Saggi critici/Zola e l' «Assommoir»
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ZOLA E L’«ASSOMMOIR»
L’Assommoir ha avuto, dicono, quarantasei edizioni. Se ne è fatto un dramma, rappresentato a Parigi e a Napoli, e mi assicurano che abbia avuto molto successo, che il pubblico abbia molto applaudito, soprattutto la lotta fra le due lavandaie, e anche il «delirium tremens».
Ma mi è stato riferito pure che nel dramma manca la prima scena: se è cosí, l’autore ha pensato all’effetto; ma ha soppressa quella scena che è la base di tutto il racconto. Lasciate dunque che io vi ponga sott’occhi questa prima scena.
Ecco li una camera ammobigliata, in un albergo di terzo o quarto ordine, come se ne vedono parecchi nei quartieri bassi di questa cittá: un albergo, che si chiama Boncoeur, come volesse dire: qui non ci è che buon cuore.
Pure, questa stanza è la migliore dell’albergo, perché è la sola che guardi sulla strada. In fondo si vede una valigia molto grossa, ma coi fianchi sgonfiati: si indovina che molta roba è stata venduta o impegnata: si vedono parecchie cartelle di pegno sul camino. A due chiodi pendono uno sciallo tutto buchi e un calzone mangiato dal fango.
Vedi un vecchio cassettone, a cui manca un cassone; una lurida tavola in mezzo, con sopra una brocca d’acqua; un lettino di ferro, dove sullo stesso guanciale dormono due bambini, e il piú piccolo ha il viso che ride e il braccio intorno al collo dell’altro. Alla finestra ci è una giovane affacciata, discinta come or ora uscita di letto, che guarda con ansietá a diritta ed a sinistra. Guarda, non lo vede venire e singhiozza, ma soffoca i singhiozzi col fazzoletto per non turbare il sonno ai bambini. L’aveva atteso sino alle due, perché giá colui aveva preso la brutta piega di ritirarsi assai tardi. Sono le cinque, e non è tornato.
Passano le sei, comincia a far giorno. La portinaia dalla strada le dice: — «Buon giorno, Gervasia, e Lantier dorme ancora?». — «Sí» — , risponde lei; e si fa rossa. Non era avvezza alla menzogna; e quantunque quella non avesse il dritto di sapere i fatti suoi, e la bugia fosse detta a fin di bene, dicendo quel: «si, dorme ancora», si fa rossa.
Sono le sette, sono le otto. A dritta è uno spedale in costruzione, ove si vedono le sale piene di ammalati, fra i quali ogni giorno falcia la morte. A sinistra un macello da cui viene il puzzo dell’animale ucciso. Lontano, ella vede la collina di Montmartre, dalla quale discendono gli operai, e gitta un’occhiata alla «Salle du père Colombe», l’«assommoir», il botteghino dove molti di quelli si fermavano e trovavano l’obblio del dovere e dimenticavano il lavoro. E lei è sempre con l’animo tra’ bambini che dormono, e quelle viste, e lui che non viene. Ma ecco, qualcuno spinge l’uscio. È lui. Gervasia sta per gettarglisi al collo: — «Sei tu? sei tu?» — . Ed egli: — «Si, sono io: e poi? cominciamo le solite ragazzate» — . Queste parole sono un ritratto.
Lantier era un cappellaio che l’aveva rapita e faceva il «monsieur» e non gli piaceva di lavorare. Faceva la vita di Michelazzo, viveva a macco, alle spese degli amici e delle amiche. Aveva spogliata una donna e correva appresso ad un’altra.
Lei non aveva che ventiquattro anni, era bellina, bionda, delicata. Non ispira a voi una simpatia? non è una giovane, a cui ciascuno vorrebbe stringere volentieri la mano? Voi vedete quanti buoni istinti ha questa donna, dico istinti e non qualitá: come ama i bambini, il compagno, la nettezza, il lavoro; come si fa rossa a dire la menzogna, in una condizione di cose, in cui ciascuno di noi la direbbe francamente. E poi, guardatela al pubblico lavatoio, dov’ella va a lavare i panni sudici de’ suoi bambini; guardatela in quella lotta tra lei e la «grande Virginie», a occhiate, a parole e poi a secchi d’acqua, e poi con l’acqua bollente, e poi con le percosse. Qual è il carattere di loro due? Quella è una parigina, la vince nella procacia dello sguardo e delle parole: Gervasia si mostra semplice, goffa, una provinciale. Quella ricorre alla frode, e la forza di lei è lo sdegno della donna offesa.
Questa è Gervasia, lasciata sola co’ bambini in rue Poissonnière, alle barriere di Parigi, com’è a dire a Porta Capuana o Nolana, dov’è agglomerata la parte piú laida della cittá.
Che cosa sará Gervasia? Quello che la fará l’ambiente in cui è costretta a vivere.
Zola è il pittore della corruzione parigina. Nella Curée rappresenta l’alta societá affarista e licenziosa, mescolata con elementi ignobili; nel Ventre de Paris dipinge la popolazione parigina de’ mercati; nell’Assommoir la vita degli operai alle Barriere.
Questo racconto non è solo la storia di Gervasia, ma una storia sociale.
E se volete averne un concetto, guardate Napoli. Napoli non ha ancora i suoi quartieri bassi? Non vi è mai giunta la voce di certi covili, dove stanno ammassati padri, figli, madri, senza aria, senza luce, tra lordure perpetue, cenciosi, laceri, scrofolosi, anemici?
Nessuno di noi ha avuto stomaco di andare lí e studiare quella miseria: il disgusto ce ne allontana.
Ebbene, questo coraggio ha avuto Zola in Parigi, ed un altro, D’Haussonville, che ha fatto studii interessanti sull’Enfance de Paris; ed è andato a studiarla nelle ultime taverne e nelle case piú laide. Zola è stato anni in mezzo a questo mondo infetto, ha veduto da vicino il vizio, ha sentito il puzzo e non si è turato il naso, ha sentito le parole oscene e non si è turato le orecchie. Andava colá con l’animo di un professore di anatomia, che squarta cadaveri umani per cercarvi la scienza; con l’amore di un s. Francesco di Sales o di un Alfonso Casanova, che menavano la vita in mezzo a’ monelli, pensando che quelli pure erano loro fratelli. Zola è condotto dall’amore della scienza e dell’arte, e l’amore è intrepido, come dice Federigo Borromeo; l’amore vince il disgusto. Andava colá col suo bravo taccuino alle mani e notava tutto; raccoglieva un vasto materiale, da cui sono usciti molti romanzi.
