Roma e lo Stato del Papa/Capitolo IV

Capitolo IV

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CAPITOLO IV.

Primo concistoro. - Il nuovo municipio.



Sommario: Primo gran concistoro. — L’aristocrazia italiana nel Sacro Collegio. — Alcuni nuovi cardinali. — Ricostituzione del municipio. — Primo senatore è il principe Del Drago. — Il regolamento per gl’immondezzai e le ordinanze sono lettere morte. — Che cosa era il municipio di Roma. — Confronti inverosimili. — Il municipio istituto di beneficenza. — Alcune cifre del bilancio. — Illuminazione a gas. — La città divisa in rioni e regioni. — I primi principi regnanti visitano Roma. — Il re Luigi Massimiliano di Baviera va a Frascati dal duca di Poli. — Si balla il saltarello in onore di lui. — Si scopre in San Lorenzo in Damaso il cenotafio di Pellegrino Rossi. — Notizie sul truce assassinio. — Un superstite dei condannati. — Fenomeni meteorologici dell’anno 1851. — Matrimoni nell’aristocrazia. — Donna Maria Chigi sposa il principe Giovannelli di Venezia.


Il primo gran concistoro con creazione di cardinali, che tenne Pio IX, dopo il suo ritorno, ebbe luogo il 30 settembre 1850, senza tener conto del piccolo concistoro dell’anno prima datum Neapoli, in suburbano Portici. Nei concistori del 1846, 1847 e 1848, aveva nominato complessivamente soli sette cardinali, il Marini, il Baluffi e il Bofondi nel 1846; l’Antonelli, il Giraud e il Dupont nel 1847, e il Vizzardelli nel 1848. Riservò in petto, nel concistoro del 1846, monsignor Fornari, nunzio in Francia, e lo pubblicò nel 1850, per cui in questo ottennero la porpora ben quattordici prelati, dei quali, dieci stranieri, tra francesi, spagnoli, tedeschi, inglesi e portoghesi, e quattro italiani. Dall’elezione del Papa a quel giorno erano morti quindici cardinali, e fra essi il più illustre per dottrina, il Mezzofanti; il più noto per rigidità di regola, il Micara; colui, che fu creduto eletto in luogo del Mastai, il Gizzi; e quel Gaysruck, arcivescovo di Milano, che si disse investito del diritto di veto dall’imperatore d’Austria per colpire il vescovo d’Imola: cosa che non è oggi confermata da alcun documento. Pio IX riempì quasi interamente i posti vuoti, ma non nominò fra gl’italiani nessuno che [p. 54 modifica]valesse il Mezzofanti. Più illustre, fra gli stranieri, il Wiseman, arcivescovo di Westminster, cui la clamorosa conversione e gli scritti avevano data notorietà mondiale.

Ebbe la porpora il vescovo di Gubbio, che si chiamava Giuseppe Pecci; e quando, nel concistoro del 1853, l’ottenne il vescovo di Perugia, vi furono due Pecci nel Sacro Collegio, come vi erano, da un pezzo, due Cadolini e due Riario Sforza, cugini questi, ma neppur parenti i primi quattro. Prevaleva sempre fra i cardinali italiani l’elemento signorile. Pio IX, signore di nascita, fu eletto da un conclave, nel quale erano rappresentate parecchie tra le più antiche famiglie patrizie d’Italia. Le Due Sicilie avevano i Riario, il Pignatelli, il Carafa, il Serra Cassano, l’Acton, il Grassellini e il Villadicani; Roma, il Massimo, il Barberini, l’Altieri e il Falconieri; le Marche, un Castracane; l’Umbria, un Della Genga Sermattei; la Toscana, il Piccolomini; la Lombardia, l’Opizzoni; e la Liguria, il Brignole, lo Spinola e il Fieschi, senza tener conto che vi era il fiorentino Corsi e altri di famiglie patrizie. Pio IX, benchè i tempi venissero mutando, aveva sempre voluto nel Sacro Collegio degli autentici signori, e fu soltanto nel concistoro del 1850, che i quattro italiani, ai quali die’ la porpora, erano schietti borghesi, come il Cosenza, traslato dalla sede di Andria a quella di Capua, il Fornari, il Pecci e il Roberti, divenuto uditore della Camera apostolica da presidente di Roma e Comarca.

