IV. Il cimitero di Generosa

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IV.

Il cimitero di Generosa.


Non sarà nuovo al lettore, nè il venerando cimitero nè la fortunata scoperta che ne venne fatta dieci anni or fa, se abbia tenuto dietro alla pubblicazione dell’aureo Bullettino d’arch. Cristiana del ch. Autore. Dal momento infatti che tornò alla luce l’ignorato Cimitero, ei fu sollecito raccoglierne i monumenti e le memorie, e nel suo dotto Periodico offrirne a’ lettori una succinta istoria. Istoria che qui riprende, e, ora che ha potuto tutto il Cimitero esplorare, con più larga trattazione esaurisce e completa.

L’unico monumento che sino a oggi si conosceva del cimitero di Generosa (cap. I), era quella già divulgata iscrizione, che ricorda i martiri Simplicio, Faustino e Beatrice, leggendovisi: qui positi sunt in cimiterium generoses super filippi. Cotesta iscrizione però non basta a rintracciare il vero sito del cimitero di Generosa; perlochè il posto preciso del praedium Philippi veniva indicato variamente dagli antichi topografi. Oggi però, il fatto e la scoperta del cimitero hanno tolto ogni dubbio.

Sul fianco del monte, detto oggi delle Piche, là ove prospetta sul Tevere, e al quinto miglio dalla via Campana (presso l’antica Portuense) avvenne la felice scoperta. Egli ragionando della topografica postura del cimitero, tocca del luco e del tempio della dea Dia; sacro, l’uno e l’altro, per i fratelli Arvali; e ne dimostra qui l’esistenza, come già avea divinato contro l’opinione del dotto Marini ed altri eruditi archeologi, i quali cercavano il bosco degli Arvali sull’opposta riva del Tevere, e lungo la via Ostiense.

Ciò premesso, si fa da esplorare ed esaminare (cap. II) le prime rovine che gli si presentano di una piccola basilichetta. Ne descrive minutamente l’emiciclo, la conca, le pareti dell’abside, le due navi che fiancheggiavano la maggiore, e quanti altri mai frammenti e avanzi di colonne e di capitelli, e di epigrafi proprie del venerando luogo: dai quali monumenti tanta luce glie ne viene, che non gli resta difficile stabilire della basilichetta l’epoca di fondazione, all’anno cioè 382, in circa, dell’Era cristiana, sedente Damaso sulla cattedra pontificale.

Di tutti i monumentali avanzi peraltro della basilichetta, preziosissimo è il frammento, che trovò confuso con altri tra le rovine, dell’epistilio marmoreo, che con la sua iscrizione dedicatoria dovette [p. 61 modifica] starle in fronte. E il frammento portava infatti dell’iscrizione il residuo... VSTINO VIATRICI; cui l’esimio Autore non pena molto restituirgli la sua originale integrezza, supplendo e leggendo, Sanctis (o beatis) martiribus Simplicio Faustino Viatrici. E qui con grande erudizione storica e paleografica, dimostra che il vero e genuino nome della sorella dei santi Faustino e Simplicio fu veramente, non Beatrice, come sin qua si è tenuto, ma Viatrice. E però, se nei più antichi codici liturgici, e fasti martirologici, e nel missale Gelasianum si legge Viatrici, la preziosa iscrizione rinvenuta non permette più sentire con i Bollandisti1 che cotesto nome Viatrici nei vecchi codici fosse un barbarismo, da correggersi perciò in Beatrici.

Un’altra osservazione non meno importante aggiunge il dotto de Rossi sul frammento Faustino Viatrici. Ei vede mancare tra Faustino e Viatrici, la copulativa et; la quale non manca mai quando si vuole esprimere l’ultimo nome in rapporto ai precedenti. Quindi molto bene argomenta che, non ai soli tre noti Martiri fu dedicata la cara basilichetta dal grande cultore e zelatore dei sepolcri de’ martiri, qual fu il santo pontefice Damaso; e che perciò un quarto nome quivi sia da supplire: nome che infatti egli giunge a scuoprire.

S’interna per entro il sepolcreto (cap. III). E appena entrato nella prima piccola cripta, che fu il sacro ipogeo dei già ricordati Martiri, due cose chiamano principalmente la sua attenzione. Un epitaffio di bella paleografia, che ricorda aver avuto quivi sepoltura un Aurelio Euticio; il quale, avuto riguardo alla nobiltà dell’epitaffio e al privilegio di esser sepolto nel luogo più cospicuo del sacro ipogeo, si può ragionevolmente tenere per discendente d’illustre e qualificata prosapia. L’altra cosa si è: una insigne dipintura ove sono rappresentati, con i loro istessi nomi, gl’incliti martiri quivi sepolti, cioè: Sancta (Vi o Be) atrix, simplicius, Faystinianys e Rufinianys: ed ecco il quarto martire, il cui nome forse venir dovea dopo Viatrici nella iscrizione dedicatoria.

Del gruppo dunque dei tre noti martiri era quarto un Rufiniano. Ma chi fu cotesto santo martire Rufinianys, o Rufus (chè, Rufus e Rufinianus, suona il medesimo)?