Or dunque, cos’è questa societá, studiata con tanto amore da Zola, cosa è quest’ambiente in mezzo a cui vive Gervasia? Questa societá non ha le due piú alte gioie dello spirito umano, non ha né azzurro di cielo, né verde de’ campi; non ci è Dio e non ci è natura. Ci fosse almeno la patria! Sentite uno dire: — Che importa a noi chi sia imperatore o re? tanto, la nostra vita è sempre quella! — .
Non ci è Dio, non c’è natura, non c’è patria. Non è che non facciano le loro scampagnate; ma escono da’ covili nativi e vanno a chiudersi in altri covili che si chiamano taverne, dove gozzovigliano. Nessuno di loro ha sentita la bellezza di un fiore, nessuno ha guardato pensoso verso il cielo. Vanno in chiesa, dicono le preghiere, nei banchetti cantano inni patriottici; ma sono cose abituali, forme vuote che non contengono alcun’idea.
Leggete la prima comunione di Naná. Le idee sono: chi veste meglio, guardare ed essere guardato, come compariva il prete, chi faceva miglior figura. E questo non è solo colá. Guardiamo le nostre idee quando si va a messa e vedremo che molti fanno un po’ la comunione alla Naná. (ilaritá)
No, non ci è Dio, non ci è natura, non ci è patria: ci è almeno il senso morale? Sicuro; ci sono «les principes». Ma ci sono due leggi distruttive di tutti i principii nel cuore umano, l’abitudine e l’esempio.
Quando in un quartiere tutti fanno a un modo, dico: — Perché non farò io il simile? — . E quando, vinta la resistenza, una cosa si fa per la prima, la seconda e la terza volta, nasce l’abitudine: quello che prima era scandalo diviene cosa abituale: ridete voi e ridono tutti. Questa è la corruzione di un popolo. Finché rimane la voce potente del senso morale offeso, quella non è corruzione; ma quando succede l’indifferenza e voi stringete la mano a persone dispregevoli, avete la corruzione e la corruzione diventa natura. (bravissimo)
Dunque, il senso morale è ottuso: appena lo sentite in qualche animo non ancora corrotto; ma aspettate e vedrete che l’ambiente finirá per assorbire anche quello.
Almeno c’è in questa gente un’opinione di cui abbiano rispetto, di guisa che, se da una cosa immorale non si astengano per sentimento, se ne astengano per non fare, come si dice fra noi, una cattiva figura?
Siamo a Parigi. Ci erano classi che incutevano rispetto ed erano un freno. Nobiltá, clero, borghesia, cosa sono oggi per loro? La nobiltá l’hanno vista oltraggiata in tutti i libri ed è segno del loro disprezzo. Uno loda la bravura di un nobile e l’altro risponde: — Si, una bravura, «quoique noble»— . Il prete è bottega; il borghese è un essere che invidiano e disprezzano ad un tempo, perché mena una vita beata e non lavora. Per essi il lavoro è il lavoro loro manuale: non concepiscono il lavoro della mente. E quando si pigliano spasso di qualcuno, dicono: — Voi fate il borghese — . Dunque, non c’è il rispetto, che venga da altre classi, non ci è il rispetto fra loro: il punto d’onore, ultimo freno rimasto all’umanitá, è anche scomparso.
E che cosa sono Dio, natura, patria, moralitá, onore? Sono l’umanitá, ciò che fa uomo l’uomo. Che cosa resta a quella gente? La pura animalitá. Hanno non volontá, ma appetiti, non intelligenza, ma istinti; non hanno forza di scegliere, di dominarsi: operano fatalmente per moti improvvisi, immediati, come fanno le bestie; non possono avere in sé la forza della rigenerazione, perché manca loro una volontá che stia al disopra di quegli appetiti e che riesca a dominarli e indirizzarli al bene.
Voi mi direte: — Dunque, che fine ha questo racconto di Zola? — . Il fine è questo: gittata Gervasia in quest’ambiente, vi resterá assorbita. Io però non sono assoluto come Zola. Non credo all’onnipotenza dell’ambiente. Datemi una forte personalitá e saprá lottare con quello. Ma Gervasia ha istinti, non ha qualitá. L’istinto, solo allora che sia educato e fortificato da buoni esempli e fiorisca in mezzo ad un buono ambiente, è qualitá, una seconda natura; e diventa carattere e può resistere all’ambiente.
Or vediamo un poco questa buona Gervasia cosa era stata e che cosa poteva essere.
Gervasia era nata in Plassans, figlia di padre vagabondo ed ubbriaco e di madre che digeriva le mazzate del marito ubbriaco, bevendo anisetta e dandone pure un goccetto a lei: e lei, tra le mazzate e l’anisetta, viveva per le pubbliche vie facendo la lavandaia.
A quattordici anni si lasciò rapire da quel bel mobile, e quando ebbero ben bene svaligiato le due famiglie, pigliarono la via di Parigi. Ha questa giovane una personalitá, ha quella energia interiore che si chiama forza di resistenza e che fa sí che non solo noi non ci lasciamo assorbire, ma siamo potenti ad assorbire gli altri? No.
La sua nascita, la sua educazione, tutto annunzia un difetto di energia interiore. — «Je me laisse faire», — dice. Povera giovane! Lui prima la tradisce, poi il marito diviene un ubbriaco e la bastona, e poi in mezzo a quell’ambiente è come una fogliolina trasportata dalla corrente. Tirata in qua e in lá, non ha volontá, ha velleitá: ci si vede sul viso e nello sguardo l’indecisione, ciò che mostra la vittoria possibile all’avversario; e vittoria possibile è vittoria sicura.
Cosi, di caduta in caduta, di sconfítta in sconfitta, lentamente va a finire nell’ultima miseria, nell’ultima degradazione.
Ecco il concetto dell’autore. Voi mi direte: — E questo è arte? Voi mi demolite l’umanitá, voi mi create un ambiente ove ogni idealitá è distrutta, e qui c’è arte? — .
Dunque, vediamo questo racconto dirimpetto all’arte.