Al Fornari successe, come nunzio a Parigi, monsignor Garibaldi, che fu sostituito a Napoli da monsignor Innocenzo Ferrieri, nativo di Fano e figlio di un cameriere: spirito acuto e mordace, che morì cardinale nel 1887, e fu rivale in gioventù di Gioacchino Pecci, che aveva definito avaruccio e orgogliosetto. Un altro concistoro cardinalizio fu tenuto il 15 marzo del 1852. Il Papa concesse la porpora all’arcivescovo di Bordeaux, Francesco Augusto Donnet, a monsignor Domenico Lucciardi, vescovo di Senigallia, a monsignor Girolamo d’Andrea, segretario del Concilio, e a monsignor Morichini, tesoriere generale della Camera apostolica. Riservò due cardinali in petto. Dei nuovi porporati si disse bene. Il Morichini aveva dato in luce, da poco tempo, la sua opera sulle istituzioni di beneficenza in Roma; era stato in gioventù amico di Luigi Napoleone, il [p. 55 modifica]quale ne chiedeva notizie a ogni romano che capitava a Parigi; e monsignor d’Andrea, napoletano, fu commissario straordinario a Perugia e vi raccolse parecchie dimostrazioni di simpatia. Il municipio di Città di Castello gli aveva conferito nel 1850 il titolo di nobile patrizio tifernate. A Perugia gli successe il calabrese monsignor Lo Schiavo, tuttora vivente.


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Con editto del segretario di Stato, del 25 gennaio 1851, fu ricostituito il corpo municipale, o senato di Roma, ma, non prima del 12 marzo, furono nominati i quarantotto consiglieri, gli otto conservatori e il senatore. Quest’ultimo ufficio doveva, secondo l’editto, essere conferito ad un «soggetto appartenente alle famiglie romane più cospicue per nobiltà e possidenza». Il senatore durava in ufficio sei anni, e il consiglio si rinnovava per metà ogni tre anni, ma potevano i consiglieri essere confermati. Tra costoro, e tra due rappresentanti che venivano designati da ciascuno dei rioni, erano dal Papa prescelti i consiglieri da nominare. Di questi, ventiquattro dovevano essere i nobili tra gli iscritti nell’albo capitolino; e ventiquattro i borghesi. I ventiquattro nobili furono i principi Altieri, Barberini, Boncompagni, Borghese, Corsini, Doria, Odescalchi, Gabrielli, Massimo, Santacroce, Ruspoli, Rospigliosi, Alessandro Torlonia e Vincenzo Colonna; i duchi Braschi e Lante; il barone Vincenzo Grazioli, che, l’anno dopo, ottenne dal re di Napoli il titolo di duca; i marchesi Cavalletti, Del Bufalo, Guglielmi, Antici, Patrizi, Dei Cinque Quintily ed il conte Cardelli. I borghesi furono: Giacomo Albertazzi, Ignazio Amici, Filippo Bennicelli, Pietro Carpi, il conte Cini, Giuseppe de Matteis, Giuseppe Ferraioli, Tommaso Filippani, Clemente Folchi, Giuseppe Forti, Giovanni Fratellini, Filippo Luigioni, Tommaso Merolli, Tommaso Minardi, Giuseppe Nepoti, Francesco Piacentini, Giuseppe Pulieri, Agostino Rempicci, Pietro Righetti, Domenico Rocchi, Pietro Sala, Antonio Sarti, Pietro Tenerani e Luigi Vescovali. Supplenti per la prima metà, Luigi Antonelli, e i marchesi De Gregorio, Fioravanti, Lepri e Vitelleschi; per la seconda metà, Vincenzo Bianchi, Salvatore Huber, Gioacchino Merolli, Annibale Nicolai, [p. 56 modifica]Alessandro Pisoni e Candido Tosi. Senatore fu nominato il vecchio principe Urbano del Drago Biscia; e conservatori, per la prima metà, Altieri, Borghese, Colonna e Guglielmi; per la seconda metà, Albertazzi, Pulieri, Tenerani e Vescovali. E perchè nel corpo municipale, tutto formato di laici, non mancasse una rappresentanza, anche minuscola, del clero, furono nominati deputati presso il consiglio il canonico don Tommaso Liberati per il clero secolare, e don Camillo Guardi, parroco dei Santi Vincenzo e Anastasio, per il clero regolare. Luigi Vannutelli, di un altro ramo della famiglia dei presenti cardinali, fu nominato segretario generale. Il principe Del Drago era il più anziano fra i consiglieri nobili, e molti si meravigliarono che egli, quasi ottantenne, e senza notevoli precedenti, fosse chiamato a quella carica, la quale, benchè decorativa, era la prima del laicato. Al cardinale Antonelli conveniva che a quel posto fosse un vecchio senza volontà, e malato per giunta. Il Del Drago, la cui unica opera fu un editto per la reposizione dei fieni e della paglia, soleva firmare: «principe don Urbano del Drago Biscia Gentili». Morì il 25 luglio di quell’anno stesso, e gli successe, ma come prosenatore, Vincenzo Colonna, pratico di affari e zio, per parte di madre, del principe Colonna di Paliano, di cui era amministratore e vicario in Roma. Egli aveva origine dai Colonna di Sicilia, era persona colta e fu amico del Gregorovius. Morì dopo il 1870.


