Roma sotterranea cristiana/III
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | II | IV | ► |
III.
Il Cimitero di s. Callisto sopra terra.
Gettando ora uno sguardo sulla immensa superficie esteriore della già descritta sotterranea necropoli, non poche tombe e sepolcri si vedono qua e là, in mezzo a quella solitudine, spuntare isolati, solinghi e come seminativi dal caso. Se non che, furono veramente tombe e sepolcri d’isolato e parziale interesse: o non più presto coordinati al sistema sepolcrale delle sottostanti regioni, e costituenti insieme un regolare cimiterio a cielo aperto?
Ecco un quesito affatto nuovo nell’istoria della Roma sotterranea, non risoluto, e nemmeno avvertito, da quanti trattarono, fin qua, della Roma sotterranea.
Il de Rossi adunque, concepita l’alta importanza del risolverlo, ne fa in questo terzo libro obietto principale a nuove sue disquisizioni; le quali non ristringe al solo cimitero che or prende a descrivere, ma di più tende a stabilire un criterio generale a giudicare delle antiche cristiane necropoli costruite sopraterra.
E come ei procede sempre con la scorta positiva dei dati storici e con severa critica, muove anzitutto (cap. I) da sventare con argomenti di storia e di fatto la falsa opinione tenuta nei tempi passati, che Coemeterium fosse quasi sinonimo di sepolcreto sotterraneo. Cotalchè il dotto Settale, nonostante che fosse inclinato a credere esistiti Cimiteri anche sopra terra, per non cozzare con la prevalente opinione, si mostrò pronto a rinunziare alla sua, quando gli venisse contraddetta. Così il dotto gesuita p. Marchi, trovate le tombe del sistema cimiteriale a cielo aperto nella sacra necropoli di Ciriaca, non ne riconobbe la condizione, e le suppose parte d’uno speciale sistema sotterraneo. Il de Rossi intanto che nelle sue esplorazioni non torcea mai rocchio da questo punto, potè da ripetuti indizi, dalle vestigia delle rovine e da non pochi altri fatti, persuadersi dell’esistenza di cimiteri cristiani, costituiti con proprio ordinamento, all’aperto cielo. Tanto che con sagace accorgimento pose nelle sue Inscript. christ. Urbis Romae, a fondamentale distinzione topografica e cronologica, quella degli epitaffi sotterranei dai non sotterranei. E cotesta sua teoria, la formolò già nei precedenti volumi, e massime nel primo; ove illustrò cimiteri cristiani, costruiti in orti ed in aree a cielo aperto. Ma allora non potea dir di più; che le sue esplorazioni erano al principio. Oggi che sull’area esteriore callistiana le ha compite, è in grado di affermare la sua teoria non solo per argomenti ed indizi, ma per fatti palesi e incontrastabili.
È certo adunque, che i cristiani costumarono anche scavarsi dei sepolcreti nelle viscere della terra, dalla superficie in basso finchè potevano; ove, a suoli, deponevano i loro cari defunti. E ciò fecero anche in Roma, ove il sistema delle gallerie sotterranee ebbe tanto vigore. E donde venisse cotesto modo di fosse a molti suoli (che non dee confondersi con l’Obrendarium de’ pagani) già lo dimostrò il ch. Autore nel tomo I,1: provando esser tal uso consigliato dall’economia di spazio, e per non toglier troppo terreno all’agricultura. Allora dimostrò pure che i cimiteri Cristiani sopra terra, non principiarono (come ne parrebbe) dopo il trionfo del Cristianesimo; ma si aprirono contemporaneamente ai sotterranei; e ne addusse le prove di fatto. Vero è che in Roma, dice il ch. de Rossi, prevalse, più o meno, l’uso dei cimiteri sotterranei fino a tutto l’impero di Costantino Magno.
Ricordate coteste preliminari nozioni, passa (cap. II) l’Autore a descrivere il Cimitero di s. Callisto, creato sopra l’immensa necropoli sotterranea omonima. E tuttochè non si possa decifrarne materialmente i limiti, per difficoltà di operare quelle escavazioni che si richiederebbero all’uopo, nulladimeno, dall’importantissima scoperta di un muro costruito di tufi a cemento, lunghesso il lato meridionale che risponde esattamente, nella interna necropoli, alla linea che marca i confini dell’area originaria del sotterraneo, argomenta che il Cimitero sopra terra star dovea in relazione con cotesta Area primitiva per modo, che il muro accennato costituir dovesse dell’uno e dell’altra la base di demarcazione. Cos’è dunque di più ragionevole, (ei dice) che il Cimitero all’aperto cielo si estendesse quanto teneva, in origine, il sotterraneo? E accortamente dice in origine, perocchè non è da misurarsi con la sotterranea Callistiana necropoli dopo il successivo suo svolgimento dal III secolo in poi.
Il prof. Michele Stefano, degno fratello del nostro Autore, già espose nella eruditissima sua Appendice architettonica al I tomo dell’opera, come una legge in Roma determinava la quantità della superficie di suolo, che consacrar si volea all’umazione de’ cadaveri, per la ragione che poi rimaner dovea per sempre luogo sacer, religiosus e inalienabile. I cristiani pertanto, che in questo non erano fuori del giure comune, non è a dire se di cotesta legge facessero loro pro, a rendersi stabile la proprietà di que’ luoghi, ove deponevano i loro cari, sovente passati per il martirio da questa alla eterna vita. Epperò, non appena acquistavano territorio, che tosto ne costatavano legalmente la superficie, per via di geometrica misurazione e di cippi terminali. Sembrerebbe peraltro a ciò contradire il fatto, rispetto ai cristiani; perocchè, mentre nelle epigrafi cimiteriali pagane è sempre espresso quanto in agro e in fronte si estendeva il terreno sacro al defunto; nelle cristiane, mai, o quasi mai ciò è ricordato. Se non che l’erudito Commendatore spiega cotesta omissione sopra gli epitaffi cristiani, da che l’area cimiteriale cristiana era di comune proprietà del corpo della Chiesa; e in fatti nelle iscrizioni dei sepolcreti sopra terra spesso è ricordato con la frase, ecclesia fratrum, cuncta fraternitas ec. Nè è punto improbabile che con cippi terminali segnassero eziandio i confini della loro comune area sepolcrale: e il figere tumulometas è scritto in lapide cristiana di Palestrina: e cotesta formola è dall’A., dichiarata con acconcie testimonianze di antichi scrittori cristiani. Che se di cippi terminali non n’è stato trovato pur uno nella vasta area Callistiana, non bisogna dimenticare i tanti sconvolgimenti subìti dal classico Cimitero, sia per le furiose invasioni pagane e poi barbare, sia per le confische imperiali. Oltrechè il muro di cinta dell’area, teneva luogo di termine; e l’area muro cincta non abbisognava di ceppi terminali.
Provato adunque in teoria ed in fatto il confine e perimetro del Cimitero di s. Callisto, sovrapposto all’omonima sotterranea necropoli; e detto dell’uso di seppellire i cadaveri in faccia all’Oriente (che si diceva orientare): uso ch’ei trova costante nei sepolcri sopraterra (tranne quelli che si aggruppavano intorno alle Basiliche), ma vario e incostante nelle sotterranee regioni per la tortuosità e intreccio delle gallerie; ci descrive minutamente (cap III) il sepolcro cristiano a fior di terra: la sua costruzione a mattoni e tufi cementati a calcina, finendo superiormente a tetto di capanna con due tegoloni commessi a sesto acuto; la sua profondità, che sovente era atta a contener, l’un sopra l’altro, dieci e più corpi, separati da tramezzi di lastre in terra cotta o marmoree, e talvolta fornite, dei respettivi epitaffi. E dai caratteri speciali e propri di queste arche sepolcrali a cielo aperto, argomenta non pure l’epoca di cotali sepolcri tra il IV secolo in circa, ed il V; ma e stabilisce in genere, mediante il confronto di essi con gli avelli della sotterranea regione, una sostanziale differenza tra questi e quelli, sia rispetto alle dimensioni e alla chiusura, sia rispetto alla collocazione e ordinamento delle tombe.
Un altro genere di selpocreti vi scuoprì inoltre il de Rossi; que’ sepolcri, cioè, a forma di largo e profondo pozzo: ove, non si deponevano i cadaveri a strati orizzontali, ma in tanti loculi scavati intorno intorno alle interne pareti; ond’è che non si possono scambiare con i pozzi sepolcrali pagani, mentre in questi secondi, non in loculi, ma nel fondo si adagiavano i cadaveri, con quanti mai attrezzi ed oggetti pertenevano al defunto. Intanto questo nuovo genere di tombe dà qui all’Autore occasione a dissertare sulla differenza che corre tra i puticuli della misera plebe pagana, ed i sepolcri poliandri della fratellanza cristiana.
Che ognuna di coteste tombe accatastate, avesse il suo coperchio, con l’epitaffio talvolta dell’accluso defunto, non è più a dubitare dall’«enorme numero di frantumi epigrafici in pietre di molta mole, trovati spettanti al sepolcreto esteriore ed ai singoli sepolcri, non che titoli di complessivi poliandri» (p. 400). Se non che, riuscì affatto impossibile al ch. Autore, da cotesta farragine indigesta di frantumi restituire a ognuna delle tombe il suo coperchio e titolo. Un solo epitaffio potè trovare intiero: e questo compensò in parte, per la sua singolarità, tanta jattura di memorie. Vi lesse infatti una nuova formola sepolcrale, che oggi per la prima volta apparisce nella cristiana epigrafia; e dimostrò come quel DP STOLIS SVIS (Depositis in sepulcro stolis suis) risponda a capello col rito antico della chiesa di deporre nel sepolcro con la sua bianca veste (stola) il defunto battezzato di fresco.
E fin qui della costruzione e forme varie dei sepolcri cristiani.
Ma qual fu l’antica e tecnica denominazione loro?