Perché arte ci sia, è necessario che la cosa che si vuole rappresentare abbia una ripercussione nel nostro cervello. Le cose ottuse non hanno ripercussione, e perciò non hanno interesse; vivono per sé, non vivono per noi, e l’arte siamo noi. Quando la cosa fa impressione in noi, produce nel nostro petto sensazioni, osservazioni, emozioni; e noi riproduciamo non solo la vita sua, ma in essa una parte della nostra vita.
Questa è la forma ideale. E quale è il contenuto ideale? Sono i grandi sentimenti umani: Dio, patria, natura, umanitá, libertá, giustizia, bellezza, scienza; e questi concetti sono la storia dell’umanitá, l’evoluzione di tutto ciò che nell’uomo non è animale, l’«homo sum». Tutto questo è ideale perché rappresenta non solo la cosa in sé, ma la nostra idea; e se non è reale, se non è esistente, pure è vero; vera è la vita che ha la cosa, ed è vera la vita che le comunichiamo noi. (applausi)
Quando idealizziamo la vita delle cose, abbiamo la forma ideale; e quando in questa vita vediamo risplendere tutti quei sentimenti umani, abbiamo l’idealitá, il contenuto ideale.
Veniamo ora a Zola. Abbiamo qui un mondo ottuso: nessun interesse può prendere anima d’uomo a questo mondo animale!
Non forma ideale, non contenuto ideale; ci sono almeno motivi interni ideali? Qui non passioni, non carattere, non pensiero, non coscienza; il moto di questa vita nasce da motivi prettamente animali, da istinti e da appetiti.
C’è almeno processo artistico?
Generalmente, trovate nelle opere artistiche una forza dominante, il protagonista; ci è una forza resistente, l’avversario, e poi ci sono personaggi accessorii, secondarii. Ci è l’azione principale e ci sono gli episodii e gli accessorii. Da Omero a noi, questo è stato sempre il processo dell’arte. Dove è in quest’opera il protagonista, dov’è l’intreccio, dov’è l’intrigo, in questo mondo, dove non ci è tipo, non c’è individualitá che spicchi; dove tutto è simile e tutto è mediocre, tutto è principale e tutto secondario, tutto è azione e tutto è episodio? Ci è in questo mondo qualche cosa di plumbeo e di monotono, e se ci è Qualche cosa che è protagonista, è l’ambiente che assimila tutto. (applausi)
Forma artistica, contenuto, motori, processo artistico non ci è; ci sono almeno forme artistiche?
Dico forme, e non forma.
La forma è quella che vi ho chiamata la forma ideale, è la cosa ingrandita dall’immaginazione; le forme sono l’espressione, lo stile, il colore. Non veggo altre forme dell’arte che quelle: semplicitá, eleganza, spirito.
C’è la semplicitá, quando la cosa vi si presenta non scrutata ancora da un cervello adulto, ma nella sua prima e verginale apparenza; e quando l’artista è anche lui semplice come la cosa, e la vede nella prima guardatura, e la sente nella prima impressione, (bene)
Questo è nei popoli primitivi, nell’alba della vita; è una semplicitá che ha compagne l’ingenuitá e la grazia, tutte le qualitá amabili che sogliamo ammirare in una Margherita, in una giovinetta che allora sboccia come la rosa.
Poi avete l’eleganza, quando l’arte rappresenta caste privilegiate, gli dei, gli eroi, i grandi popoli, i grandi fatti, quando tutto il resto dell’umanitá è straniero o schiavo. Avete allora quella forma nobile, solenne, che è nella cosa e si trasfonde nell’opera di arte.
Ma quando l’artista, in ciò che si presenta, trova un che di contrario a quest’ideale delle forme, quando invece della semplicitá trova il cinismo, quando invece dell’eleganza trova il plebeo, la contraddizione tra quello che trova e quello che sente produce quel fenomeno irresistibile che è il riso; non il riso sciocco che vede contraddizione dove non è, ma il riso dello spirito che la sente e la gitta fuori in un motto, in un frizzo, che comunica il riso. Questa è la fonte dello spirito, caricatura, ironia, sarcasmo, umorismo.
Ora nel racconto dello Zola non solo non ci sono queste tre forme, ma ci è il contrario, quasi egli faccia a dispetto. La eleganza diviene volgaritá, la semplicitá cinismo, lo spirito goffaggine. Non è che in questo mondo non ci sia materia di spirito, non ci sia allegrezza. Vedete i due banchetti, voi non ridete mai. Quella gente è goffa, non è spiritosa; è un’allegria plebea e vinosa.
Voi mi ripetete: — Dunque, questo è arte? che arte è questa? E se arte non è, colpa è di Zola, o è del suo argomento? — .
Lasciamo stare le impressioni contemporanee. L’Assommoir ha provocato sdegni, resistenze, ma ancora piú applausi. E cosa fa questo? Chi piú applaudito di Pietro Aretino e di Giambattista Marini? Pure era la decadenza, e la decadenza non era solo in loro, era nel pubblico che applaudiva. Quando complici sono tutti, scrittori e pubblico, quella è corruzione, quella è decadenza. (applausi)
Dunque, lasciamo stare le impressioni contemporanee. Usi a guardare larghi orizzonti, guardiamo Zola nella storia del mondo. Perché Zola non è giá qual cosa nuova che sbuchi li di terra; anche Zola è figlio del secolo XIX; e se egli si diverte a mostrarci come nasce Gervasia, vediamo un po’ com’è nato Zola. (ilaritá)
Siamo in tempi di transizione, diciamo tutti: l’arte è in uno stato di crisi. I piú grandi filosofi e poeti del secolo hanno sentito questo sgomento dell’anima innanzi alla demolizione di tutti i sentimenti umani, di tutti gli ideali. — «Die Ideale sind zerronnen», gli ideali sono liquefatti. — grida Schiller; e di questa morte degli ideali sentite l’eco profonda in Byron, in Musset, in Lamartine, e nel piú grande di tutti, in Leopardi, che non ha distrazioni, si seppellisce nel suo dolore, complice e vittima, complice per lá sua intelligenza e vittima per il suo cuore. (lunghi applausi) Non hanno essi lamentata la morte dell’arte? E perché anche loro sono arte, non si è detto che ultima forma poetica è il sentimento della morte dell’arte? Distrutta la forma e venuto meno ogni ideale, che altro rimaneva all’arte, dicevano, se non un sentimento vago, indistinto, la forma del sentimento? L’arte muore in un accento lirico, in un sospiro musicale. Lirica, musica, sono le ultime forme dell’arte. (bene) Questa era la conclusione.