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Nonostante che fosse costituito il corpo municipale già dal 12 marzo, la commissione provvisoria era rimasta in carica sino al 31 di quel mese, seguitando a metter fuori quelle «notificazioni» che formavano argomento della pubblica ilarità. Una del 18 marzo fu davvero amena. Emessa allo scopo di garantire la buona fede del commercio dei commestibili, prescriveva di dare al burro di ricotta un colore diverso da quello del burro normale, ma non indicò quale dovesse essere, onde se ne videro di gialli, di verdi, di rossi, e, in breve, d’ogni colore. Un’altra ordinanza contro i cani abbandonati minacciava che sarebbero distrutti. Il 13 marzo 1850 uscì il regolamento per gl’immondezzai, del quale merita di essere ricordato [p. 57 modifica]l’articolo 13, che poi, pubblicato a parte con le firme dell’Odescalchi, dell’Alibrandi e del Capranica, sollevò generali risa. Era così concepito: «gli stracciaroli che si recano a cercare negli immondezzai gli oggetti della loro industria, non potranno, con bastoni, o altri ordigni, spandere oltremodo le immondezze, ma dovranno usare ogni diligenza perchè queste non si spandano, altrimenti verrà contro di essi, proceduto con ogni rigore». Dunque, se erano esclusi i bastoni e gli ordigni, si doveva far uso delle mani?...

Quel regolamento di polizia proibiva di gettare immondezze dalle finestre, pena una multa di cinque scudi. Furono stabiliti 131 immondezzai nella città con relative tabelle, sopravvissute fino ai tempi presenti, ma tali ordinanze non tolsero che Roma, dopo Napoli, fosse la città più sudicia d’Italia. Nè la nota comica dei bandi municipali finì con la commissione provvisoria, perchè, il 25 luglio, il principe Altieri, che faceva le veci del senatore Del Drago, rinnovava per i cani abbandonati la stessa ordinanza, ripetendo che i cani non reclamati durante i tre giorni di reclusione, sarebbero distrutti. I reclusori di quelle bestie erano lo stabilimento di mattazione a porta Leone, la via delle Cascine Nuove, e la via del Muro Nuovo. Ma le distruzioni non avvenivano, sia per natia mitezza, sia perchè non vi erano agenti esecutori, ond’è che Roma poteva anche chiamarsi, dopo Costantinopoli, la città dei cani.


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Si disse che il ritardo nella costituzione del municipio dipendesse dal cardinale Antonelli, il quale ambendo per sè e i fratelli l’onore della cittadinanza e nobiltà romana, credeva poterla ottenere più facilmente dalla commissione provvisoria, e difatti l’ottenne. Nonostante che tale cittadinanza, già concessa al generale Oudinot, e poi al generale Goyon e al generale Lamoricière, e ad altri, degni e non degni, avesse perduto gran parte del suo prestigio, non lasciava di solleticare la vanità borghese degli Antonelli. E il cardinale volle suggellare la fresca nobiltà, nominando Luigi, penultimo dei suoi fratelli, fra i consiglieri supplenti del patriziato, mentre il conte Cini, nobile più autentico, [p. 58 modifica]veniva annoverato nella rappresentanza borghese. In complesso, le nomine dei consiglieri e dei conservatori dei due ceti rappresentavano ciò che di meglio vantasse la parte guelfa, in fatto di capacità e probità. L’esclusione del duca di Sermoneta fu oggetto di vari commenti, ma si disse che, avendo egli ripreso il comando dei vigili, che dipendevano dal municipio, non fosse opportuno nominarlo consigliere. E ciò parve un pretesto, perchè egli non riscuoteva stipendio, e lasciò poi l’ufficio a suo figlio Onorato.