A ciò l'illustre p. Marchi avea già risposto nella sua Architettura cimiteriale cristiana2; ond' è il ch.mo de Rossi se ne sarebbe potuto sbrigare qui in brevi parole, se la distinzione oggimai certa e palese tra’ cimiteri sopra terra e quelli sotterranei, non lo costringesse a tornare sopra il già detto dal sapiente suo Maestro; e classare ad un tempo le denominazioni dei sepolcri, a seconda della terragna o sotterranea loro postura. Qui (capo IV) dunque il ch. Autore apre un eruditissimo trattato sulla terminologia dei sepolcri cristiani. C’insegna che formae si denominavano que’ sepolcri sopra terra, i quali nella loro profondità erano atti a contenere anche otto ordini di tombe. Locus e τοπος fu nome comune ad ambe le specie dei sepolcri. Ond’è che i Loci, o sopra o sotto terra che si fossero, dal numero dei cadaveri contenutivi, prendevano l’appellativo di bisomus... quadrisomus ecc., e sopra terra, i Loci bipartiti furono detti biscandentes; i tripartiti, tercandentes. Cupa, o Cupella, o Cupula, veniva a dire urna (sarcofago) di terra cotta, o costruita di materiali; ed era proprio del sistema sepolcrale sopraterra. La tabula si chiamava la chiusura del Locus; e nei sotterranei prendeva il nome di mensa, se posta orizzontalmente sopra tomba elevata alquanto dal suolo. Sovente, al di sopra di cotesta mensa, era scavato nel muro, come una nicchia di forma quadrilunga od arcuata. Dell’arcuata, la cimiteriale epigrafia ce ne ha serbato il nome chiamandola Arcosolium e Arcisolium, ciò è dire, che sormonta il solium (arca, mensa).
Come dei singoli sepolcri, così ci spiega (cap. V) l’antica nomenclatura di ognuna delle parti della necropoli, con le sue discese dalla superficie del suolo, le quali si dicevano scalae, descensus; e in greco, κατάβασις quando mettea in più piani, o si volea indicare il piano istesso. V’erano i pozzi; i quali, servendo unicamente all’estrazione della terra dalle sotterranee escavazioni, non si debbono confondere con i già dichiarati puticoli, e molto meno co’ lucernarii (luminare) che servivano a introdurre dall’alto la luce in quegli oscurissimi recessi. Le sotterranee gallerie si vollero chiamare cunicoli; ma, stando all’epigrafico linguaggio, si dissero più propriamente cryptae; significando il cubicolo ad un tempo e l’ambulacro che là ne menava. Il complesso poi del sepolcro prendeva il nome d’hipogaeum o catagaeum, quando s’internava sotto terra; e la parte ove riposavano le reliquie dei martirizzati cristiani, avea il glorioso nome di confessio, e anche μαρτύριον.
Dai particolari risalendo in fine al nome generico e comune a qualunque cristiana necropoli, (sia sopra, che sotto terra) dimostra evidentemente (cap. VI) essere stato sempre quello di coemeterium, e latinamente accubitorium. Il quale comprendeva non pure il complesso dei sepolcri, ma e gli edifizi annessi, non esclusa l’abitazione istessa de’ fossari. Da accubitorium ne venne adunque cubile, cubare, catacumbas. E quest’ultimo nome divenne, come sembra, tra ’l III e IV secolo, proprio e speciale di quella grande zona cimiteriale, che per lungo tratto si estende sulla via Appia, a meno d’un chilometro dalla città, e che va conosciuta sotto il nome di s. Sebastiano.
Ma se il nome di Coemeterium, o accubitorium fu comune alle due specie di sepolcreti, altre denominazioni speciali distinguevano i sotterranei da quei costruiti sopraterra. Infatti cryptae arenariae, per esempio, era nome speciale dei sepolcreti nascosi nelle viscere della terra, come provò il dotto fratello del ch. Autore, nella sua citata Analisi architettonica,3; mentre dei sepolcreti all’aperto cielo, fu quello di area, e talvolta di hortus: intorno al quale argomento è da vedere il dotto ed ampio ragionamento del ch. nostro Autore nel suo Bullettino d’Archeologia cristiana4. I pagani li dissero anche vineae o pomaria; e i loro frutti servivano all’epulum funebre, alle rosationes e violationes ecc. Di queste funebri costumanze del paganesimo i cristiani adottavano quanto loro conveniva ed era in sè innocente. La Chiesa fino dal suo nascere intese a cristianeggiare il bello e il buono, offuscato o corrotto dalla voluttuosa civiltà pagana; indi non aborrì al tutto per le sue cerimonie sepolcrali e per le tombe dei suoi fedeli l’ornamento, che tanto si confaceva col cristiano simbolismo delle mistiche rose e viole, e vendemmie del celeste Giardino, ove le anime elette, di cui nel sepolcro si serbavano le spoglie mortali, erano volate a eternamente godere. Anzi era caro a que’ buoni e schietti primi cristiani chiamare i loro sepolcri cepotaphia (orto-sepolcro) da che ricordava loro il monumentum novum in horto5 del divin Salvatore.
E di cotesti cepotafi cristiani, instituiti in horti ed aree, avendo largamente ragionato nel I.° tomo, non gli resta qui che trattarne rispetto al diritto civile.
È noto che per gius comune un luogo destinato all’umazione dei cadaveri, diveniva per i Romani religioso e inalienabile. Le aree peraltro, o edilizi annessi al sepolcro, se per ispeciale disposizione non erano dichiarati una cosa istessa con i sepolcri, non rivestivano il carattere di religiosità. Un luogo poi religioso si diceva anche sacro, quando avea ricevuta la rituale cosacrazione: rito che adoperarono i pagani per i loro sepolcri, sebbene non se ne conoscano le precise formule e cerimonie. Dal sacrum ne venne il sacrarium, ben diverso nel significato dal primo; perocchè questo non significava altro che il sito recondito, ove le sacre cose si riponevano e conservavano. Ed ecco, in breve, il rituale pagano intorno alla religiosità dei sepolcri.
A siffatta legge rituale dovevano necessariamente sottomettersi i Cristiani; cotalchè, se volevano conservare dei loro sepolcri la proprietà inviolabile, dovevano anzitutto adempire al rito legale della religiosità. Ma però, adoperarono il rito essenzialmente pagano? Sarebb’errore il crederlo; da che sarebbe stato per essi un atto d’idolatria, consacrare i sepolcri. Cambiarono dunque in sostanza ciò che in apparenza restava del formulario legale. E in verità nel linguaggio epigrafico cristiano non trovi pur una volta, ci avverte il ch. Autore, locus sacer; ma locus sanctus. Il sanctum infatti significava, a dirlo con Ulpiano, quae neque sacra neque profana sunt6. E il vago appellativo dovè piacere a’ Cristiani; sì perchè escludeva ogni equivoco con la pagana consacrazione; e sì perchè è voce propria del biblico linguaggio. Conchiude però il dotto Commendatore che, sebbene i sepolcri cristiani venissero dichiarati per legge religiosi, tuttavia, durante la persecuzione, pare non si costumasse di così chiamarli; non trovandosene parola nella epigrafia cimiteriale dei primi secoli del Cristianesimo: forse a’ seguaci di G. Cristo ripugnava quel religio pagana!
Come poi il Cristianesimo ebbe vinta l’aspra lotta col paganesimo, e stancato il braccio del carnefice, non paventò più mostrarsi all’aperto cielo, e far valere il suo diritto ad una esistenza sociale7. Allora dunque principiarono a popolarsi anche le superfici esterne delle necropoli, e, al proposito nostro, della Callistiana, di basiliche, oratorii, celle monumentali, e di altri edificii di varie ragioni e forme. Quindi nuovo periodo del gius sepolcrale, e nuovo svolgimento dell’arte cristiana e sua terminologia (cap. VII). Così i cippi e le stele contrassegnarono i sottostanti sepolcreti. Se non che nel Callistiano cimitero non abbiamo che rarissimi esempii di siffatti segni; costumando i cristiani deporre il cadavere in arche scavate nel marmo o pietra, le quali venivano difese contro la pioggia e le intemperie da una coperta (tegurium), sorretta da quattro colonne con suo architrave; intanto che cancelli di marmo traforati (transenna) ne chiudevano l'intercolonio. Se poi i sarcofagi erano situati lunghesso le pareti esterne delle basiliche, venivan' essi ricoperti da una tettoja infissa nella parete, che si diceva teglata o protectum. E di questa foggia di protezione, nei sepolcri esterni alla Basilica di s. Marco sul cimitero di Balbina, ne rimane tuttora una iscrizione. Il tipo adunque dei monumenti sepolcrali del medio evo sotto tabernacoli, si può da quelle storicamente ripetere.
A proposito dei sarcofagi, non dimentica l’esimio Autore la promessa fatta fino dall’esordire dell’Opera: di prendere, cioè, in particolare esame questa sorta di monumenti; e darne una idea bastante a farne intendere la materia, la forma e l’uso cristiano. Se non che allora, sperava che col progredire delle escavazioni di s. Callisto avrebbe a lui, come al Bosio e forse più, sorriso la fortuna nel rinvenire sarcofagi interi, figurati e iscritti, da non venirgli meno la materia per la promessa trattazione. Ma che dire, se in vece di sarcofagi, non si vide dinanzi che una massa confusa di mille e mille frantumi? E tanta n’era la confusione e varietà, che nemmeno la penosa e paziente industria, altre volte da lui adoperata in simili casi, valse questa volta altrettanto. Tenta peraltro il guado; e con que’ poveri avanzi prende a svolgere il tema promesso; e nell’Atlante, annesso al volume, non riproduce tutti cotest’infiniti frammenti, chè troppa confusione ingenererebbero, ma i soli sarcofagi ritrovati meno guasti; rimandando per gli altri al catalogo de’ monumenti cristiani fotografati, del sig. Carlo Simonelli8, nel decorso del suo ragionamento.
