterno, e la piccola sorella e la zia Elisabetta, e 1 trastulli innocenti della prima etá: memorie fuggevoli che attraversavano un cervello malato. Gli è che Renata non aveva amato mai, e sentiva bisogno di una di quelle passioni terribili, nelle quali solletico è il delitto, esausti tutti gli stimoli ordinarii.
Questa è la situazione morale di Renata nel principio del racconto. È giá in immaginazione quello che sará in atto. Il delitto arriva quasi senza loro saputa, in luogo meretricio, teatro delle geste di Massimo. Costui non ci vede quasi altro che una ripetizione; lei, lei sola sente il fremito e l’orrore della natura offesa, un fremito che diviene un aculeo di voluttá, un risveglio dei sensi fino al delirio. E perché in lei è la coscienza del delitto, e la ferocia della passione, prende proporzioni ideali innanzi all’immaginazione spaventata. L’indifferenza di padre e figlio la rende attonita; è capace ancora di maraviglia nella sua depravazione. Presto, la nuova voluttá è consumata; spogliata dall’uno, abbandonata dall’altro. La passione muore, e muore lei.
L’impressione è un disprezzo infinito per padre e figlio e tutta quella societá, il quale si volge in un senso di compassione per la povera vittima. Non era nata a questo, dirá qualcuno. Non fu colpa sua, dirá qualche altro.
X
«Le ventre de Paris».
La Curée, come lavoro d’arte, è il miglior romanzo di Zola, per semplicitá dell’architettura, per unitá e rapiditá di azione, e per concentrazione di forze. Ci si vede la mente superiore e tranquilla, che dispone e annoda le fila, senza distrazioni mai, né deviazioni.
Se la mentalitá è impressa in quel romanzo, si che per la sua condotta è cosí ideale e classico come l’Otello di Shakespeare, nel Ventre de Paris si vede al contrario un procedimento imitativo della natura, con quella dispersione di forze e con quella accidentalitá che troviamo nelle lente formazioni naturali.
Nella Curée non è un personaggio e non un avvenimento che non sia intimamente connesso col tutto. Qui vi è maggior libertá e ricchezza, che ti dá l’apparenza della vita, piú che di un’esistenza intellettuale.
Nella Curée il centro di tutto il movimento è casa Saccard, un grosso affarista, che da un lato si lega coi ministeri e con la reggia, e dall’altro scende sino a’ piú bassi strati, dove trovi mezzani e prostitute. I suoi commensali esprimono appunto questa mescolanza, un puzzo di meretricio e furbesco nel lusso e nel fasto. L’alta societá imperiale vi è colta dal vero in quella doppia sua faccia del vizio e dell’affarismo.
Qui è rappresentata la societá in quella parte equivoca che tiene della bassa borghesia e dell’operaio, centro una bottega di pizzicagnolo, e teatro i mercati di Parigi.
Si può dire una parte ancora inesplorata e che Zola percorre tutta con una esattezza e pienezza di esposizione che fa stupore. La scena si spiega innanzi a poco a poco. Vedi lunghe fila sonnolente di bestie da soma che portano le provviste al mercato, e in capo madama Francois, una contadina tarchiata, che raccatta per via e situa tra le sue carote un morto di fame, Florent. Giungi a Parigi. Hai la prima Tasta del mercato, la lotta tra venditori di contado e rivenditori di cittá. Il digiuno Florent, lasciato solo con una carota cruda nello stomaco, si accompagna con Claudio, un pittore mancato, e girano e girano, e nuovi aspetti del mercato ti si parano avanti. Finalmente ritrova il fratello, un pizzicagnolo, e nutrito e curato, è nominato ispettore de’ mercati. Dietro le peste di Florent, noi conosciamo non solo i luoghi, ma gli abitanti che provvedono al ventre di Parigi.
Chi nasce e vive nel mercato ne prende l’aria. Ci è una intima connessione fra il luogo e l’uomo. Quella infinita abbondanza di carni e di pesci, quelli odori nutrienti e succulenti si riflettono nelle pance e nelle gole: è il mondo de’ grassi, la materia in escrescenza, rimasta bruta. L’ambiente materiale si trasforma in ambiente morale. Cervelli vuoti, istinti animaleschi, costumi grossolani, linguaggio simile, il plebeo.
Le due belle del mercato sono Lisa, la pizzicagnola, e Normanna, la pesciaiola, e hanno le botteghe dirimpetto, e si guardano con occhio di rivali. La rivalitá scoppia, e Florent, cognato di Lisa, ne fa le spese, pallottato fra l’una e l’altra. Florent, l’ispettore, è il solo magro fra tanti grassi. Dimenticava Claudio Lantier, suo compagno. L’uno è nato professore, l’altro è nato artista. Ma il professore per capriccio di polizia è trasformato il Due dicembre in cospiratore, mandato a Cajenna, onde, fuggiasco, nudo, affamato, torna a Parigi, raccolto svenuto sullo stradale. Eccolo dunque un uomo politico sbagliato, nel quale fa atto di presenza il vecchio uomo, l’antico professore, con le sue ingenuitá, che lo riconducono alla deportazione. L’altro è un artista, che per difetto di mezzi e di studii si lambicca invano il cervello, e il pittore mancato e pezzente sospira alla vita beata e grassa del pittore di stanze. Sono i due uomini mancati, i due magri, un ideale spostato in mezzo ai grassi, alla materia esultante nella sua vacuitá.