Io non dirò che queste previsioni siano ombre di cervelli malati o fenomeni passeggieri. Quando Leopardi dice: — L’arte è morta; — quando Hegel col suo pensiero onnipotente imponeva questa tesi alla nostra generazione; qualcosa deve essere morto davvero. L’arte non muore; ciò che moriva era una vecchia forma, che essi dicevano arte.
Questa è una faccia del secolo. E ci è l’altra faccia. Mentre questi, ch’io non chiamerò con frase insolente, a modo Zola, beccamorti dell’arte, mentre questi Catoni del passato s’abbracciavano ad un’arte che spariva, ci erano altri, spiriti tranquilli e sereni, che facevano arte e seguivano gl’impulsi del secolo. Il tema è lungo. Non posso indicarvi questo moto in tutta l’Europa: basterá un accenno. Ecco li Goldoni che proclama base dell’arte essere la vita reale, e fa la nuova commedia e seppellisce le fiabe e il fantastico. Ecco Manzoni che dice: — Non è piú tempo di abbandonarsi alla sola immaginazione; cerchiamo una vita nuova nella natura e nella storia; — e fa i Promessi sposi. Ecco Victor Hugo, che volge le spalle alle forme classiche e accarezza forme plebee e scende in tutte le contraddizioni e le mescolanze della vita reale. Sono apostoli di vita nuova, che pure portano ancora nel seno i vestigi della vita antica. Perché, chi piú potente creatore di tipi fantastici che Victor Hugo? Cosa sono i suoi Quasimodo, i suoi Gavroche, se non costruzioni ideali? Cosa sono i Cristoforo e i Borromeo, se non la vecchia vita ideale a cui la storia è semplice decorazione? In mezzo al positivo e allo storico ricomparisce il tipo, ove è la sintesi di tutte le vecchie forme. Questa contraddizione tra l’uomo vecchio e il nuovo non è sfuggita allo sguardo acuto di Manzoni, giunto a questa conclusione che romanzo storico è contraddizione, è mescolanza ibrida, e che o tutto vuol esser storia, o tutto vuol esser romanzo. Non era giunto a sciogliere la contraddizione, a cercare l’arte nella stessa storia e nello stesso reale, l’arte nelle cose, e cercava ideali nell’immaginazione sua e nelle sue intenzioni, come un marchese di Posa dirimpetto a Filippo II. Pure, quel suo immortale discorso critico era un presentimento. Vana rimase la sua voce. Il secolo continuò col reale e colla storia. Manzoni istesso fu seguito da una fiorente scuola di romanzi storici, parte dimenticati, parte in via di dimenticanza. (ilaritá) Romanzi storici, drammi storici, è la mania del secolo, è la mania tra noi di Cossa e di Giovagnoli.
Or cosa vuol dire quest’idea fissa di cercare l’arte nella storia se non che il secolo è divenuto oramai impaziente di temi fantastici e sentimentali e di costruzioni ideali e subbiettive, e cerca un terreno sodo nella natura e nella storia? E cosa è questa esagerazione che trae gli artisti al dispregio di ogni forma consueta dell’arte? È reazione di imo spirito nuovo a quel vecchio mondo ideale divenuto oramai convenzionale. E La reazione ha detto: — Voi volete il bello ed io vi do il brutto; volete il nobile, l’elegante, ed io vi do il plebeo; volete il castigato, il morale, ed io vi do il licenzioso o il cinico; il vostro tema solito è il trionfo della ragione sul senso, ed io vi do il senso nelle sue orgie, nella sua ubbriachezza; voi volete il vestito, ed io vi do il nudo, lo scamiciato; voi vi chiamate spirito ed io mi chiamo materia; i vostri elementi sono fantastici e sentimentali, voi abbellite, voi idealizzate il pallore di una giovine malinconica, o di un giovine impotente alla vita, ed io dico alle vostre Atale, a’ vostri Werther, a’ vostri Oitis: — Andate a prendere i bagni! — . Le vostre eroine sono linfatiche: i vostri eroi sono tisici e anemici. (ilaritá)
È una reazione; perciò è presente nello spirito la cosa contro la quale si reagisce; è una reazione di dispetto, di elementi negativi. E perciò appunto voi, miei signori, non avete ancora cancellato dal petto la forma antica; e siete come ribelli che fremono e si dibattono e si esagerano, e cercano e non trovano ancora la via. Perciò voi siete contorti e convulsi, e cercate forza all’assenzio e novitá alle forme, mancando la novitá delle cose, e, per dirla con le frasi vostre, voi siete isterici, voi siete affetti da eretismo nervoso, (vivi applausi)
£ reazione, la quale, come la rivoluzione, contiene la veritá, perché reazione e rivoluzione voglion dire esagerazione del vero; e appunto perché ci è esagerazione, il vero c’è. La reazione corrisponde a qualcosa di vero che ci è nello spirito contemporaneo.
Vediamo cosa c’è di vero.
La letteratura, che nell’antico era principalmente eroica o epica, espressione di cause occulte e divine, divenne poi l’umanismo, espressione dell’uomo, quasi l’uomo fosse unico centro della vita universale. L’umanismo apparve fin dal tempo che nella commedia di Terenzio un attore diceva: «Homo sum, kumani nihil a me alienum puto», tra i vivi applausi di un popolo che aveva ancora schiavi e che chiamava nemico lo straniero. Quel motto precorreva al Cristo, che proclamava la fratellanza ed eguaglianza umana: «a tutti i figli di Eva nel suo dolor pensò», canta il Manzoni. Il centro dell’arte non sono piú cause esterne e celesti, ma la coscienza, la psiche. La forma moderna dell’arte ha avuto questa base.
Pure, ci sono sentimenti estranei all’umanitá e che pur fanno vibrare una corda nel nostro cuore. Prendiamo il sentimento piú generale, il senso del vivo. L’arte che mi rappresenta il vivo ha un’eco in noi. Certo, se la materia, oltre al vivo, abbia ancora qualitá che trovino una corda nel nostro petto, meglio ancora; l’arte sará piú efficace.