Richiama frattanto alla memoria (cap. VIII) quanto intorno a questa specie di monumenti andò ragionando nel I e II tomo dell’opera, non che nel tante volte lodato Bullettino di Archeologia cristiana; e poi scende a ragionare del loro uso antichissimo. Uso che anzitutto gli si manifesta in due loculi, incavati nelle pareti, fatti a forza di stucchi in forma di urne marmoree, nel cimitero di Domitilla; dai quali egli ritiene originassero i veri sarcofagi di marmo, tanto divenuti poi frequenti e comuni presso i cristiani nei sotterranei cimiteri9. Che se con gli eruditissimi, E. Q. Visconti10, e C. Cavedoni11, si può tenere; sepolcri di sì fatte forme fossero già nel I secolo della Chiesa in uso, la loro frequenza però non sembra al ch. Autore essere anteriore ai tempi imperiali di Adriano e degli Antonini. Venendo intanto al particolare della Callistiana necropoli, raccoglie in tre gruppi, o famiglie, i rimastine frantumi: quelli della cripta di Lucina; gli altri trovati presso la cripta papale; ed altri presso S. Eusebio, nell’area prima di Callisto. Sono i primi ed i secondi, della prima metà del secolo terzo; siccome i terzi, del secolo medesimo, ma cadente. E qui in brevi parole ripete quanto già disse largamente nei tomi I e II, intorno agli artefici dei sarcofagi di marmo che adoperavano i fedeli in tempi più antichi. Codesti sarcofagi non furono (dice, dimostrandolo) d’arte propriamente cristiana, ma scolpiti generalmente da artisti pagani; i quali costumavano di lavorarli, e tenerli preparati nelle loro officine, come cosa di commercio. I cristiani pertanto, che non erano ancora molto innanzi nell’arte scultoria, dovevano ricorrere a coteste officine, quando avessero voluto dare ai loro cari defunti più onorato sepolcro. Ponevano per altro singolar cura nel presceglier quelli che meno sentivano di mitologiche e pagane rappresentanze, e che ornati fossero di scene indifferenti e naturali; come, di naviganti, di pastorizia, d’agricoltura e di conviti; le quali molto bene si addicevano alla simbolografia cristiana. Quando però non potevano averli con tali rappresentanze, si attenevano a quelli fregiati di simboli del ciclo cosmico ed eroico; come maschere sceniche, giuochi palestrici e caccie; purchè non offendessero il senso morale e la fede cristiana: che se talvolta potea sembrarlo, davano di scalpello alle dubbiose figure.
Ma dunque non abbiamo noi sarcofagi di scalpello cristiano?
Dir questo sarebbe troppo: chè non pochi ce ne fa conoscere il ch. Autore sì del cimitero di Domitilla e di Callisto, come di altri suburbani, tanto del secolo IV, allorchè i sarcofagi di arte cristiana presero a prevalere e moltiplicarsi (p. 445), quanto di tempi anteriori, come sarebbe il sarcofago di Livia Primitiva nel cimitero Vaticano, già illustrato dal ch. Autore nel suo Bullettino di Arch. crist.12.
Dichiarata pertanto ed illustrata la parte artistica e simbolica de’ sarcofagi, passa l’A. all’esame epigrafico dei medesimi. E riproducendone esattamente le iscrizioni, anche le più minute ed astruse, completando talvolta con fine critica ed erudizione le mutile e monche, tutte le spiega a testimonianza del dottrinale svolto intorno all’uso, forma, arte ed età de’ sarcofagi.
Torna quindi all’esame (cap. IX) dei monumenti eretti dai coraggiosi cristiani, tuttochè perseguitati e proscritti, all’aperto cielo. E di cotesti i più antichi mostra esser le Cellae e Memoriae le quali poi nel sec. IV si convertirono in Martirio (μαρτύρια), in chiesette e basiliche: le quali però non sempre significarono edifizi monumentali, ma qualunque semplice sepolcro; e corrispondeva loro il sinonimo di cella aeterna, domus aeterna, perpetua ecc.
Cella o cubiculum valser indistintamente a significare funerario edifizio, che avesse all’interno delle stanzette a emiciclo, le quali servivano alle riunioni o conviti, e si dicevano exedrae o apsides; e queste erano pur formate da altri vani, che davano in pianta tanti segmenti dell'emiciclo, destinati al clero. Di cotesti vani originò il coro. Secondo che poi era il numero delle absidi, si diceva la Cella, tricora, octacora ec.
Si dubitò se coteste Celle cimiteriali si chiamassero anticamente basilicae. Ed ecco il nostro ch. A. scioglie oggi il dubbio, dimostrando che nonostante basiliche si dicessero comunemente le grandi aule quadrilunghe divise in più navi, pure la classica epigrafia ci testimonia che basiliche pur si chiamarono i minori oratorii, quali erano le cellae, le cubicula, le exedrae e le memoriae; e ne trova testimonianza nel comento del dotto p. R. Garrucci, sopra un epitaffio Puteolano del fanciullo C. Nonio Flaviano13. Quando però principiasse a essere in voga il nome di basilica tra’ cristiani, distingue l'accorto Autore tra’ cristiani di Roma, e que' di fuori, segnatamente dell’Affrica. Perocchè, se può dirsi che i cristiani dell’Affrica chiamavano basiliche le loro cellae e casae anche avanti l'era costantiniana, que’ di Roma non principiarono prima del trionfo della Chiesa; e dimostra molto bene che nei primi tre secoli, i luoghi ov’essi cristiani convenivano ai divini misteri e alle religiose istruzioni, non sappiamo che si chiamassero altrimenti che domus, ecclesia, conventicidum o simili, e, se vuoi, anche οἶκος, e κυριακόν.
Di costa ai cimiteri e a’ grandi monumenti, non aborrirono i cristiani l’uso pagano di costruire abitazioni speciali per coloro che ne avevano la custodia: e in testimonianza ne adduce il ch. Autore e la bella iscrizione greca che, tratta dalla Biblioteca Vaticana, qui riproduce (pag. 432), ed un’altra (ch’ei chiama insignissima) sventuratamente mutila, del secolo VI e VII incipiente, la quale ricorda i restauri fatti al cimitero della Basilica di s. Paolo da un certo pietoso Eusebio. Fu edita dal Bosio e da altri, ma non troppo felicemente letta e supplita nelle originali lacune. Ond’è che il ch. Autore ne riproduce l’esatto originale avuto sotto gli occhi, e, supplendo ove manca, la espone intieramente (p. 463 e 64) a rendere testimonianza dell’uso, anche presso i cristiani, di fabbricare abitazioni a contatto dei cimiteri per abitazione de’ custodi del Monumento, e dei fossori.
Ma, e delle chiesette, basiliche, monumenti ed altri sepolcrali edifizi, de’ quali fin qui abbiamo ragionato come di fabbriche disseminate un tempo sulla superficie del cimitero Callistiano, che cosa n’è oggi rimasto?
Al quesito risponde francamente il de Rossi (cap. X): non altro che quattro venerandi ruderi: un gigantesco mausoleo smantellato ed anonimo, sull’area presso la via Appia, là ove furono scavate le cripte di Lucina; un monumento quadrilatero presso la basilica de’ ss. Sisto e Cecilia; e due celle tricore dedicate, l’una ai detti ss. Sisto e Cecilia, e l’altra a s. Sotere.
Del gigantesco mausoleo parlò distesamente nel primo tomo14, congetturando, ma non senza valide ragioni, che il sepolcro fosse di un Cecilio o Pomponio, per le iscrizioni rinvenute, e per ragioni di parentela con Pomponia Grecina, la quale non fu estranea a dar mano e principio alla classica Callistiana necropoli; anzi sembra che debbasi riconoscere nella persona di lei quella Lucina, che le memorie ecclesiastiche ricordano vissuta a’ tempi apostolici. Che se in fatto della qualità cristiana di Grecina ebbe il ch. A. a rintuzzare nel II tomo l’opinione del ch. prof. L. Friedlaender, il quale, negando la cristianità di Grecina, credè infermare la esposta congettura; prende, in questo volume, nuovo animo a confermarla, da che lodata e dottamente difesa eziandio dal ch. sig. Wandinger di Monaco15.
Del monumento quadrilatero che oggi presenta l’aspetto di una torre, ne fa in brevi parole la descrizione, e gli assegna l’epoca del III o IV secolo. Che se ne abbiamo perduto l’antico suo proprio nome, egli vorrebbe credere, per certe memorie (ritrovate nelle sotterranee gallerie di esso) intorno a’ discendenti di santa Paola Romana, che il nome dovesse aver preso dai congiunti ed affini di cotesta celebre Matrona.
Più si diffonde nel ragionare degli altri due avanzi monumentali: la tricora di s. Sisto; e l’altra di santa Sotere (cap. XI). È vero che il ch. p. Marchi avea già scritto e dell’una e dell’altra, ma non così esattamente, che bisogno non fosse, dopo i nuovi lumi apportati dal progresso delle archeologiche discipline, tornarvi sopra. E il de Rossi, come riassunse e compi nel tomo II16 il pensiero dell’illustre Maestro intorno al nome e storia della chiesetta dei ss. Sisto e Cecilia; così nel presente17 illustra l’altra, e la restituisce con evidenti prove a santa Sotere. Ma tuttavia rimaneva a render conto delle recenti scoperte fatte intorno a’ due monumenti, e vedere se dall’architettonica struttura (nel difetto d’istoriche epigrafi, e nel silenzio dei fasti della Chiesa) si potesse trarre argomento della loro età ed uso. Ed ecco ciò appunto che il ch. Autore qui passa a trattare.
La chiesetta dei ss. Sisto e Cecilia sorge sull’area seconda del cimitero Callistiano, ed essendo anteriore alle sotterranee gallerie, si può ben credere che fosse una di quelle fabbriche ordinate dal papa Fabiano nelle aree dei cimiteri. E com’essa contenea nel sotterraneo seno le celebrate cripte di s. Sisto e di santa Cecilia, ne venne che si principiasse, col sorgere dell’era di pace, a chiamarla comunemente ecclesia s. Xysti e s. Caeciliae, Ma qual nome portasse prima, è incerto e oscuro a sapere.