Qui apre il ch. Autore una profonda disquisizione intorno l’inclito martire, affatto ignoto ai topografi cronistorici dei Martiri portuensi. Ma per non oscurare, piuttosto che epilogare, l’eruditissima dissertazione, dirò com’ei ravvisi in Rufinianus quel Rufus, Vicario che fu imperiale in Roma, principando Diocleziano, e che viene ricor[p. 62 modifica]dato negli atti degl’illustri martiri Grisogono e Anastasia, e registrato nel martirologio Adoniano a’ 28 di novembre. E in verità la clamide, che, a preferenza degli altri, indossa nella pittura, non è egli indizio certo della dignità, che egli ebbe di Vicario imperiale?

A compimento poi della storia di essi, racconta la traslazione dei loro corpi dal primitivo ipogeo a santa Bibiana; avvenuto l’anno 682-83, sedente papa Leone II; e poi a santa Maria Maggiore di Roma.

Restano ancora a scoprire le tombe dei martiri Crispo e Giovanni preti; dei quali Adone registra il natale: Romae in sexto Philippi, a’ 18 d’agosto: ma nel cimitero non vi se n’è trovato vestigio; e sono forse nascoste sotto alcuna antica costruzione di sostegno alle cripte cadenti. Si sa come Viatrice e i due Crispo e Giovanni (cap. IV) si fossero dati a percorrere ansiosi le rive del Tevere in cerca dei corpi dei cristiani, precipitati nel fiume per la fede di Gesù Cristo; siccome narra distesamente l’egregio Autore. Quindi si può facilmente argomentare che i tre eroi di carità raccogliessero, rigettati dalle onde del Tevere, i martiri fratelli Simplicio e Faustino, gettativi, là, ove furono sepolti presso il Sextum Philippi; e, la via prendendo verso il deserto e abbandonato luco degli Arvali, nel praedium della cristiana Generosa nascondessero in spelonche arenarie i santi corpi raccolti. Ed ecco l’origine del cimitero di Generosa.

Quanto alla illustrazione di esso, il ch. Autore ne partisce, a maggior chiarezza e intelligenza, in tre gruppi le piccole gallerie, le quali esamina e dichiara ampliamente, sì rispetto all’indole, come alla forma, alla topografica giacitura e alle pochissime memorie epigrafiche e a’ sigilli figulini che potè rinvenirvi.

Ove però maggior numero di epitaffi raccoglie (cap. V) è sul pavimento della basilichetta: i quali rispondevano ad un altro sistema di arche e sepolcri, da lui esplorati, sottostanti alla basilichetta medesima. Tutti hanno, più o meno, una qualche importanza; ma il più prezioso è, senza dubbio, quello di Elio Olimpio; da che, e per il suo linguaggio e per la data certa consolare dell’anno 382, viene a confermare mirabilmente l’epoca dal ch. Autore assegnata alla fondazione della Damasiana basilica.

Dal complesso poi delle raccolte iscrizioni ne induce due fatti: l’uso dei gentilizi, premessi ai cognomi sulle epigrafi dei sepolcri, sì dentro come fuori della basilichetta; e i limiti cronologici del loro storico periodo. Ma se cotesto periodo, che segnano tra l’anno 382 e il 394, concorda esattamente col periodo di esistenza del cimitero sino agli anni nefasti di Roma, assediata e devastata nei suoi suburbii dalle [p. 63 modifica]orde barbariche; potrebbe alcuno per avventura trovar difficoltà e un anacronismo nei nomi gentilizi; essendo che l’uso di essi sulle lapidi sepolcrali dei cimiteri romani non ecceda a fatica il principio del sec. IV. Se non che il ch. Autore, che preveduta avea ben l’obiezione, scioglie la difficoltà, e mostra ad evidenza, che, se l’uso del nome gentilizio sparì dalla epigrafia cimiteriale volgendo il IV secolo, nondimeno restò in vigore nei pubblici atti. Ora, riflettendo che i privilegiati di nobile tomba, tra le altre rozze e anonime del cimitero di Generosa, non poterono esser altri, (così pensa l’Autore), che i proprietari di quelle terre, i signori di quella rustica popolazione composta di poveri lavoranti e servi; che maraviglia vedere sulla tomba loro cotesta tenacità d’uso del nome gentilizio, distintivo di nascita e di superiorità?

Riepiloghiamo. Là ove i fratelli Arvali offrivano alla bugiarda loro divinità culto e sacrificio, fu il sepolcro venerando di magnanimi eroi del Cristianesimo: e il sacro luco pagano si convertì nel pietoso cimitero di Generosa. Tanto è vero, che la luce del Vangelo dovea rinnovar la faccia della terra: e sulle rovine del paganesimo inalzarsi la Chiesa di G. Cristo!