Per bene intendere l’ordinamento d’allora sarà bene spiegare coi nomi di oggi, che senatore era il sindaco; conservatori, gli assessori; e i consiglieri rappresentavano, come oggi, il potere deliberativo. Ma quale enorme e quasi inverosimile differenza di cose e di poteri da allora ad oggi! Le attribuzioni del senato di Roma erano limitate alle ordinanze per l’igiene e ai bisogni elementari della vita cittadina, nè contava di più di quanto contasse l’imperio suo sulla città durante la sede vacante. Esso rappresentava la tradizione dell’Urbs laicale, ma puramente rettorica. Mancava ogni potere, perchè mancava ogni contenuto di vita autonoma. Che valevano, infatti, il fasto e il decoro della storica sala dei Conservatori, i musei, i grandi ricordi dell’arx e delle sottoposte rovine, la statua di Marco Aurelio, e gli spettacolosi roboni e carrozzoni, che facevano la loro comparsa nelle maggiori solennità; che valeva un’imponenza, che nessuna magistratura municipale ebbe mai, neppure l’inglese, quando mancava ogni organismo e manifestazione di vera vita municipale? Non stato civile, di cui facevano le veci i libri parrocchiali e le cosidette «tavole dell’alma città» pubblicate dalla reverenda Camera apostolica; non statistiche, non anagrafe, e neppure verbali delle rare. tornate del consiglio, che si tenevano il mattino dalle 10 alle 12, sempre in segreto, nè agenti per l’esecuzione degli ordini, affidata ai gendarmi. Alla stessa istruzione elementare provvedevano in parte alcuni ordini religiosi; e qualche opera pubblica, anche di mediocre importanza, era compiuta dal governo. E nelle lapidi di opere esclusivamente eseguite dal municipio, figurava in primo luogo, e a lettere cubitali, il nome del Papa, col sacramentale ablativo di tempo: Pio IX pontifice maximo. I nomi del senatore e dei conservatori si leggevano in fondo, a caratteri appena visibili, [p. 59 modifica]o erano addirittura omessi. La maggior opera edilizia in quegli anni fu il riordinamento della salita di Monte Cavallo, rampa inaccessibile alle vetture, e che il genio architettonico di Virginio Vespignani rese una delle più belle opere d’edilizia moderna. L’iscrizione murata sulla parete a sinistra di chi sale, e che si apre con il detto ablativo, rivela, che, senza il concorso dello Stato, quell’opera non si sarebbe compiuta. Pio IX ci teneva a vedere dappertutto il suo nome e le sue armi.


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Lievissime le imposizioni municipali. Esse colpivano: le tre acque, la Vergine, la Felice e la Paola; le vie, le cloache, le vigne e gli orti suburbani; la mattazione, la neve e i cavalli. L’imposizione di altre tasse non poteva farsi senza l’approvazione del cardinale presidente del circondario di Roma. C’era una tassa sui cavalli, ma ne erano esenti i ministri, i capocci, i vergari, i butteri, tutti gl’inservienti dei mercanti di campagna. N’erano colpiti i soli cavalli di lusso, ma tante le magagne per gabellare anche questi come appartenenti ad una delle categorie escluse, che in una città, la quale aveva così fitto numero di equipaggi e di scuderie, la tassa era preventivata per soli 12,000 scudi, e ne rendeva meno. Data più tardi in appalto, fruttò più del doppio, cioè lire 135,000.

La commissione provvisoria fece un bilancio preventivo per l’anno 1850. È un documento interessante per misurare il cammino percorso, d’allora ad oggi. Quel bilancio ha questi estremi: un’entrata di scudi 689,618.40, ed una spesa, rigorosamente calcolata, di scudi 763,716.74, e un disavanzo, che allora si chiamava «deficienza», di scudi 74,098.34. La commissione notava che suo studio principale era stato quello di conciliare «per quanto soffrono le difficoltà dei tempi, il regolare andamento dell’azienda comunale con le maggiori restrizioni delle spese, ma che le stesse difficoltà avevano reso vano il desiderato scopo di equiparare l’introito all’esito». E aggiungeva: «questo trovasi in una deficienza, che siccome non tenue, reclama un attivo provvedimento». Il qual provvedimento, risultante da una nota del bilancio, fu basato su questo specioso ragionamento:

[p. 60 modifica]che siccome il macinato rendeva nella città di Roma 28,000 scudi, ed era una tassa governativa, che colpiva tutte le provincie in ragione di baiocchi 76 per rubbio, mentre, per sola eccezione, la città di Roma e l’Agro pagavano in ragione di scudi 2.20, bastava che il comune ripetesse dall’erario la differenza fra l’imposta generale e l’imposta eccezionale, e il pareggio era raggiunto.