Non molto lungi da cotesta è l’altra di santa Sotere. La quale offre tant’analogia nelle forme esteriori con la prima, che l’egregio Autore fa valere, per l’una e per l’altra, il suo architettonico esame a stabilirne fra loro una quasi contemporaneità. Ne descrive pertanto la materiale costruzione e forma; ne accenna i subìti restauri; non che i vari usi, cui servirono, sino al moderno (rispetto alla chiesetta dei ss. Sisto e Cecilia) di villereccia cantina. Quindi dalle originali forme, rivelatesi per le ultime esplorazioni, trae nuovo e più forte argomento a crederle opera di tempi anteriori a Costantino. E perchè hann’tutta la forma, non di semplice Oratorio, ma di esedra triabsidata con sormontante cupola, trova in esse l’origine delle molteplici Rotonde, venute poi tanto in uso nell’architettura cristiana. Il qual singolar tipo di costruzione sepolcrale offre tosto alla mente dell’Autore un nuovo problema intorno alla natura, scopo ed uso dei sotterranei cubicoli rotondi. Quesito, ch’egli così scioglie:
Confronta (cap. XIII) anzi tutto le celle pagane ed i conviti che vi si celebravano, con le esedre sepolcrali cristiane. Pone in chiaro come le celle pagane erano costruite a due piani: nell’inferiore, sotterraneo (hypogaeum), si depositavano i cadaveri o le loro ceneri; e nel superiore (cella memoriae) vi si celebravano i funebri officî. Aveano annessi verdeggianti pergolati (pergulae, tricliae) ed edifici trilateri ad uso di triclinia, che quando erano in servigio dei Collegii prendevano il nome di scholae. Avevano pur la loro area per i sacrifizi (inferiae, profusiones) e costumavano tener dinanzi al sepolcro sempre accesa una lampada (lucerna quotidiana).
Svolte pertanto queste funerarie costumanze pagane, ne istituisce il confronto con le exedrae cristiane, che torna a esaminare più minutamente, e ne dimostra con tanta evidenza l’analogia somma tra loro, che bisogna con lui stesso concludere che «i primitivi fedeli, volgendo a loro pro i diritti e gli usi allora comuni, costruirono le essedre e le celle tricore e di altre forme per le loro sacre agapi ec.» e funebri riti, i quali erano, e nel modo e nel senso di esse, ben diversi da que’ dei pagani.
Che nei cimiteri, e sopra e sotto terra, fossero luoghi ove i primitivi fedeli solevano convenire alla celebrazione dei santi misteri, è noto a ognuno che per poco conosca gli antichi fasti della Chiesa; ma che cotal uso risalisse ai tempi apostolici, non fu mai apertamente dimostrato, siccome fa oggi, in questo volume, il chiarissimo de Rossi. Prova infatti (cap. XIII) che se nei cimiteri si adunavano talvolta i cristiani a celebrarvi le loro liturgiche sinassi, fu perchè il luogo, destinato per esse (le domestiche chiese dette in Roma titoli), non era sempre sicuro dallo spionaggio dei persecutori: mentre di legge ordinaria non servivano i cimiteri che a radunarvisi per rendere l’ultimo tributo d’affetto e di pietà ai loro estinti. E questo punto di liturgica istoria della primitiva Chiesa è creduto (e giustamente) dall’Autore di tanta importanza, che non lascia di esaminarlo e meglio dichiararlo.
Distingue, in grazia di chiarezza, le sacre sinassi che i perseguitati cristiani celebravano in qualunque luogo loro si offrisse opportuno, dalle sinassi celebrate regolarmente in luoghi a ciò spezialmente destinati.
Quanto alle prime, prova sino all’ultima evidenza, con la istoria e gli atti dei martiri e l’autorità di Dionisio l’Alessandrino, che, mentre infieriva la persecuzione, qualsivoglia luogo, campo, solitudine, nave, stalla, carcere, servì di tempio alle sacre adunanze de’ perseguitati cristiani. Ma peraltro amavano più particolarmente adunarsi nella oscurità delle caverne, nelle cripte sepolcrali, e in qualunqu’altro nascondiglio che fosse: e in fatti, non si eran’essi per questo tirato addosso lo spregevole titolo di latebrosa et lucifugax natio?18 E a tal croce eran messi dall’implacabile odio imperiale, e massime dei pagani, i quali ogni loro passo, atto, convivenza spiavano per deferirli ai tribunali.
Ma se però le dolorose e anormali condizioni di quei tristissimi tempi portavano che i proscritti e angariati cristiani si facessero di qualunque antro o caverna, tempio a’ loro divini misteri, sarebbe errore il pensare, che non si dessero cura, massime nei momenti di tolleranza e di bonaccia, di costruirsi o scavarsi nei sotterranei cimiteri, delle cripte o chiesette, ove con maggior proprietà e decenza celebrare i sacri misteri. Sino dai tempi del ch. p. Marchi si vedevano nel sotterraneo di s. Callisto (per non uscire del nostro principal soggetto) chiesette a tale scopo fornite, e non poche altre cripte, le quali illuminate da ampli lucernari ci dicono aperto aver servito di luoghi di adunanza ai primitivi fedeli. E a cotesto monumento di prova aggiunge il ch.mo Autore il Cimitero di Chiusi, le Catacombe di Napoli, l’Oratorio scoperto sull’Esquilino, e, sopra tutti, il Cimitero Ostriano.
Cotesto cimitero infatti egli esaminando ed illustrando, lo costituisce archetipo, non pure delle cripte che servirono ai fedeli per le loro sinassi, ma dell’ordine gerarchico altresì che tenevano nelle loro adunanze. Vi trova infatti il sepolcro-altare, le cattedre, la sedes, e il suggestum, o tribunal o bema, poi chiamata tribuna: tutti luoghi, insomma, destinati al clero e sue Dignità.
Riassumendo quindi i dati raccolti nello svolgimento storico e monumentale di cotesti sotterranei cubicoli destinati alle liturgiche sinassi, osserva che nella regione Luciniana e nell’Area prima (nucleo primordiale) del Cimitero Callistiano, furono cotesti cubicoli angusti generalmente e oscuri; farsi più ampli e a due stanze con lucernari, allo scavarsi delle aree susseguenti, sul cadere del secolo terzo; prendere successivamente, a’ tempi di Diocleziano, maggior sviluppo e ampiezza; moltiplicarsi in tre e quattro cubicoli con laterali ed esterni edifizi; quella forma, a dir breve, che presenta la sotterranea chiesetta Ostriana, e molti altri cimiteri da lui esplorati. Donde ei conclude, che nei due primi secoli, quando a’ cristiani era lecito, come a ogni cittadino Romano, di adunarsi nei loro Cimiteri all’aperto (cubicula superiora), poco ebber essi bisogno di valersi dei sotterranei per le sinassi. Ma proscritti e cercati a morte nel correre del terzo secolo, e tolto loro da barbari editti imperiali il diritto dei cimiteri, è naturale che cercassero un asilo nelle viscere meno spietate della terra; e dassero mano a scavarsi quelle cripte sotterranee, ove ascondere all’occhio nemico e profano de' ministri imperiali la celebrazione de’ loro divini misteri.
Ma qui si domanderà: se col cessare della persecuzione, cessò pure la pratica delle liturgiche sinassi nei sotterranei?
Il quesito è di tal natura, cui non basta rispondere coi soli monumenti; ma con la storia altresì e con i criteri che ne suggerisce la scienza dei riti, in uso allora nelle annue commemorazioni e natali di martiri e in generale nella deposizione ordinaria del defunto.
Per la qualcosa il ch. Autore si attiene principalmente, nel rispondere al quesito, alle Costituzioni Apostoliche, con le quali dimostra come l’uso liturgico delle commemorazioni funerarie nei cimiteri, fosse universale e comune ai cristiani e d’Oriente e di Occidente; come antichissimo il rito dell’annua celebrazione dei natali de’ martiri. Quindi confronta cotesta costumanza, voluta e prescritta dalla Chiesa, con la istoria monumentale del classico Cimitero, e vede improntate, direi, quelle ordinanze Apostoliche nelle molteplici mense di altari, le quali chiudevano le sante reliquie dei martiri. E ciò a’ tempi di persecuzione.
Venuto il secolo IV, e con esso l’èra di pace per la Chiesa, non perderono di vigore le Apostoliche Costituzioni; ond’è che l’uso della celebrazione dei divini misteri nelle sotterranee cripte, continuò, ma prendendo allora il carattere di costumanza particolare. Perocchè con l’ingrossare delle adunanze de’ fedeli, non più dal terrore sbanditi, la capacità di quelle cripte divenne ben presto troppo angusta a contener tanta folla; ed ecco però sorgere le vaste basiliche sopra terra, ove, non abbandonando affatto le modeste chiesuole del sotterraneo, presero i cristiani a festeggiare in tutta la rituale solennità i natali de’ Martiri. E secondo che i divini Misteri si celebravano, nelle sotterranee cripte da’ cristiani privatamente, o nelle superiori basiliche dal clero e popolo solennemente, ne nacque quella distinzione, ch’è ricordata negli antichi Codici della liturgia Romana, di Missa ad corpus e di Missa publica. Con questa ed altre peregrine notizie chiude il ch. Autore l’analitico trattato intorno ai natali de’ Martiri, che si celebravano dalla Chiesa o nelle sotterranee chiesette, o nelle basiliche all’aperto cielo: e passa a dire (cap. XV) della particolarità de’ riti, onde solevano i cristiani dar sepoltura (sia nei tempi di persecuzione, sia di pace) a’ loro cari confratelli defunti.
Deposto il feretro, prima di dar sepoltura al cadavere, si offeriva l’incruento Sacrificio per l’anima del defunto (oblatio pro dormitione) nella chiesa superiore; e poi nel sotterraneo cubicolo, presso il sepolcro destinalo al defunto, si compivano i pia officia depositionis. L’oblatio (la Messa) vi si ripeteva nel giorno terzo, trigesimo e anniversario dalla morte; intanto che i pietosi parenti ed amici recitavano ad sepulcrum salmodie e preghiere.