Questo ci può e non ci può essere; ciò che è «conditio sine qua non», ciò che è base fondamentale, è che la materia sia viva. Materia dell’arte non è il bello o il nobile; tutto è materia di arte; tutto ciò che è vivo: solo il morto è fuori dell’arte. Perciò, base dell’arte, se mi è lecito imitare Terenzio, è questo motto: — Sono un essere vivente: niente, di ciò che è vivo, è straniero al mio petto — . (approvazioni)
E non basta. Non solo vogliamo una materia viva, ma che sia di vita naturale a cui l’artista rimanga straniero. I greci ammiravano quelle uve dipinte, a cui beccavano gli uccelli ingannati. Senti spesso dire: — Quel quadro è parlante: cosí è, sembra rubato alla natura — . Se un attore esagera, surfait un personaggio, tutti gridano: — Gli è un adulterio — . Se sa dimenticarsi in quello, bravo, tutti applaudono, dicono: — È desso — . C’è dunque un senso in noi che ci fa gustare l’arte nel vivo, e nel vivo naturale. E eoa’ è questa vita, espressione non del nostro cervello, ma della vita come l’ha fatta la natura, se non il reale? A noi non basta che una cosa sia vera, vogliamo che sia reale.
E non basta ancora. Siamo secolo adulto, e giá da gran tempo non restiamo piú alla vita quale ci si mostra nella sua superficie; vogliamo guardare il disotto, la causa che la produce. E non ci contentiamo piú degli dei, delle influenze celesti, e neppure de’ fenomeni della coscienza. Noi siamo ancora troppo vicini, i nostri posteri rideranno di tutte queste spiegazioni psicologiche, e le diranno anch’esse superficie, a quel modo che noi ridiamo degli Dei d’Omero e chiamiamo superficiali quelle spiegazioni. L’arte non rappresenta la vita in un modo assoluto, ma la vita com’è concepita e spiegata in questo o quel tempo. É la scienza che ti dá il significato della vita; e la vita artistica di un tempo corrisponde alla scienza di quel tempo. Oggi un’arte prettamente psicologica non corrisponde piú allo stato della scienza. Voi potete dimostrarmi che sia scienza vera, che sia scienza falsa; ma tant’è: questo è la scienza e la scienza è lo spirito dèi secolo. Il concetto dell’uomo è divenuto piú complesso. L’uomo è figlio della terra e non ci è influenza terrestre che non concorra alla sua formazione. Non è indifferente che un uomo nasca in questo o quel paese, sotto a questo o quel clima, da questo o quel padre, ed abbia questa’o quell’educazione, e viva in questo o quell’ambiente; sono tutti questi fattori che lo formano, e gli danno un carattere e lo fanno essere questo o quello. Sono nuovi elementi dell’arte, l’uomo guardato nelle ultime sue profonditá. E questo non è solo artistico, ma è ancora morale. La missione dell’uomo è di domare la natura, di vincere tutte le cattive influenze, di conoscerle per vincerle. Sono esse come il parassita che succhia la vite e succhia l’uomo, e in questa lotta per la vita egli ucciderá voi, se voi non avete la forza di uccidere lui.
Ci è dunque tutto un mondo microscopico, che si rivela all’arte. La vita artistica non dev’essere solo vita di superficie, ma vita interna.
E, se vogliamo restringere in poco il discorso, l’uomo, per accarezzare l’uomo, ha trascurato troppo le sue forze naturali e animali. Che cosa è quest’arte nuova? È la natura che domanda il suo posto; è l’animalitá che vuole una piú larga parte.
11 pensiero stillato e assottigliato vuole rinfrescarsi e ringiovanirsi nelle pure onde della natura e ritrovare lá la sua forza e la sua giovanezza. Non vuole piú essere il pensiero impotente di Amleto; perché, cos’era Amleto? In Amleto c’era l’uomo in eccesso e l’animalitá in difetto. La restaurazione del corpo umano accompagna quest’arte fecondata dalle forze naturali e ammali.
L’animalitá è la poesia de’ tempi giovani. Achille è il piú feroce e terribile animale, che abbia creato fantasia di poeta. Non ha famiglia, non ha patria, non ha pietá, cuore di ferro. L’inferno dantesco è pittura potentissima dell’animalitá umana. Il maggiore attrattivo del poema ariostesco è in quegl’indisciplinati animali che si dicono cavalieri, accompagnati dal mezzo riso del poeta, sentore di tempi piú civili. Si è creduto perfino che i tempi ordinati e civili fossero prosaici. L’arte tende a concretare sempre piú e ad incorporare i suoi ideali. E questo non te lo dá il pensiero e la riflessione, te lo dá l’energia animale, dalla quale esce la volontá e l’azione.
Ideali astratti e mistici, ideali tisici e impotenti non trovano piú eco in questa vecchia Europa, che cerca nuovo sangue, un ritorno di gioventú. Vogliamo ringiovanire l’uomo, rifare i corpi, cerchiamo avidi le nostre forze naturali e animali. Questo è il significato dell’animalitá in contrapposizione a un esagerato umanismo. La ginnastica! (viva ilaritá)
E qual è il processo artistico? Non piace a noi piú quell’ordito artificioso, frutto di lavoro mentale, che ti mette innanzi il principale e l’accessorio, caratteri belli e formati in lotta, senza saper come. No, questo ha perduto per noi il suo interesse, e noi siamo curiosi di sapere come avviene questa formazione. (bravo) Non vogliamo vedere il formato, ma la formazione (bene); e allora noi cominciamo a seguire i passi di quella che si chiama evoluzione naturale e che diviene evoluzione artistica, e quindi noi si va di forma in forma, col presentimento in ciascuna di una forma ulteriore. Camminiamo da formazioni inferiori a formazioni superiori; o, quando la forza manca, sentiamo non minore interesse a vedere le formazioni maggiori a poco a poco tornare indietro, (benissimo, applausi) Questo processo evolutivo è il segreto dei grandi artisti; voi lo indovinate nel poema omerico, ove Achille ed Ettore rappresentano due momenti di questa evoluzione. Voi lo trovate nella evoluzione dantesca, in quell’inferno, purgatorio e paradiso che sono l’evoluzione della vita, com’era concepita a quel tempo. Voi lo trovate nella grande epopea dell’arte nuova, nel vecchio Faust, che caccia da sé il pensiero sottile e scolastico, e si rituffa nelle onde della natura, e riacquista le forze della vita, la facoltá di godere, la potenza di amare, e di forma in forma ritrova la smarrita, ritrova Margherita.