Esumiamo altre cifre. Le maggiori entrate erano costituite dal dazio sui liquidi e foraggi, carni e pesce. Per liquidi s’intendeva vini e spiriti solamente. A causa delle spese straordinarie di alloggi e foraggi per l’armata francese, ingiustamente a carico del municipio, e che rappresentavano l’onere di 150,000 scudi, la commissione provvisoria portò al dazio di consumo un aumento di scudi 70,000, per cui tutto il capitolo ne rappresentò 311,740. Il dazio sulle carni salì in preventivo a 19,239 scudi; quello sul pesce fresco a 10,755; il macinato a 28,000. I redditi del macello e il dazio sulla neve crebbero, alla lor volta, il primo sino a 12,000 scudi, e il secondo a 10,000. La tassa sulle acque fu accresciuta del doppio, portandola a 16,690 scudi, e la sopratassa sulla dativa o fondiaria sali a 15 centesimi addizionali, e parve enorme, mentre non gettava in sostanza che 37,438 scudi. La tassa di sepoltura rendeva solo 2000 scudi, essendo ancora in uso l’interramento nelle chiese, e soli 1000, la privativa dei cofani in piazza Navona. Era detta così l’occupazione del suolo pubblico, a scopo di mercato temporaneo, come sì fa oggi in piazza della Cancelleria e in Campo di fiori. Il cofano romano è il grosso cesto di vimini per il trasporto degli ortaggi, frutta e piante, ma s’intendeva con esso tutto ciò ch’era materia di mercato temporaneo. Fra licenze, permessi e tumulazioni al Testaccio, teatri e feste pubbliche, nonchè depositi di fieni e paglia, si arrivava a gran fatica a 600 scudi, mentre le multe per contravvenzioni erano in preventivo di soli 200, e il municipio non possedeva di rendita consolidata che scudi 295. Gli altri introiti ancora più bassi. Il Ministero delle finanze rimborsava al municipio 1634 scudi per vari titoli, uno dei quali era la regalia di sale, dovuta ai diversi ufficiali, ministri e impiegati dell’antica Camera capitolina, il cui peso era rimasto a carico del bilancio comunale.

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La partita delle spese offre nuova ed originale materia di confronti. Il più di esse era rappresentato dalla beneficenza, dagli alloggi e dalle spese di casermaggio. Mentre da un lato per i lavori pubblici erano stanziati 129,235 scudi; per spettacoli, teatri e feste pubbliche 26,715; per i vigili 12,428; per monumenti, musei e pinacoteca, protomedicato e assegno ai maestri di filosofia in Santa Maria della pace, più di 7000; dall’altro lato gli oneri di beneficenza rappresentavano il carico più alto di quel bilancio, quasi la terza parte. C’erano i sussidi giornalieri permanenti a 3281 famiglie povere, e quelli delle tre principali ricorrenze dell’anno; c’erano i sussidi straordinari, nonchè quelli giornalieri ai braccianti invalidi; e gli altri in letti, vestiari e casse mortuarie ai poveri, che si concedevano mediante invito dei parroci. Calcolata ogni cassa mortuaria a 80 baiocchi, si aveva per esse la cifra complessiva di 2528 scudi, pari a lire 12,640. Oggi, con la popolazione più che raddoppiata, il municipio non spende, per questo capitolo, che 13,486 lire; il che basta da sè a dimostrare il rifiorimento delle condizioni economiche delle classi popolari. Oltre ad altri assegni di beneficenza accordati dal Papa e pagati dal municipio, questo versava all’ospizio di Sant’Alessio 6580 scudi per cento ricoverati; e a Santa Maria degli angeli, per altri mille ricoverati d’ambo i sessi, scudi 54,000, nonchè altri 2000 ai sordomuti del convitto di Termini. Tutto sommato, il municipio era un istituto di beneficenza, che spendeva in questa il terzo di tutto il bilancio, che toccava i tre milioni e mezzo. Erano a carico di esso anche oneri strani, come a dire, 2000 e più scudi per oblazioni di calici e torcie a diverse chiese. Per le strade provinciali e comunali dell’Agro, se ne spendevano 36 mila; per le vie urbane erano segnati in bilancio 141,740 scudi, che per altro non si spendevano tutti, senza che alcuno reclamasse. E nel capitolo della conservazione delle mura e porte della città, la sola riparazione delle breccie e restauri della porta San Pancrazio importò 38,700 scudi, e fu veramente ingiusto che quella spesa fosse sostenuta dal municipio.