Facevano parte dei funebri riti anche le agapi o conviti; ma non son da confondersi, avverte l’accorto Autore, queste agapi con le parentalia de’ pagani e le Silicernia, come erroneamente hanno alcuni opinato. Il convito funebre può dirsi antico quanto il genere umano; e si trova in uso presso che tutt’i popoli. La Chiesa non volle dunque soffocare nell’uomo questo naturale sentimento, di per sè innocente, a rendere un tributo di parentale affetto nella commemorazione degli estinti; quindi, anzi che condannarlo, lo nobilitò e santificò; e nella istituzione delle agapi, (simbolo dell’eterno convito) non ristrette ai soli parenti, ma accomunate a tutti i fratelli, massime ai poveri, stabilì certe norme e avvedimenti19, che loro davano impronta propria e carattere cristiano; così, non s’irritavano i pagani nelle loro oneste costumanze; e valevano assai alla manifestazione di quel culto esteriore, che l’uomo deve al suo Creatore.
Solevano anche perciò i cristiani spargere di rose e viole i loro sepolcri (rito differente da quello del coronare i morti, e dalle pagane rosaliae), non che di olii aromatici; i quali sono que’ santi olii che poi i visitatori delle tombe dei martiri si stimarono fortunati riportarne alcun poco, in piccole ampolle, alla patria loro in pegno di celeste benedizione (eulogia)20.
Di altri riti ragiona e sepolcrali costumi, ma di minor conto già noti; e finisce con notare l’uso delle lucerne sempre ardenti dinanzi alla tomba degli estinti; come dei cerei che adoperarono a diradare le notturne tenebre nel funereo trasporto, (elatio cadaveris), da che la legge civile proibiva loro dar sepoltura ai defunti in pieno giorno. Tolta poi cotesta proibizione, fu continuato l’uso de’ cerei anche di giorno, a titolo d’onore e di festa.
E cotesto crearsi e moltiplicarsi di chiesette e basiliche per convegno e sacre adunanze; e tanta religiosità e ordine nell’esercizio dei sacri riti, sono indubitatamente nuovi argomenti (cap. XVI) della giurisdizione e amministrazione che la Chiesa, e prima e dopo la pace, esercitò sempre su i cimiteri, tanto sotterranei quanto all’aperto cielo. E con ciò conferma l’egregio Autore quella legalità civile ed ecclesiastica, di cui già parlò ampiamente nei due precedenti tomi, in virtù di un Senato consulto ond’era fatto diritto a tutt’i cristiani di coire, convenire, collegiumque habere funeris causa. Diritto che valse non pure in Roma, ma in tutto il Romano impero, com’epigrafe di vari paesi, facendo eco alla preziosissima lanuvina del cxxxiii, mirabilmente lo comprovano.
Si dirà forse che tal diritto fu concesso non al sodalizio cristiano, ma al proprietario del fondo, ove costruiva il sepolcro per sè, e per i loro clienti e parentela. Ma il dotto Autore nello svolgere che fa questo punto importante della storia ecclesiastica, prova molto bene che il ricordato Senatoconsulto veniva applicato ipso iure a qualsivoglia sodalizio, costituito che fosse secondo la legge; e che perciò i cristiani partecipavano al diritto del collegium habere in virtù della legge comune, e non per ispeciale rescritto imperiale. E il fatto lo prova; che nel sec. III e IV taluni Imperatori, meno crudeli, restituivano ai Vescovi (capi del Corpo de’ cristiani), e non ai singoli proprietari privati, i cimiteri ed i luoghi religiosi confiscati per anteriori decreti. E l’A. riferisce in proposito l'editto di Massimiano Augusto, (an. 313) ond’egli restituisce in pristinum jus ai cristiani le terre confiscate loro dal padre suo Diocleziano. È un fatto che il Cristianesimo, come corpo sociale, non fu che una trasformazione del Giudaismo, dinanzi la legge civile; e però come i Giudei, nonostante la legge di Cesare, confermata da Augusto, contro i nuovi collegii, continuarono a godere del diritto d’associazione, perocchè la legge era contro i nuovi, e non contro gli antichi e legittimi collegii: e così, nei primi tempi, vennero naturalmente a partecipare i neocristiani del giudaico privilegio. Ma poi che si costituirono corpo religioso, distinto dal Giudaismo, e principiarono perciò ad essere un pruno negli occhi a’ gentili (in quanto che gl’innocenti costumi cristiani erano un continuo rimprovero al paganesimo delle sue empietà e lordure) l’odio imperiale si scagliò contro di essi; e, accusati di coitionis illicitae, caddero sotto i colpi della legge proibitiva i nuovi collegii. Legge barbara ed ingiusta, dice il focoso Apologista Tertulliano, perchè applicata ai soli cristiani, mentre si tolleravano i misteri dionisïaci, sabazii, mitriaci, ed altre simili orgie, riti turpi e brutali. Nonostante però si tremendo rigore, non cessarono i cristiani fuso dei collegii funeratizi, e di possedere cimiteri ed altri luoghi a nome dell’intiero Corpo (rappresentato dal Vescovo) e dai diaconi amministrati. E ciò si vede aperto dal modus vivendi adottato su questo punto dagli Augusti: punire i professori della religione cristiana, se legalmente denunziati ai tribunali, e lasciarli poi vivere a lor talento come fratellanza, funerum causa, chiudendo un occhio sulla legalità o no della loro collegiale esistenza. Svolgendo pertanto l’egregio Autore con molta dottrina e critica questo punto, mette in piena luce la posizione giuridica della Chiesa dirimpetto allo Stato, e ne scuopre coi monumenti e con la istoria la relazione che essa ebbe, in que’ tempi nefasti, con l’impero, sino alla pace Costantiniana.
Dai monumenti epigrafici raccoglie ancora come i Cristiani aborrissero chiamarsi col pagano nome Collegium (società funeraticia), e l’altro perciò più volentieri assumessero di Ecclesia e Fraternitas.
Così formulate e stabilite le dottrine concernenti il punto sostanziale e giuridico della proprietà e amministrazione dei Cimiteri cristiani avanti e dopo Costantino, viene (cap. XVII) il ch. Autore a dire dei particolari e dello svolgimento successivo di essa. Non dell’amministrazione in genere; che già ne ragionò nel primo tomo21; ma della interna ed economica de’ cimiteri, sia rispetto a’ fossori, sia alle compre e vendite dei singoli sepolcri.
E ci apprende che papa Zeffirino, circa l’anno 197, diè nuovo ordinamento a cotest’amministrazione, preponendo il suo primo diacono Callisto al clero e Cimitero. Fabiano papa, sul finire della prima metà del sec. III, partì l’amministrazione ecclesiastica in sette regioni, diverse dalle quattordici regioni civili di Roma. Nè ognuna delle ecclesiastiche rispose esattamente a due delle civili; per modo che le XIV della Roma di Augusto corrispondessero alle VII ecclesiastiche, stabilite dal detto Pontefice, ed amministrate ognuna da un Diacono. E qui il ch. Autore tenta la difficile impresa di definire ciascuna delle sette ecclesiastiche del papa Fabiano, rispetto alle quattordici civili di Augusto.
Sette regioni, sette dunque gruppi cimiteriali; affidati ai sette diaconi; e ognuno dei cimiteri veniva assegnato ai preti titolari di qualche chiesa urbana. Intorno alla quale assegnazione il dotto Autore rettifica lo sbaglio del Deusdedit, canonista del secolo XI, seguito dal Mabillon e da altri moderni, i quali crederono le basiliche cimiteriali fossero titoli presbiterali. La verità è (e il de Rossi molto bene lo prova) che i preti in Roma furono sempre titolati di chiese urbane, e mai cimiteriali; ed a ciascun titolo urbano era assegnato il suo cimitero, ed ai posti titolari urbani era affidata l’officiatura nelle cripte e nelle basiliche cimiteriali.
In molte iscrizioni cristiane di Roma, si trovano ricordati i praepositi; l’ufficio dei quali era, come c’insegna il ch. Autore, di amministrare le rendite di ciascuna basilica cimiteriale; e, anzi tutto, aver cura della luminaria alle tombe dei martiri. Il prepositato, era a vita; nè si richiedeva, in chi lo esercitava, ordine sacerdotale, trovandosi affidato sovente a’ diaconi e a cherici minori; con questo però, che i prepositi dipendevano dal presbitero titolato, e nelle maggiori basiliche, immediatamente dal Papa.
Anche il Callistiano cimitero ebbe i suoi prepositi. E com’esso nel secolo terzo fu il cimitero papale, e tenne il priorato sopra tutti i cimiteri di Roma, così la regione della detta necropoli fu la prima delle ecclesiastiche; e il suo preposto fu il primo diacono, detto quindi Arcidiacono. L’istituzione della dignità dei praepositi (che non durò oltre il secolo VII) non sembra esser più antica del quinto, secondo che direbbero le iscrizioni illustrate e commentate dal ch. Autore. Quindi l’amministrazione economica sarebbe stata per l’avanti affidata, o a Diaconi regionarii partitamente, o tutta rimessa nelle mani dei preti titolari. Così, da papa Fabiano (136-150), primo divisore in sette regioni dell’ampia zona cimiteriale suburbana romana, fino a papa Simplicio (468-483) che convertì l’ufficio dell’amministrazione economica in cure spirituali, affidate ai preti destinati all’ufficiatura dalle tre primarie basiliche, riassume il ch. Autore in breve e limpida sintesi l’origine e lo svolgimento della primitiva amministrazione dei suburbani Cimiteri, finchè furono aperti al pubblico culto.
E cotesto culto pubblico principiò a venir meno (cap. XVIII), quando ai cimiteri estramurani prevalsero gl’intramurani all’uso e alla frequenza dei fedeli. E questo è un fatto provato per molti documenti, massime per il decreto di papa Giovanni III (560-573), già edito ed illustrato dal ch. Autore nel I tomo dell’opera22; col quale riduce il Pontefice la celebrazione dei divini misteri nei sotterranei cimiteri alle sole domeniche, affidando la manutenzione dei sacri arredi al Vestario del palazzo Lateranense, come n’erano affidate le spese all’Arcario. Il papa Gregorio III ristrinse ancora, nell’anno 731, la celebrazione nei cimiteri ai soli giorni natalizi de’ martiri. Finalmente le barbarie di Aistolfo, dentro e intorno Roma, segnò l’ultima rovina ed abbandono dei venerandi cimiteri suburbani, se si eccettuano le primarie basiliche di s. Pietro, di s. Paolo e di s. Lorenzo e simili; il culto delle quali giammai venne meno o sminuito.