E cos’è Margherita? È la vita nella sua primavera, nella sua ingenuitá, nella sua ignoranza, nella sua freschezza. Si, noi vogliamo vedere il cammino ascendente delle forme verso l’umanitá nel suo pieno ideale, o il cammino discendente quando la malattia si rivela, e le forme, come nell’inferno dantesco, vanno digradando sino all’ultima dissoluzione. Questo è il processo evolutivo. (applausi)
E le forme, quali sono le forme di quest’arte nuova? Non piú categorie físse, non piú forme semplici, eleganti e comiche. Le forme sono quali sono le cose; le lingue dotte, le lingue comuni, trattate dall’arte e quasi esaurite, sentono anch’esse il bisogno di ritemprarsi nelle lingue del popolo, piú vicino alla natura, che ha passioni piú vive, che ha impressioni immediate, e che deriva il suo linguaggio non dalle regole, ma dalle sue impressioni. L’artista cercherá e si approprierá tutto quel tesoro d’immagini, di movenze, di proverbi, di sentenze, tutta quella maniera accorciata, viva, spigliata, rapida, ch’è nei dialetti.
Torniamo ora a Zola. Cosa è il suo Assommoir? È una evoluzione a rovescio, dall’uomo all’animale, dall’ideale umano di Gervasia sino all’idiotismo, alla intelligenza cristallizzata, all’essere morale demolito, all’essere fisico incadaverito. Questo non è giá materia di immaginazione; è materia reale. Stanno li, in Parigi, questi esseri disumanati, in quella cittá che «marche á la tè te de la ciihlisation». E di simili ne trovate in tutti i centri civili; due terzi dell’umanitá sono piú o meno in questo stato. E quali sono i motori di questa materia? Sono un complesso d’influenze che hanno formato quell’ambiente, e che hanno formato Gervasia. Il processo è schiettamente evolutivo, e ci piace tanto il vedere, con quale acuto senso del reale, con quanta esattezza di osservazione scientifica sono colti tutti i passaggi di una decadenza lenta ed inconscia, che trasforma l’uomo morale come la natura trasforma l’uomo fisico, senza che l’uomo se ne avveda; sicché, in ultimo, Gervasia, paragonando il suo primo stato coll’abisso nel quale è caduta, scoppia in un riso folle, e talora se la prende col buon Dio.
Diamo un esempio di questa evoluzione.
L’unitá del racconto è l’Assommoir, la bottega dei liquori spiritosi, la cloaca massima da cui derivano tutte le lordure. È lá che Lantier preparava l’abbandono della compagna. È lá che Coupeau tra i cattivi compagni dichiarava il suo affetto a Gervasia. £ lá che Coupeau, deturpato dal vino, fu ucciso dall’acquavite. È lá che Lantier conduceva le sue vittime, che egli chiamava amici. Lá, in quel ritrovo di oziosi, vivaio di ladri e di assassini. Questa è la sala di papá Colombo, che la prima volta si offerse alla vista di Gervasia, la quale presentiva colá la rivalitá di una donna e il tradimento dell’uomo. Un sabato Coupeau promette a Gervasia di condurla seco a teatro, e far la cena assieme. Il danaro della settimana voleva spenderlo cosí, e Gervasia, giá decaduta, non trova nulla a dire. Aspetta, aspetta. E Coupeau non viene. E la fame le tortura lo stomaco: non regge piú. Piove a dirotta. E cosa importa? Ella pensa: — All’Assommoir deve stare costui — . E giunge all’Assommoir ed è lí per spingere l’uscio. Ma pensa: — Cosa diranno di me? Una donna in questo luogo! — E si ritrae. Ma piove, piove. E torna e si ritrae, finché non può piú e trova subito il sofisma per coonestare: — Infine, sono una moglie che cerca, il marito — . Entra e trova Coupeau in un cerchio di ebbri. Ebbro lui per il primo. Lascio gli sfoghi, i motti, le allusioni. Coupeau dice infine: — Bevi un po’; un goccetto ti sazia la fame — . Prega di qua, spingi di lá, Gervasia beve l’anisetta di Coupeau come beveva l’anisetta materna. E se ne sente confortare, e vede portarsi in giro un liquore che sembrava oro, e la macchina che le stava alle spalle le infiamma i nervi, la ubbriaca prima di bere. Beve, e poi beve, e poi beve; ella è giá ebbra tra ebbri. Povera Gervasia! Aveva istinti, non aveva qualitá, non aveva forza di resistenza.
Questo processo evolutivo, condotto con una coerenza ed una costanza unica, desta la nostra ammirazione.
E non è meno potente, in questa evoluzione, lo stile, che è impersonale, stile delle cose. La materia è calda da sé; non le è bisogno sguardo d’artista. Abbellimenti, belletti, perifrasi, figure, questo dizionario delle vecchie forme qui non ha lasciato alcun vestigio. Col tipo è andata via ogni esagerazione di frase. L’artista, colla sua morbosa ingerenza, non è piú il prete, posto lí fra l’uomo e Dio; il lettore entra in comunione immediata colla cosa. E non perciò manca l’ideale. Gli è solo che l’ideale non nasce da una vita artistica soprapposta e mescolata con la vita naturale. L’ideale è nelle cose, dalle quali escono lampi e guizzi di sentimenti umani. In questo mondo dove l’uomo scompare e la bestia appare, sono interessantissimi i pochi e rari e fuggitivi sprazzi umani, non accompagnati, non sviluppati dalla presenza dell’artista: sarebbe una profanazione.
Prendiamo qualche esempio. Nella stanza dell’albergo Boncoeur, in mezzo alla desolazione, al presentimento dell’abbandono, un raggio di sole penetra illuminando. Mentre il pianto e i singhiozzi soffocano la madre, due bambini dormono nel riso della pace. Un poeta direbbe subito che quel raggio di sole e quella celeste pace è un’ironia. Zola non dice nulla. È la cosa che parla sola. C’è anche Lalia, fanciulla di otto anni, che ha visto morire la mamma sotto le mazzate del padre ubbriaco, che prende anche lei ciascuna sera le frustate dell’ubbriachezza, che fa da mammina lei alle due piccole sorelline, ed è tutto ordine, tutto nettezza, tutto previdenza; e non ha altra espressione dell’anima se non due occhi neri, pensosi, che talora ingrandisce quando alcuna cosa esce dall’abitudine e la sorprende. Oramai è usa al puzzo dell’acquivite, foriero delle frustate. Ma una sera entra la buona Gervasia, che talora le era scudo contro il padre, e sente l’acquavite, la sente dalla bocca di Gervasia, e ingrandisce quegli occhi neri pensosi. Quanta materia di osservazione, quanta commozione in quella Lalia, che non parla e guarda. Questo è l’ideale delle cose. (applausi)
E ci è anche come un filo d’argento in questa trama verminosa; ci è come una traccia ideale dal principio all’ultimo. Goujet è un bravo operaio, cresciuto innanzi al senno, direbbe Boccaccio, di una «intelligence dure», cervello di bambino in un corpo di Ercole. Sotto gli occhi di una madre dabbene e severa non ha conosciuto ancora altra donna che Gervasia. E la vede li cosí buona presso il marito malato, che ella non aveva consentito di mandare allo spedale, e che vegliava di e notte, spendendo intorno a lui tutti i suoi risparmi. Gervasia gli dice un di: — Perché non prendi moglie? — . E lui: — Dove troverei un’altra Gervasia? — .