[p. 62 modifica]Confrontando quel bilancio col presente, spicca l’enorme differenza tra la vita municipale di allora e questa di oggi. Il dazio di consumo getta 14 milioni di lire, e colpisce, in maniera inverosimile, tutti i generi alimentari, tranne l’erba e le frutta fresche, in guisa che Roma è divenuta la più costosa città d’Italia, e una delle più costose d’Europa. Basterà ricordare che sul vino, il dazio era di sole tre lire e dieci centesimi per ogni 120 ettolitri, cioè 62 baiocchi, mentre oggi si pagano dieci lire e mezza per un solo ettolitro. La tassa addizionale sulla dativa è salita da 15 centesimi a 67, superando il massimo; le spese per l’istruzione, fra ordinarie e straordinarie, obbligatorie e facoltative, toccano i 4 milioni. E quella tassa sui cavalli, che rendeva appena 60,000 lire, oggi ne dà 271,000. Gli enormi oneri di beneficenza sono, è vero, passati in gran parte a carico della congregazione di carità, ma rimangono ancora nel bilancio, ultimo ricordo di un’epoca finita, le 16,000 lire che son pagate, a titolo di franchigia, ai genitori di numerosa prole. E tutto il bilancio, che rappresentava 3 milioni e mezzo di lire, oggi è salito a 34, superiore di 2 milioni al bilancio di Napoli. Nessuna città ha subito così radicale mutamento in più breve tempo, e in tutta la sua economia, come Roma. Del vecchio rimane tanto che basta a ricostituire con la fantasia, più che con la memoria, il mondo di allora. Chi ricorda quali erano davvero i quartieri dei Monti, del Trastevere, di Santa Maria in Campitelli, dei Filippini e del Governo Vecchio; che cosa era il ghetto con la vicina piazza Montanara sino ai Cerchi, nonchè quel caratteristico rione a saliscendi, nella sua barbarie medievale, che si addensava alle pendici del Campidoglio, fino a piazza Venezia e a piazza San Marco, e quasi demolito oggi per il monumento a Vittorio Emanuele? La città poteva considerarsi come l’aggregato di tanti borghi campagnoli, ammucchiati a pie’ degli storici colli, e cingenti le classiche rovine, pagane o cristiane, ed i grandi monumenti della Rinascenza.


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Si spendeva per l’illuminazione 28,000 scudi. La città era illuminata con fanali ad olio, ben distanti l’uno dall’altro, e le vie tortuose e solitarie facevano paura dopo un’ora di notte.

[p. 63 modifica]La fioca luce dei fanali riceveva qualche aiuto dalle lampade accese innanzi alle sacre immagini. L’oscurità delle vie agevolava i reati di sangue, e ne rendeva difficile lo scoprimento. Il Comando francese insisteva perchè fosse introdotta l’illuminazione a gas, che al municipio riuscì portare a compimento solo assai tardi con una società inglese, rappresentata dall’ingegnere James Shepherd. La prima linea d’illuminazione fu limitata alla strada detta Papale, alle piazze del Gesù e di Venezia e al Corso. I lavori vennero condotti innanzi alacremente, e fu disposto che l’inaugurazione sarebbe avvenuta nella notte di Natale del 1853.

Si voleva fare una sorpresa al Papa, che usciva per recarsi a Santa Maria Maggiore, ma il giorno 23 pervenne all’ispettore della illuminazione, Paolo Volpicelli, la seguente nota del segretario generale Vannutelli:

Il sottoscritto segretario di commessa di S. E. il sig. Conservatore ff. di Senatore si affretta di prevenirla, che in forza di superiori disposizioni non debba aver luogo nella notte di domani la ripromessa illuminazione a gaz e per conseguenza non vi sarà che quella consueta ad olio, e le solite fiaccole lungo lo stradale, che sarà per percorrere la Santità di Nostro Signore.

Non si seppe la causa per cui l’illuminazione fu rimandata a pochi giorni dopo. La cerimonia fu così descritta dal Giornale di Roma:

Alcune tra le principali vie di Roma ieri sera alle 7 cominciarono tutto ad un tratto ad essere illuminate a gaz. E la luce che usciva dal becco di ogni lampione era sì viva e chiara, che intieramente ecclissava quella che mandano i lampioni ad olio adoperati finora. Una grande moltitudine di gente di ogni condizione aggirossi fino ad ora avanzata per strada Papale, per piazza di Venezia, e per le vie del Corso e del Gesù, onde godere di sì bello e di sì grato spettacolo.

Il municipio romano con la illuminazione a gaz ha reso un grande beneficio alla città, onde grande encomio gli è dovuto, e non minore riconoscenza.