Presso di esse già dal secolo V troviamo eretti monasteri o congregazioni monacali. Nè ci è ignoto lo spirito di loro istituzione. Avevan’esse per iscopo di onorare, con una perpetua salmodia, giorno e notte, la veneranda tomba de’ martiri. E l’origine di coteste caste monacali, se non ai primissimi tempi delle persecuzioni, risale almeno molto alto; chè abbiamo già fino dal secolo IV ricordati gli asceterii ancillarum Dei.
Ma cotesti monasteri non si devono confondere con le mansionarie, siccome neppure il monaco col mansionario: altra era infatti la natura e l’ufficio dei mansionarii. Costituivano questi un collegio o schola nelle maggiori basiliche, e risedevano presso le chiese in abitazioni speciali dette perciò Mansionariae. Lo scopo loro era aver cura della confessione, o sepolcro del martire, e non punto l’incarico della salmodìa od ufficiatura dell’ipogeo. Laonde sbagliò, come prova l’Autore con nuovi documenti, il Marini, pensando aver avuto origine dai mansionarii l’istituzione dei collegii canonicali delle basiliche. Piuttosto è a dire che i mansionarii provennero dai cubicularii del secolo quinto e dai custodes martyrum ed ostiorii, dei secoli più antichi del quinto, i quali avevano cura (e l’antica cimiteriale epigrafia ce ne fa testimonianza) delle tombe de’ martiri, e la custodia dei sepolcrali cubicoli. Ma qualunque voglia essere l’analogia di questi con quelli, certo è però che i custodi delle Confessioni dei martiri furono creati fino dai primi tempi della pace Costantiniana; e il cubicularius divenne, col crescere della frequenza ai sepolcri de’ martiri, un grado di onore nella ecclesiastica gerarchia.
E poichè siamo entrati a parlare dei gradi della gerarchia ecclesiastica ve n’era un altro quello, cioè (cap. XIX) dei fossores o copiatae κοπιάται(laborantes); i quali avevano l’incarico di scavare le sotterranee gallerie e sepolcri dei cimiteri cristiani. Chi dubitasse di loro esistenza, basta anche solo che getti uno sguardo sulle interne pareti di cotesti sotterranei cimiteri, e ne avrà una irrefragabile testimonianza in quelle vetuste dipinture che rappresentano il fossore, o tutto intento al lavorìo dello scavare, o in atto di riposo col suo piccone appoggiato alla spalla. Se non che, fossore e copiata non vale lo stesso, all’acuta mente del ch.mo de Rossi. Egli ha osservato che fossor significa qualunque lavoratore o scavatore di terra; e però comune anche ai pagani, il copiata invece fu appellativo dedotto dal greco, adoperato a significare gli scavatori dei sepolcreti cristiani nelle chiese di lingua latina, circa il sec. IV. Nei secoli più antichi gli scavatori dei cimiteri cristiani si chiamarono fossores, e costituivano un ceto speciale; del quale non v’è traccia presso i pagani.
Il corpo dei fossori o copiate fu poi istituzione, non dei tempi del magno Costantino o di Costanzo, come ad alcuni è piaciuto affermare; ma sibbene del secolo II, almeno cadente: e oltre le prove istoriche che il ch. A. adduce, quelle dipinture del fossore che abbiamo ricordate, sono là a viva e perpetua testimonianza. Cotesti fossori avevano un posto nell’ordine della gerarchia ecclesiastica tra i cherici minori; nè è punto improbabile che facessero parte del clero. Documenti e storici fatti riprodotti dal ch. A., sono bastanti ad assicurarci che nei tempi di persecuzione fino a tutto il secolo III, l’ufficio fossorio si confondeva con quello dell’ostiariato a custodia dei luoghi sacri; e che nel secolo IV prese forma più decisa di ordine chiericale fra i minori.
Ma qual mercede veniva retribuita loro della fatica? Forse traevano un lucro dalla vendita degli scavati sepolcri?
Il profondo silenzio che intorno a ciò serba la cimiteriale epigrafia, non meno che la istoria dei tre primi secoli sino al trionfo della Chiesa, rende affatto impossibile anche divinare in qual modo preciso fosse organizzata e remunerata la gigantesca opera fossoria dei suburbani cimiteri. Ma se pensiamo che la carità di G. C. è il principio vitale ed operativo della Chiesa come di ogni sua magnanima impresa, non sarà senza fondamento la sottil congettura dell’egregio Autore «che la retribuzione del lavoro fossorio, e dei debiti compensi per le spese delle singole sepolture, massime nobili e sontuose, fossero in quell’età di religioso fervore, regolati più dalla spontanea mutua liberalità della fratellanza cristiana, e dal discreto arbitrio dei gestori del suo nobilissimo tesoro e contributo di carità, che da contratti, tasse e norme quasi fiscali» (p. 537). Congettura ch’ei corrobora di positive testimonianze degli antichi scrittori; onde stabilisce che le opere delle sepolture furono stimate officio e lavoro di somma carità, non servigio puramente mercenario e venale.
Ogni cimitero aveva i suoi fossori, costituiti a sodalizio col loro capo-fossore (mensor); il quale dovea non pure presedere ai lavori, ma esser atto a misurare e tracciar sul terreno la pianta del sepolcro o sepolcreto. Facevano parte pure del sodalizio gli artefici (artifices), cioè gli addetti alle opere di arti varie per l’adornamento conveniente al sepolcro: quindi non è alieno il ch. A. da credere che i lapicidi, pittori e scultori cristiani, facessero parte del collegio de’ fossori. Ed ecco qual fu l’originario istituto loro e condizioni sino a tutto il secolo terzo.
Trasportata da Costantino magno le sede dell’impero a Bisanzio e con essa le istituzioni ecclesiastiche, i fossori, i copiate, si trasformarono colà nei lecticarii e decani; nuova istituzione del magno Costantino. I primi, nel prestare gli ultimi uffici di sepoltura al defunto, presero il luogo dei chierici copiate di Roma; mentre i secondi, i decani, altro non furono che uscierii e mazzieri.
Dilatatosi poi e moltiplicatosi, in tutta quasi la popolazione dell’impero, il numero dei cristiani, ne seguitò naturalmente che la istituzione pure dei copiate, o fossori, prendesse le medesime proporzioni di dilatazione e di accrescimento numerico. Se non che in ragione inversa del diffondersi del Cristianesimo, decresceva il caritativo fervore e la religiosa spontanea operosità degli antichi fossori. Tanto che non era ancora tramontato il IV secolo, che il pietoso ufficio del fossore era divenuto traffico di mercenario.
E cotale mercatura (cap. XX) principia appunto a manifestarsi nel linguaggio epigrafico sul cadere di detto secolo, e non prima; infatti una frammentata epigrafe di quel tempo, trovata nel callistiano cimitero ed illustrata dal ch. Autore, dice aperto che, come il sepolcro (cui essa appartenne) fu concesso alle opere buone, non guadagnato a prezzo d’oro, così non terrena mercede, ma celeste è promessa alle fatiche del pietoso fossore.
Cotesta epigrafe segna, a mio credere, l’ultima fase del caritativo disinteresse cristiano nel dar sepoltura a’ defonti; perocchè fin d’allora l’epigrafico linguaggio non parla che di compra e vendita di sepolcri, e della venalità dei fossori. L’illustre Autore ricorda moltissime iscrizioni, le quali, dal pontificato di Siricio (388-98) sino al papa Sisto III (432-440) mostrano quanto avesse preso piede la costumanza arbitraria dei fossori a mercanteggiare, a conto proprio, i sepolcri. Costumanza che, cessato in quel medesimo quinto secolo l’ordine dei fossori, passò nei prepositi, nei preti titolari e nei mansionarii.
Dissi che i fossori mercanteggiavano i sepolcri a conto proprio, e il ch. Autore ci pone sotto gli occhi non poche epigrafi ed altri monumenti scritti, ove si parla non pure di contratti conchiusi tra l’acquirente e ’l fossore, o più fossori in società, ma del diritto eziandio della vendita dei loculi, trasmissibile nei discendenti ed eredi del defonto fossore. E cotesti pubblici atti, o contratti (dei quali l’egregio Autore espone la natura e il formulario) pare che si conservassero nella stazione od officio (statio) del capo-fossore. Ma oltre i contratti, vi si trova espresso, su quelle epigrafi, sovente anche il prezzo del sepolcro. Talmente che il dotto de Rossi ha potuto dall’epigrafico linguaggio rilevare che il prezzo de’ sepolcri, tra il IV e VII secolo, si mantenne oscillante tra 1 ½, e 6 soldi d’oro; a seconda della natura del lavoro o la suntuosità del sepolcro.
Gregorio magno tentò sopprimere cotesto mercato di sepolcri; ma dopo la sua morte, tornò l’antiqua consuetudo, rimanendo privilegio ai soli Pontefici raccordare la tomba gratuita nelle basiliche.
Addita poi il posto designato ai sepolcri nelle basiliche lunghesso le colonne; talmente che «la serie delle colonne serviva a definire il sito dei sepolcri».