Cosi nasce questo amore fanciullesco. A Goujet giunse la voce di una prima caduta di Gervasia e non era vero; ci era l’apparenza del male, non ci era ancora il male. Il quartiere diceva che il male era avvenuto solo perché ce ne era l’apparenza. Si vedono, e non si dicono una parola, e camminano, camminano finché si fermano senza intesa, come per istinto, come per rispondere a quello che era giá nei loro cuori; si fermano in un bel pratello, sparso di fiori, il solo verde, il solo azzurro di cielo che si trova in questo racconto. E Goujet coglie fiori, e li getta nel panierino di Gervasia, e ride, ride ed è contento. Questo è l’amore di Goujet.
E quando la trova per le vie di Parigi, e vanno a casa, Gervasia si getta come affamata sulla cena, e saziata la fame sta lí come donna che si sente in potere di un uomo. Goujet prorompe: — «]e vous aime, Gervaise. — Je vous aime aussi». — dice ella e fugge. Goujet era sempre quello; poteva dire: — «Je vous aime» — e la sapeva giá degradata. Ma lei, quanto era mutata! poteva rifare la sua vita, poteva dire a Goujet: — «Je vous aime» — ? Innanzi a Goujet la donna decaduta sente la vergogna, fugge dal suo petto il guizzo di un ultimo sentimento umano. L’uomo volgare non intende questa fuga di Gervasia; poteva lá, in braccio a Goujet, mi disse un giorno qualcuno, finire la sua miseria e la sua degradazione; e colui si mostrava meno uomo di Gervasia, che nella sua fuga ritrovava il suo sentimento di donna. (vivi applausi)
Potrei citare parecchi di questi tratti, ove dal grembo inconscio della natura scaturisce l’ideale umano, come acqua dalla fonte. Ma il tema è lungo, abbrevio. Dico solo: — Vedete come Gervasia muore — . Ci è in quel mondo anche il becchino, ubbriaco sempre, anche portando i morti: in questo racconto quasi tutti sono ubbriachi. Ma è un ubbriaco buon compagnone e allegro; il suo nome di quartiere è «Bibi-la-Gaieté», Bibi-l’allegria. Il morto è per lui una «pratique»: egli dice: — «Je vais emballer ma pratique» — . Che emozione in questo linguaggio volgare! (approvazioni) E prende il corpo di Gervasia, costui che si chiama «le consolateur des dames»; e parla famigliarmente al cadavere, e dice: — «Fais dodo, ma belle!» — . La culla e la bara confusa nella mente ubbriaca, l’ubbriachezza dirimpetto alla morte, come fa la plebe. Questo è l’ideale delle cose. (applausi)
Concludiamo. Qual è il vostro giudizio di Zola? Un tal critico dice: — De Sanctis non lo lascia intendere, ma ha una predilezione per Zola; Zola è un progresso anche dirimpetto a Manzoni; Zola è piú grande di Manzoni — . Che torre di Babele in queste parole! come in certuni la critica è ancora nella sua infanzia! (ilaritá, approvazioni) Che cosa ha a fare il progresso delle forme con la grandezza dell’ingegno artistico? Manzoni è geniale, Zola è un ingegno potente che non sale fino al genio.
Egli non è un creatore di arte nuova, e neppure un precursore come si tiene. È un fenomeno, o se vi piace meglio, un sintomo. È il pittore della corruzione il bel mondo dell’arte ideale va in isfascio; e Zola raccoglie le macerie e te le butta sul viso. È la conclusione ordinaria di ogni demolizione, non è il principio di un nuovo edifízio. Il suo mondo animale è ottuso; Zola non intravede niente al di lá. I precursori sono come la via lattea: lasciano una traccia luminosa; i posteri piú tardi in quella luce scopriranno le stelle, (bravo) Zola non è il precursore del nuovo; ma è il becchino dell’antico. Nuove sono le forme sue dell’arte attaccate al cadavere del contenuto, (applausi) Volete voi sapere quali sono i precursori?
Precursore è Vico, il vero padre di questa nuova arte, il cui mondo non è tanto una logica ideale, come credeva la filosofia tedesca che si vantava continuatrice di Vico: il suo mondo è filologico, storico, psicologico, positivo, concreto, opposto alle idee innate, alle tesi astratte, cartesiane. È la scienza fondata sull’osservazione e sul reale che è la continuatrice di Vico, e Vico non è ancora esaurito; il secolo prossimo sará la sua continuazione. L’uomo incompreso al suo tempo portava nel suo petto l’idea di due secoli. (applausi)
E un altro precursore è Goethe; e cos’altro è questo mondo nuovo dell’arte, se non il vecchio Faust ringiovanito, che di forma in forma ritrova la vita? La scienza ha volto le spalle agli ideali teologici e metafisici, ed ha cercato la veritá nello studio della natura. E l’arte volge anche lei le spalle alle costruzioni ideali e cerca nella natura nuovo sangue.