Chi è Florent? Questo è il gran segreto che tormenta la plebea curiositá del mercato. — È un mio cugino, venuto di provincia, dice Lisa. — Ma perché lo dice Lisa, non lo crede Normanna. — No, è l’innamorato di Lisa. — E per far dispetto a Lisa, cerca d’innamorarlo lei. — Che innamorato? è un uomo sospetto. — Gavard, che meglio diresti «bavard», un vanitoso cospiratore da burla, con le sue mezze parole dá credito alle ombre. Florent sceglie a teatro delle sue cospirazioni politiche un caffè, il cui padrone è spia, e spie sono i congiurati in gran parte. Piovono denunzie alla polizia. La stessa Lisa, impensierita, va a denunziare il cognato. Un bel giorno, che l’imperatore voleva strappare alla Camera una nuova imposta, si arresta Florent, Gavard e complici, tra gli applausi del mercato, e sono condannati, e la societá è salvata. Florent ritorna forzato, lacrimato dal fratello, che presto sotto alle carezze di Lisa e tra gli odori grassi della bottega mise l’animo in pace. Normanna divenne moglie di Lebigre, il denunziante di Florent. Le due belle si rappaciarono. E tutti contenti. Evviva il mercato!
L’azione non giunge a questo risultato, se non a traverso di mille rivoli, che la fermano, la deviano, la riconducono. Abbondanti descrizioni, molti episodii, piú o meno legati con l’azione, ma tutti connessi col concetto. Che necessitá c’è di Cadina e Marjolin, nati nel mercato, cresciuti cosí a casaccio, «i due belli animali», come li chiama il pittore? Pure, questi due esseri allegri e vuoti sono il mercato nel suo gradino piú basso, nella sua forma puramente animale e istintiva. E ti piacciono, e vorresti scherzare con loro, come fa Claudio, e piú volentieri stai con queste bestioline dimestiche, che con le Normanne e le Lise, dove il fondo animalesco piglia un’aria di malizia e di cattiveria che ti spiace.
Protagonista è Lisa, la bastarda di Rougon, una Macquart, in cui le qualitá ereditarie operano insieme con le qualitá dell’ambiente. Figlia di padre ozioso e cupido, e di madre faticatrice e massaia, Lisa ama l’ordine e il lavoro, intende ad ammassare e far prospera la casa, fa lei l’uomo. Su quella fronte tranquilla non è una ruga; la materia è cresciuta in pieno fiore, e nelle piú belle proporzioni. Fortemente piantata, la grossezza del ventre è in armonia con le braccia virili, e la superba gola e le gote vermiglie. Butta salute, come una vacca grassa e tranquilla. Anima simile a questa bella materia. Ivi poche idee fisse, cristallizzate, divenute norma della vita, applicate con piena sicurezza a tutt’i casi.
Le idee di Lisa sono il mercato elevato all’ultima potenza, il mercato ideale o tipico. Il centro di queste idee è l’egoismo an male, il «bada a te, fa i fatti tuoi e non te ne incaricare». Questo per la brava Lisa non era solo regola di quieto vivere, ma era l’onestá. L’Impero avea detto: «Que les honnêtes gens e rassurent et que les méchants tremblent». E la gente onesta nel gergo napoleonico e nel gergo di Lisa era la gente tranquilla. Da questo concetto scaturiva tutta una filosofia bottegaia a uso del mercato. Farsi i fatti suoi, questo voleva l’Impero e voleva Lisa, una eccellente conservatrice. Quelli che volevano la grandezza e la libertá della Francia, erano i birbanti. Quando potè sospettare che Florent era fra questi, fu un butto momento per la sua digestione. E, preso l’avviso del confessore, non esitò a denunziarlo.
Il filosofo del mercato è Claudio, il pittore, nel cui cervello mezzo educato c’era un di lá del mercato, ch’egli cercava realizzare, vivendo ivi e pigliando appunti e schizzi, e formando giudizii. E quando vide che cosa sapeva fare tutta quella gente onesta, nella sua rettitudine gridò: — Che birbanti sono gli uomini onesti! — .
Questo è il romanzo del ventre, il «desideratum» di ogni buon principe assoluto.
[Nel giornale «Roma» di Napoli, a. XVI, i878.]
- ↑ Gli articoli su Emilio Zola vennero pubblicati nei numeri 175, 198, 220, 236, 253, 267, 300, 308, 338, 340 e 351, anno XVI, del giornale «Roma», di cui il prof. De Sanctis è collaboratore letterario.