Analizzata così la natura, la struttura, i sepolcri, le costumanze funeraticie e le amministrazioni dei cimiteri cristiani sotterra ed all’aperto cielo, massime in Roma, raccoglie da un accurato e critico esame, i dati cronologici. I quali, raffrontando quelli già avuti dall’esplorato cimitero sotterraneo callistiano con la cronologia del sepolcreto all’aperto cielo, gli suggeriscono gli estremi limiti cronologici di esistenza e di uso di tutta la duplice vasta Callistiana necropoli. E come non v’ha fonte più sicura ad attingere le date dei tempi e delle epoche, che l’epigrafia; allo studio delle due mila e più iscrizioni da lui rinvenute nella grande necropoli e delle altre circa quattrocento già conosciute, tutto intende l’animo suo. Quindi, separate con savio avvedimento quelle che, estranee al cimitero, erano quivi fortuitamente da altrove venute, interroga quelle decisamente locali; e dalle loro date consolari, che stanno tra l’anno 337 e l’anno 565, logicamente conchiude che l’uso del cimitero all’aperto cielo durò dalla prima metà del secolo IV all’ultima del secolo VI. Però egli non si contenta trarlo dalle nude date cronologiche, ma lo prova per altre ragioni che gli epitaffi medesimi gli suggeriscono, come: la lingua, la nomenclatura, le formule, lo stile, i simboli e simili. E confrontando la costante lingua latina, o greco-latina, nella epigrafia del cimitero superiore con l’uso alternativo della schietta latina e greca nella epigrafia sotterranea; trova in quella la nomenclatura spogliata del nome gentilizio; mentre frequenti i gentilizi le tria nomina, nella sotterranea: l’hic requiescit, con la data della vita e della morte (stile freddo, storico, ampolloso) comparisce sulle lapidi del cimitero sopra terra, in luogo del semplice e dolce laconismo delle sotterranee iscrizioni: le antiche acclamazioni pietose, cambiate in lodi rettoriche: il mistico pesce, l’ancora ecc., simboli che accompagnavano la sotterranea epigrafia, spariti nella superficiale: il primitivo monogramma di Cristo (dissimulato o patente) segnato su i sotterranei sepolcri, ridotto, adagio adagio, su gli avelli del cimitero all’aperto cielo, alla semplice ed aperta croce. Da questo confronto, trae giustamente il ch. de Rossi nuovo argomento a confermare che la esistenza del cimitero, di cui ragioniamo sulla superficie del suolo, considerato asilo mortuario, fu tra’ due secoli accennati, quarto e sesto; mentre assai più antico è il sotterraneo.
Ma se l’epigrafia assicura il fatto; la ragione del chiudersi alla pubblica e comune umazione, non basterà argomentarla dalla rarità e cessazione degli epitaffi; ma dee cercarsi nella istoria contemporanea. Ebbene, l’aspra guerra, gli assedi, la desolazione portata dai barbari a Roma e nei suoi contorni, fu senza dubbio la principal cagione, onde il Callistiano cimitero, caduto nelle nemiche mani, venisse abbandonato e deserto. E non è infatti di cotesti tristissimi tempi la creazione dei sepolcri intramurani; e la costituzione, già ricordata, di papa Giovanni III intorno all’ufficiatura delle chiese e dei cimiteri estramurani? Non resta più dunque a dubitare che l’ultimo limite cronologico della necropoli a cielo aperto di s. Callisto, è segnato dallo scorcio del secolo sesto; siccome il primo, (e si prova per tanti dati dall’epigrafia desunti e dai cronologici monumenti) dalla metà del secolo quarto. Il medesimo prova l’autore essere avvenuto in tutti gli altri suburbani cimiteri. Imperando il magno Costantino, si principiarono a costruire sopra terra (senza peraltro dismettere tosto l’uso dei sotterranei) entro ed attorno alle nuove basiliche (dette pur coemeteria) ogni maniera di sepolcri e sepolcreti, i quali andarono poi moltiplicandosi sino alla morte dell’imperatore Giuliano (an. 364), e giunsero al massimo svolgimento sotto il pontificato di papa Damaso (366-384).
Nei secoli però delle persecuzioni i cristiani, d’ordinario, preferirono le oscure e recondite tombe sotterranee, per ascondere agli occhi profani de’ gentili e alle angherie imperiali le mortali spoglie dei loro cari fratelli, e a eludere insieme la sorveglianza del Collegio dei Pontefici; il quale esercitava su i sepolcri un’autorità giurisdizionale, e prescriveva per sino il rito (piaculum) nella traslazione che potesse accadere di un corpo da una tomba ad un’altra. E qui prego il lettore a leggere le auree pagine di comento intorno la giurisdizione sui sepolcri del Collegium pontificum, dettate dal ch. Autore nel suo non mai abbastanza lodato Bullettino d’arch. crist.
Stabiliti pertanto i limiti cronologici del Callistiano cimitero sopra terra, rivolge le medesime indagini a trovar quelli del sotterraneo. Il criterio che adopera a stabilirli, è il medesimo che, come il più certo e sicuro, usò per il superiore; fondato, cioè, sulle date certe, su i caratteri paleografici, su lo stile, nomenclatura ec. della epigrafia, e più, sopra speciali dati archeologici, che nel sotterraneo gli si offrono a preferenza; i sigilli, cioè, figulini, le monete ed ogni maniera di minuti utensili ed arnesi. Raccogliendo adunque in un sol punto di vista tutte le innumerevoli iscrizioni, notizie e monumenti scritti, che nel decorso dei tre tomi dell’opera è andato esaminando ed illustrando, ed in complesso tutto quanto ha notato negli altri sotterranei cimiteri, giunge felicemente a scuoprire i detti limiti e stabilirli.
Rispetto alle iscrizioni cimiteriali, primo fonte di cronologia, ne fa come uno spicilegio o specchio; in cui tutte si vedono disposte quelle della callistiana Necropoli per ordine cronologico, desunto dalle loro date certe e positive sì consolari, e sì storiche di pontefici e di martiri. Principia dalle più antiche memorie certe, le quali sono del 197-22, e finisce con l’ultima dell’anno 407. E perchè nessun dubbio nasca intorno alla sincerità della data, pone di fronte a ognuna di esse l’original monumento onde è tratta. Basta pertanto dar un colpo d’occhio a siffatta serie progressiva di date, per essere di un tratto convinti che il sotterraneo cimitero di Callisto dovè principiare ad essere in uso, se non rigorosamente con l’anno 197, con la seconda metà almeno del secolo secondo; siccome il cessare, col tramonto del secolo quarto e cogli inizii del quinto. Ed ecco come vieppiù si conferma, indirettamente, l’apertura dell’altro sopra terra, che già provò essere del secolo quarto, quando appunto il sotterraneo cessava.
Applicando poi il medesimo criterio d’osservazioni e di analisi agli altri cimiteri sotterranei intorno Roma, ne ottiene un conforme resultato cronologico; onde conclude in generale, che l’uso dei sotterranei cimiteri di Roma non oltrepassa i limiti finali dei primi anni del secolo quinto; e mostra come tutta la storia concordi maravigliosamente con le sue illazioni.
E le conferma esaminando cronologicamente tutte le varie e minute suppellettili venute in luce dai sotterranei cimiteri, cominciando dai sigilli delle figline. Egli afferma che, nei trentacinque e più anni di esplorazioni delle catacombe Romane, dell’immenso numero di tegole e mattoni, adoperati a chiudere i loculi del sotterraneo, non gli venne fatto trovarne pur uno con sigillo che eccedesse il saecvlo costantiniano; tanto meno, marcati del nome di re Ostrogoto. Talmentechè, quanti sigilli sono passati sotto i suoi occhi fanno testimonianza evidentissima della verità e aggiustatezza del periodo assegnato all’uso del sotterraneo cimitero.
E simile testimonianza gli rendono le monete e medaglioni imperiali, che, secondo costumanza funeraticia di que’ tempi, s’infiggevano nella calce ancor fresca del loculo, ad ornamento, o meglio, a signacolo del sepolcro. Dal complessivo esame infatti di cotesto numero sterminato di medaglioni, evidentemente resulta l’identità del periodo di tempo, ch’essi offrono in complesso, con i limiti cronologici della sotterranea necropoli.
Ma non basta: anche da que’ svariatissimi ed innumerevoli oggetti, i quali formavano come la suppellettile e corredo costante dei sepolcri cristiani, trae nuova luce e dati per l’istoria della classica necropoli.
Innanzi però di descrivere ed illustrare nelle sue singole specie cotesto genere di attrezzi, cerca la cosa più interessante; l’uso, cioè, e lo scopo loro. Consacra perciò un lungo capitolo (XXIII) a dimostrare, sia contro la dottrina del dotto francese Raoul Rochette, che vede in quegli oggetti l’antica tradizione pagana di porre nel sepolcro gli utensili cari ai defunti, e contro Mons. Cavedoni, per il quale ogni oggetto è simbolo cristiano, che l’uso e lo scopo loro fu non tanto di semplice ornamento, quanto dì segno all’uopo di distinguere fra mille e mille i loculi dei cari; ond’è che nella tecnologia cimiteriale potrebbero appellarsi segni mnemonici. Con ciò spiega anche ottimamente il perchè di tanta varietà di materia, e di grandezza; e perchè si trovino messi là, comunque fosse, senza preconcetto disegno o simmetria, oggetti d’ogni maniera infranti, informi, inutilissimi; e sieno infissi nella calce nella fronte esterna del loculo, non entro il loculo deposti e chiusi col corpo del sepolto. Così non è a maravigliare che alcuni di cotesti utensili od ornamenti sentano, nelle figure e forme, del pagano; perocchè lo scopo loro di segno, e non altro, non offendeva per niente il sentimento religioso. Infatti ci ricorda molto a proposito il ch. Autore che la Chiesa, se proibiva ai cristiani, pena la scomunica, di fabbricare idoli e figure idolatriche, non proibiva però assolutamente agli artefici cristiani di fare, nè ai fedeli di usare, oggetti di forme ornamentali pagane i quali ordinati fossero agli usi comuni della vita, e non altro: exceptis iis rebus, dicono le costituzioni Apostoliche, quae ad usum hominum pertinent23. Per la qual cosa si vede aperto che l’uso fu più materiale che morale, ed estraneo al rito del sepolcro cristiano; nè sono perciò da confondersi con i rituali oggetti, come lucerne, e vasi con gli arnesi chiusi entro i sepolcri.
Sciolto così il problema dell’uso e scopo, viene all’esame di essi (cap. XXIV) nelle loro singole e particolari specie.