Erano stati presi provvedimenti di sicurezza nell’ipotesi che il Papa fosse uscito; e benchè facesse freddo, i romani s’indugiarono fino a notte avanzata a godersi il luminoso spettacolo. Il Papa ricevette il giorno 14 gennaio il signor Shepherd, e lo festeggiò della riuscita. Le società delle due illuminazioni a gaz [p. 64 modifica]e ad olio si fusero, e a capo di esse venne chiamato il marchese Sacripante col grado d’ispettore generale, e come sopraintendente della illuminazione a gas, col titolo curioso d’ispettore fisico, il Volpicelli, ch’era insegnante di fisica alla Sapienza. Fu fatto un nuovo regolamento e mutate le tavole lunari: la prima per l’illuminazione intera in tutta la notte, non valutando mai il lume di luna; la seconda per l’illuminazione parziale con luna scoperta e cielo sereno; e la terza, quando la luna fosse coperta da nuvole o da nebbie. Gli accenditori avevano mezz’ora di tempo per accendere i rispettivi fanali dall’ora indicata nella colonna di accensione. Nel forte inverno, per esempio, si accendevano i lampioni alle 5 1/2, pomeridiane, e si spegnevano alle 6 1/2, del mattino, quantunque a quell’ora, nel dicembre e nel gennaio, non fosse ancora giorno chiaro. E quando vi era la luna, l’accensione avea luogo dalle 3 1/2, dopo la mezzanotte fino alle 7, nell’inverno; e nell’estate, dalle 8 3/4, fino a mezzanotte. L’illuminazione a gas si estese lentamente, e nel 1869, come risulta dal bilancio di allora, il municipio spendeva, anche per quella a olio, lire 213,772, oltre a lire duemila per gli orologi in piazza Colonna, cioè quasi il doppio di quanto era fissato nel bilancio del 1850, pur seguitando la città ad essere buia, come io la vidi nel 1867, e la rividi la sera del 22 settembre 1870. Oggi si spende, tra gas e luce elettrica, la cospicua cifra di lire 1,196,358, divisa così: per il gas lire 821,769.87; per l’elettricità 225,016.27; per il petrolio 109,572.40, non tenendo conto del consumo privato del gas che allora quasi non esisteva. E non ostante che l’illuminazione neanche ora risponda alle esigenze moderne, giova ricordare che così modeste erano in que’ tempi le civili aspirazioni, che di tanto buio nessuno muoveva lamento.


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La città era divisa in quattordici rioni e quattro regioni, con un presidente regionario ciascuna, reclutato tra i cadetti di famiglie nobili. Benchè non facesse nulla, veniva retribuito con cento scudi al mese. Non era raro il caso, che da quel posto si ascendesse ad uffici più alti, come avvenne al marchese Serlupi, che da presidente regionario fu promosso cavallerizzo maggiore, ed [p. 65 modifica]a don Pio Capranica, che divenne assessore di polizia. Furono anche presidenti di regione in quegli anni Ferdinando de’ Cinque, Giovanni Chigi, il conte Giuseppe Malatesta, che vi stette sino a quando non contrasse a Parigi un matrimonio di capriccio, che lo mise in guerra con la sua famiglia; il conte Castore di Marsciano, il quale, per la perdita di sua moglie, che era una marchesina Longhi, nipote di don Michelangelo Caetani, si fece prete in età adulta, e divenne prelato. Salvo compromissioni politiche, la carica era a vita; e non essendovi stato civile, nè leva, gli uffici regionari erano una gioconda sinecura, e i presidenti vi capitavano in qualche ora del giorno, svogliatamente, per comporre delle contravvenzioni. Dovevano i presidenti regionari funzionare anche da giudici di pace, e tenere gli occhi aperti nelle richieste di passaporti, i quali erano rilasciati da monsignor governatore, se per l’interno, e dal segretario di Stato, se per l’estero. Per ottenerli, insieme ad una lunga procedura, occorreva l’assenso del parroco. Ed era questo, specialmente, che determinava il rilascio od il rifiuto, poco o nulla solendosi attendere alle informazioni degli uffici regionari.


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Il primo sovrano straniero venuto in Roma, dopo la restaurazione, fu il granduca di Oldemburgo, che intervenne la sera del 29 gennaio 1851 al gran ballo, dato dal principe e dalla principessa Massimo, nella grande sala del loro palazzo, dove sorge la celebre statua greca del Discobolo. Nell’aprile 1852 giunse la principessa Amalia di Sassonia, alla quale fu offerto un pranzo dal marchese Bargagli. Era figlia del re Giovanni, e sorella della granduchessa ereditaria di Toscana, e della duchessa di Genova. Provenienti da Firenze, arrivarono in maggio i giovani granduchi di Russia, Nicolò e Michele, nipoti dello czar Alessandro II, con numeroso seguito ed accompagnati dal De Bouteneff, ministro di Russia. Presero stanza all’albergo delle Isole Britanniche, in piazza del Popolo, e non più tardi del dì appresso furono ricevuti dal Papa. Nei giorni seguenti, tra lo spettacolo loro offerto della illuminazione del Colosseo, dove ebbero a guida Pietro Ercole Visconti; tra visite ai musei, ai [p. 66 modifica]monumenti ed ai maggiori tempii, tra i quali San Paolo, dove furono accompagnati dal Poletti; tra una grande rivista militare passata in loro onore alla Farnesina dal generale Gemeau; tra uno splendido ballo, al quale, insieme ad una larga ed eletta parte della cittadinanza, furono invitati dal ministro Bouteneff, e un’amena escursione a Tivoli, e altri svaghi, gli augusti ospiti, giovani, l’uno a venti anni e l’altro a diciannove, non ebbero un istante di pace. Andarono anche a Frascati, dove visitarono il museo di villa Campana. La sera del 9, dopo aver preso commiato dal Papa e dal cardinale Antonelli, partirono per Napoli. Più di ogni altra cosa portarono gradita memoria dell’illuminazione a bengala del Colosseo e del Fôro, e di una succulenta colazione data in loro onore da monsignor Lucidi nella segreteria della Fabbrica di San Pietro il giorno che ascesero la cupola.