Un giovanotto venne ieri a me: — Professore, voglio un biglietto: desidero sentirvi. — E perché? — dissi io. — Perché voglio che mi spiegate il verismo. — Eccomi a soddisfare questo giovanotto. (ilaritá)
Verismo, idealismo, realismo, dottrinarismo, spiritualismo, materialismo, e tutte queste parole che finiscono in «ismo», mi sono sovranamente antipatiche. (ilaritá)
Mi sembrano aggettivi peggiorati nel sostantivo, una esagerazione, una caricatura nel loro sostantivo. Voglio il puro e non il purismo, la dottrina e non il dottrinarismo, spirito e non spiritualismo, materia e non materialismo, vero e non verismo. Questi nomi non corrispondono alla veritá delle cose, la natura è piú ampia e non può essere compresa ivi dentro; è il cervello limitato dell’uomo, che non può abbracciare il tutto, e piglia una parte e chiama quella il tutto. (applausi)
E se io volessi ora lasciare qualche ricordo alla gioventú, dico che il momento della nuova arte non è piú contemplazione, il pensiero impotente di Amleto, ma è azione, è il Faust rifatto giovane; e dico che il motto di una arte seria è questo: poco parlare noi, e far molto parlare le cose, «sunt lacrimae rerum». Dateci le lagrime delle cose e risparmiateci le lagrime vostre! (applausi fragorosi e prolungati... impressione profonda).
[i5 giugno i879: conferenza detta al Circolo Filologico di Napoli.]
Un’appendice.
È chiaro che in questa conferenza l’ultima parte, che è la conclusiva, potè essere appena abbozzata. Dopo due ore e mezzo di discorso non ne potevo piú. E non mi fa meraviglia che alcuni mi abbiano frainteso, vedendo in queste ultime conclusioni una specie di eccletismo, secondo quel motto: «Tous les genres sont bons, hors le gerire ennuyeux».
L’eccletismo è la tolleranza e la libertá di coscienza; è la prima vittoria delle idee nuove. La Riforma vinse, quando dopo lunga lotta acquistò il suo dritto di cittadinanza accanto agli altri culti. Dire oggi: idealismo, realismo, poco importa: divertiteci, non annoiateci, ecco quello che importa; dire questo è giá una vittoria per i principii nuovi.
Ma l’eccletismo troppo continuato è uno stato pericoloso dello spirito. I piú ci stanno, perché non vogliono darsi il fastidio di studiare e formarsi un’opinione; errando tra il si e il no, giungono all’indifferenza, che è l’anemia dello spirito, il tarlo della nostra societá. E l’indifferenza si propaga come la peste in tutti i rami dell’attivitá umana, religione, filosofia, scienza, arte, politica.
Capisco che in questi tempi di transizione, dove il vecchio ha ancora una gran forza di resistenza, ed il nuovo mescolato con elementi impuri non ha ancora una posizione chiara innanzi al maggior numero, l’eccletismo è una necessitá, mentre i lottatori combattono con varia vicenda. Bisogna conquistare la platea, cioè il grosso pubblico, abbagliato dagli splendori del passato, e non ancora ben chiaro delle nuove tendenze. Nella scienza sono venuti fuori tra i realisti cosí illustri cultori che la partita si può dire guadagnata. Nell’arte non sono comparse ancora stelle di prima grandezza, ed è giá un gran passo costringere la platea all’eccletismo. Ci è ancora nelle nostre idee e nei nostri costumi quella che io ho chiamato la malattia dell’ideale. E molti sono i malati, soprattutto in Italia, e soprattutto in politica e in arte.
£ permesso l’eccletismo al maggior numero. Ma non è permesso a quelli che combattono. Io non sono stato mai un eccletico. Ho esposto le mie idee sempre con la maggior chiarezza e determinatezza. E chi mi ha seguito nella mia vita intellettuale, vedrá che sin da quel tempo che Hegel era padrone del campo, io ho fatto le mie riserve, e non ho accettato il suo «apriorismo», la sua trinitá, le sue formole. Ma ci sono in Hegel due principii, che sono la base di tutto il movimento odierno, il «divenire», base dell’evoluzione (Entwickelung), e l’«esistere», base del realismo. Il sistema è ito in frantumi. Ma questi due pnncipii lo collegano con l’avvenire.
Qualcuno pretende che io sono passato nel campo dei realisti, e qualche altro che io ho fatto ciò per vezzeggiare le moltitudini. Il qualcuno non conosce il mio intelletto, e il qualche altro non conosce il mio carattere. La veritá è che io non sono un sistematico. Il sistema per me è una veritá unilaterale, non è tutta la veritá. Perciò aborro da’ sistemi, pur riconoscendo la loro necessitá.
Il sistema nasce da una nuova tendenza che si manifesta in opposizione al passato. La quale, ridotta in sistema, si attribuisce un valore assoluto, e nel calore della lotta vi aggiunge l’esagerazione e l’intolleranza della passione. Il sistema è necessario, perché gli uomini sono fatti cosí, e per pigliar bene la mira debbono chiudere un occhio. Suo contrapeso è il buon senso, che, presto o tardi, piglia il suo posto. Il mio temperamento intellettuale non mi ha reso mai inchinevole a opinioni estreme. Sotto le varie forme della mia esistenza sono stato sempre centro sinistro o sinistra moderata, cosí in politica come in arte. Perciò aborro dai sistemi e dalle loro esagerazioni.
Il realismo in arte oggi ha il carattere di una reazione sfrenata. E un fenomeno di poca durata; il buon tempo verrá. Il mio realismo lo esprimo in poche parole.
La sua sostanza è questa che nell’arte bisogna dare una piú larga parte alle forze naturali e animali dell’uomo, cacciare il «rêve» e sostituirvi l’azione, se vogliamo ritornar giovani, formare la volontá, ritemprare la fibra. Il realismo che somigli a un’orgia, è poesia di vecchi impotenti e viziosi, non è restaurazione di gioventú. Veggasi la mia Scienza e vita. E la forma del realismo è questa, ch’ella sia corpulenta, chiara, concreta, ma tale che ivi dentro traspaiano tutti i fenomeni della coscienza. L’uomo deve fare, non dire, quello che pensa. Ma nell’azione dee trasparire il suo pensiero, come nei moti dell’animale traspare il suo istinto. Questa è la forma obbiettiva, la vita delle cose. L’artista è come il grande attore che obblia sé e riproduce il personaggio tal quale natura lo ha formato. Galileo, precursore del realismo anche in arte, chiamava questa naturalezza e semplicitá. Perciò diceva divino l’Ariosto; perciò gli era antipatico il sentimentale e rettorico Tasso.
Per una razza fantastica, amica delle frasi e della pompa, educata nell’arcadia e nella rettorica, come generalmente è la nostra, il realismo è un eccellente antidoto.
[Conferenza tenuta al Circolo Filologico di Napoli, il i5 giugno i879, pubblicata nel giornale «Roma» di sulla stenografia, e, riveduta dall’Autore e con aggiunte, in opuscolo, Milano, Treves, i879.]