Il sacerdotale collegio dei dodici fratelli Arvali, ebbe ivi un lucus ed un templum sacro alla dea Dia, nel quale esso compiva periodicamente i suoi riti solenni e i sacrifici pro frugibus. Cotesto Collegio stette in fiore sino all’impero dei Gordiani. Decadde dalla sua primitiva dignità, imperando i due Filippi: e d’allora un silenzio profondo coprì d’impenetrabile velo la sua istoria. Finalmente, colpito dalle leggi degl’imperatori cristiani, onde abolivano l’idolatrico culto, ebbe tagliato e arso il sacro bosco; il suolo ridotto a coltura, e poi donato alla Chiesa. Se non che, col venir meno della dignità e floridezza dell’Arvalico collegio, non cessò il culto ambarvalico e il sacrificio pro frugibus; provando il ch. Autore come cotesto culto fosse degli ultimi a estirparsi. E quante angherie non ebbero invero a patire i cristiani, sul chiudersi del secolo IV, appunto per le Ambarvalia e le Lustrationes agrorum!

Tuttavia il maggiore ostacolo a cristianizzare quel luogo era svanito: e il papa Damaso potè bene, rasato il bosco, e dispersi gli Arvali per la costituzione dell’imperatore Graziano dell’anno 382, erigervi la basilichetta a onore dei santi Martiri che riposavano nel cimitero di Generosa. La contemporaneità della erezione di essa con la legge di Graziano contro i boschi e templi e sacerdozii pagani, non potrebb’essere più manifesta.

[p. 64 modifica] Finalmente il ch. A. con dimostrare quanta cura ebbe s. Damaso di conservare i prisci monumenti, secondo il prescritto delle leggi imperiali, che volevano interdetta l’idolatria, ma intatti gli edifici, termina questo 3.° tomo della sua Roma sotterranea.

Che se io tentai, spigolando il dotto Volume, coglierne il più bel fiore, sento altresì che le mie forze non sono riuscite bastanti nè adequate al buon volere. Ma sarebbe malagevole assai, io credo, a chi volesse tutta, in poche pagine, raccorre e delineare, come in una pitturetta fiamminga, la svariatissima scena di tanti sepolcri e di tanti eroi del Cristianesimo, che il dotto de Rossi ivi ti dipinge ed illustra; e con tale una chiarezza, verità ed istorica esattezza, che per poco non ti sembra di vedere, anzi di percorrere con lui, quegli oscuri e laberintici recessi.

Il 1.° e 2.° libro contiene infatti una profonda analisi storica; che il ch. Autore, al lume dei monumenti, massime epigrafici, studiati in relazione alla cronologia e a’ fatti, fa di tutta la immensa quadripartita Necropoli di santa Sotere, e dell’Arenaria d’Ippolito: intanto che il dotto fratello, prof. cav. Michele Stefano, rileva dell’una e dell’altra la pianta generale in tutte le sue tortuose ed intrigate gallerie; e, nell’Appendice architettonica, e fisica, che va di corredo a questo 3.° volume, spiega il modo tecnico, ossia direttivo, tenuto dai fossori nell’aprirvi que’ vasti ed immensi laberinti.

Nel 3.° libro svolge con amplissima trattazione, tra gli altri, un nuovo argomento: il cimitero, vo’ dire, di Callisto costruito sopra terra, in relazione del sotterraneo omonimo. Dal quale studio comparativo viene a stabilire un criterio sintetico e generale intorno alla costante relazione dei sotterranei con i loro, sovrapposti all’aperto cielo. Sintetico principio, che andò confermando con l’esame e confronto dei moltiplici e svariati oggetti raccolti nei due Cimiteri.

Tra cotesti oggetti poi essendosi rinvenute alcune ampolle vitree, rosseggianti ancora di sangue; offrirono queste, come monumento assai importante per la istoria dei martiri, al professore fratello bella occasione a dissertare sulla conservazione delle materie organiche ed animali nelle catacombe Romane; concludendo, in prova della verità del rosso sanguigno delle ampolle sepolcrali, che «nei sepolcri delle romane Catacombe, lungi dall’essere impossibile la conservazione delle sostanze organiche»; la natura del terreno più presto la favorisce. E cotali osservazioni, per non dire di altre verità sperimentali dedotte dallo studio della natura terragna dei sotterranei Cimiteri; espone l’egregio cav. Michele nella sua ricordata [p. 65 modifica] Appendice, onde intese con la scienza geologica ed architettonica lumeggiare sempre più il testo storico e archeologico dell’esimio fratello.

Con questo 3° tomo adunque compie il ch. Autore la generale trattazione del Cimitero di S. Callisto (che di buona ragione chiama Archicimitero); ponendolo, di più, a confronto del piccolo e rusticano di Generosa; affinchè, come nella duplice Callistiana necropoli si ha il tipo dei vasti Cimiteri delle metropoli; così volle in quello di Generosa offrirci un esemplare dei minori dell’agro romano. Onde si può dir bene che questi tre primi tomi della Roma sotterranea, costituiscano di per sé stessi un’opera completa; un prodromo, direi, ove sono svolte le grandi e generali nozioni applicate all’esame archeologico e storico degli antichi cimiteri cristiani; un faro luminosissimo a continuare lo svolgimento della grande istoria delle cristiane necropoli.



Note

  1. Act. Sanct. T. III, Tul. p. 34.