Considera anzitutto gli oggetti fissi a’ loculi, secondo l’origine e la postura dei sepolcri, e li partisce in quattro classi principali; ognuna delle quali è ripartita in altre, secondo la forma, la materia e l’uso dei medesimi. Talchè la 1.ª classe contiene gli oggetti ornamentali ed utensili d’uso personale; la 2.ª, giuocattoli o balocchi da fanciulli; la 3.ª, le tessere gladiatorie, teatrali, missili, frumentarie, ed altre di uso incerto; la 4ª gli utensili domestici. Ragiona poi degli oggetti non additizi, ma propri e rituali del sepolcro cristiano; candelabri, lucerne, vasi ed ampolle, strumenti del sofferto martirio. E tutti e singoli gl’infiniti oggetti che a coteste classi pertengono, spiega ed illustra così analiticamente, che male riuscirebbe, senza divenire oscuri per essere brevi, compendiare in poche linee il lungo capitolo (XXV) che egli spende a decifrarli ed illustrarli, onde mostrare come tutto complessivamente attesta col medesimo linguaggio delle epigrafi e delle pitture paretali, che il vero periodo di esistenza e di uso cimiteriale ch’ebbe la grande sotterranea necropoli, non eccede il limite ultimo dei primi anni del secolo quinto.
Ed ecco esaurito completamente, in tutte le sue parti e punti questionabili, il trattato e della natura e della mutua relazione delle due cristiane Necropoli, la sotterranea e la superficiale od esterna.
Ora non resta al sommo Archeologo che sciogliere la promessa fatta nel primo tomo: cercare, cioè, e stabilire le relazioni di fatto e di diritto, passate tra i contigui monumenti pagani e la duplice Callistiana necropoli.
Principia dunque da rintracciare la pianta topografica dei dintorni del classico Cimitero, nei territorii confinanti con la sezione cimiteriale cristiana tra l’Appia e l’Ardeatina; e, per quanto lo permettevano le incomplete escavazioni di quella vasta superficie di suolo, e la sofferta disordinata esplorazione (ch’ei tanto deplora) dei passati scavatori, richiama a vita alcuni ipogei gentileschi: quello dei Volusii Saturnini, fioriti nel primo secolo dell’era nostra; e il colombario dei Liberti e Servi della gente Cecilia; e un altro dei Liberti della famiglia di Caio Annio Pollione, non meno che quell’anonimo maestoso mausoleo diroccato, che getta la veneranda sua ombra sulle umili cripte di Lucina. Al lume di questi pochi avanzi di monumenti pagani e di lapidi balestrate qua e là sulla superficie del terreno, ferma le sue ricerche. Poi, additandoci sulla pianta generale del Cimitero que’ sepolcri pagani che lo circondano, chiama la nostr’attenzione a quelle poche vestigia di gentileschi colombari, giacenti sul limite dell’Arenaria d’Ippolito, prossimamente alla via Appia, e alle Luciniane cripte. E chi sa (ei pensa) che cotesti colombari non ascondano l’incognito del problema istorico, intorno alla pia Lucina! Anche il magnifico mausoleo smantellato, che, nonostante le assidue ed accurate indagini del solerte Autore, si asconde tuttora sotto il nome d’incognito, conosciuto, avrebbe potuto diffondere vivissima luce su l’istoria delle nominate cripte, e in generale su tutto il Callistiano cimitero. E il ch. Autore, fino da quando ne ragionò nel primo tomo24 e nelle pagine 466-67 di questo, sperava dalle lapidi pagane trovate nelle cripte di Lucina, rotolatevi dal di fuori, o adoperatevi a chiuderne i loculi, sperava, dico, di giungere a scuoprire del maestoso avanzo il nome e il proprietario. Ed ecco la ragione, onde allora che illustrava le Luciniane cripte non parlò delle rinvenutevi iscrizioni pagane. Ora però, uscito d’ogni speranza, si affretta a riprenderle ed illustrarle; che se non giovano a raggiungere il desiato scopo, accrescono d’una pagina di più la storia delle romane Famiglie consolari: alcune infatti di coteste epigrafi riflettono nuova luce sulla famiglia Emilia, e sopra lo storico personaggio Pomponio Basso.
Continua quindi l’esplorazione di altri monumenti e memorie pagane, rinvenute sul suolo che è intersecato da quella via che congiunge le due, Ardeatina ed Appia; e parla delle scoperte principali ivi fatte, e massime di quelle che hanno relazione maggiore col Callistiano cimitero. Nè lascia pure di notare e comentare le invenzioni, fattevi nei passati tempi, dell’Orologio solare, già illustrato dal Petar25 e delle frammentate Tavole testamentarie di Dasumio, servite di coperchio a una tomba cristiana. E intanto ci apprende che Tullio Dasumio ebbe monumento sull’Appia, quasi un miglio dal cimitero di Callisto. Seguita poi a dire delle stazioni e sepolcri del corpus dei Liberti di Adriano e degli Antonini; ragiona del sodalicium Silvani con la sua schola, e del prossimo sepolcro dei Classiarii della flotta di Miseno (Misenensium), sulla sinistra dell’accennata via traversale tra l’Appia e l’Ardeatina, o per dirlo tecnicamente, sull’Ager Curtianus Talarchianus, il quale si estendeva tra il cimitero di Callisto e le catacombe di s. Sebastiano.
Esaminati così i maggiori ipogei pagani in contiguità del cimitero di Callisto, lungo la via Appia e la via trasversale ab Appia ad Ardeatinam, che separava l’area prima dalla seconda e terza della grande necropoli Callistiana; dal vedere come già dal secolo terzo il Cimitero cristiano si era esteso da ambi i lati della seconda via, e che verso di questa i monumenti sepolcrali avevano la loro apertura, non esitò più a credere che i cristiani avessero fino dalla metà, in circa, del terzo secolo, libero diritto sopra di essa, «per lungo tratto ove in ambi i lati fu ampiamente estesa la Callistiana necropoli, accresciuta con le quattro aree del cimitero di santa Sotere, anch’essa distribuita in ambi i lati della predetta via».
E qui il dotto de Rossi farebbe punto e fine del Libro, se una opinione del Settele26 intorno alle lapidi pagane, tolte a’ vicini o lontani monumenti e trasferite a coprire le cristiane tombe, non lo costringessero a confutarla, e rendere di cotesto uso la vera ragione. Egli adunque dimostra evidentemente in primo luogo che coteste lapidi pagane, adoperate dai cristiani a chiudere i loro loculi, non sono tutte di carattere sepolcrale; ma, e sacre, e dedicatorie di monumenti pubblici, e storiche, onorarie, lusorie ec.; o, se sepolcrali, di ben altri sepolcri; che di quelli cui vennero applicate. E per mille esempi dimostra la grande cura e avvedimento che ebbero i Cristiani nell’adoperare coteste lapidi pagane, se specialmente iscritte: allora facevano sì che la faccia dell’epigrafe restasse al di sotto e occulta: se poi erano opistografe, si aiutavano della calce o dello scalpello a farne sparire le parole, e di più ponevano la lapide in modo, che la rasa iscrizione rimanesse capovolta. Questa attenta cura, onde le lapidi pagane adoperate come materiale a chiudere le tombe, non fossero confuse col titolo proprio dell’avello cristiano, è dall’A. dimostrata coi fatti, contro il Settele, che ad essa non prestò tanta fede.
E qui si chiude il III Libro del presente Volume, e insieme la prima Serie della Roma sotterranea: Serie illustrante il primario e più colossale dei suburbani cimiteri, e in cui si espongono le dottrine fondamentali dell’opera tutta.
L’infaticabile de Rossi però non depone per questo la sua penna in riposo: ma, dato un affettuoso addio alla veneranda necropoli di s. Callisto, gloriosa palestra per trentacinque anni de’ suoi profondi studi nella sacra archeologia; tosto mette mano (che la via lunga ne lo spinge) alla illustrazione dei Cimiteri suburbani maggiori e minori; quindi a preparare, della preziosa istoria della sotterranea Roma, altri volumi.
Intanto ci offre in questo che chiude, un saggio dei sepolcreti minori, illustrando il seguente.
Note
- ↑ Pag. 63, 94.
- ↑ Pag. 100-102 e 114 e seg.
- ↑ p. 86 e segg.
- ↑ Aprile del 1864.
- ↑ V. s. Giov. XIX, 41.
- ↑ Digesta, I, 8, 953.
- ↑ Si veda il T. I, p. 93, 199, 200, 210; e l’aureo Bullet. d’arch. crist., aprile 1864.
- ↑ Antiquités chretienes photographiées ec. Rome, 1870.
- ↑ V. Bullet. d’arch. crist., An. 1865, p. 38.
- ↑ Mus. Pioclementino, T. IV, pref. e T. VII, tav. XII.
- ↑ Dichiaraz. degli antichi marm. modenesi; p. 92 e segg.
- ↑ An. 1870, pag. 59, 150.
- ↑ Bullet. d’archeol. napoletano, Ser. 2.ª, T. I, p. 36 e segg.
- ↑ Pag. 306 e segg.
- ↑ Pomponia Graecinia. Monaco, 1873.
- ↑ Pag. 4 e segg.
- ↑ Pag. 16.
- ↑ V. l’Octavius di Minuzio Felice.
- ↑ V. Le Apostol. Costituzioni.
- ↑ Parla di queste eulogie il ch. A. nel suo Bull. di Arch. crist. An. 1869, p. 31 e segg., p. 46 e segg. An. 1872, pag. 25 e segg.
- ↑ P. 197, 215-16.
- ↑ P. 218 e segg.
- ↑ Constit. Apost. V. il Card. Pitra: Iuris ecclesiast. Graec. T. I, p. 65.
- ↑ P. 297 e 339.
- ↑ V. Atti della pontif. Accademia. T. I, P. II, 23 e segg.
- ↑ Osservazioni sopra le lapidi pagane che si trovano nelle catacombe, V. Atti della pontif. Accad. T. V, p. 181-200.