Sotto il nome di conte di Augusta, il 5 aprile 1851 giunse il re Luigi Massimiliano di Baviera, e alloggiò alla villa Malta, ma ricevette nell’appartamento del conte Spaur, suo ministro. Visitò subito il Papa, che gli ricambiò la visita; e invitato dal duca di Poli, andò a passare una giornata a Frascati. Le più belle signore e signorine romane, in costume di ciociare, ballarono il saltarello in onore di lui, e tra esse, emerse per grazia e per beltà la padrona di casa, donna Teresa, con la quale il Re, poche sere dopo, ballò la prima quadriglia nella festa offertagli dal principe Alessandro Torlonia, al palazzo di Scossacavalli. Re Massimiliano non rinunziò ad una sola delle grandi attrattive di Roma religiosa e pagana; tra l’altre, assistette ai miserere del Baini e dell’Allegri, a tutte le funzioni della settimana santa, alla benedizione di Pasqua, che in quell’anno cadde il 13 aprile, all’illuminazione della cupola, all’incendio della girandola al Pincio, e ad una nuova festa, che gli zelanti vollero celebrare con illuminazioni e Te Deum il 12 aprile 1851, in ricorrenza del primo anniversario del ritorno del Papa.


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Senz’alcuna cerimonia o pubblico avviso, quasi misteriosamente, nelle ore pomeridiane del 22 agosto 1851, fu scoperto in San Lorenzo in Damaso, alla presenza di poche persone, il [p. 67 modifica]commovente cenotafio, che alla memoria di Pellegrino Rossi fece alzare di sua iniziativa Pio IX, a pochi passi dal luogo dove l’infelice ministro cadde assassinato. Il cenotafio, semplice quanto pieno di sentimento, si vede, non senza commozione, sotto la navata destra del tempio. Il busto, somigliantissimo, fu opera del Tenerani, amico e concittadino del Rossi. Nella parte superiore si legge: optimam causam mihi tuendam assumpsi miseribut Deus; e in basso: quieti et cineribus Peregrini Rossi, Com. domo Carraria, qui ab îinternis negotiis Pii IX P. M. impiorum consilio meditata caede occubuit- XVII Kal. dec. MDCCCXLVIII - aet. ann. LXI. M.IV. D. XII. Erano quelli i giorni nei quali ferveva l’opera della giustizia per il processo contro l’uccisore e i complici, processo che, ad onor del vero, non fu cominciato a svolgersi sul serio, che con la restaurazione, come è dimostrato nel recente e interessante libro del Giovagnoli. Nei pochi mesi di sua burrascosa vita, il governo della repubblica nulla aveva fatto per scoprire gli autori della tragica scena, pur non essendo essi coperti dal velo del mistero, anzi non mancando persino chi dell’opera di sangue si facesse merito. Il processo si chiuse nel 1853 con la condanna a morte di due dei complici, il Randoni e il Costantini, de’ quali, questi solamente cadde sul palco, mentre l’altro si suicidò nelle carceri di San Michele. È noto poi che l’autore principale Luigi Brunetti, figlio di Ciceruacchio, era stato già fucilato con suo padre dagli austriaci. Non dirò altro di quel processo, dopo l’accurata opera del Giovagnoli, che spero veder compiuta con la pubblicazione del secondo volume, ma non voglio tacere un mio ricordo personale. A Fossato di Vico conobbi, alcuni anni or sono, un superstite dei condannati a pene minori. Si chiamava Innocenzo Zeppacore e da giovane aveva fatto il pescivendolo. Era un vecchio dallo sguardo sinistro, butterato dal vaiuolo, e portava costantemente una cravatta di lana rossa. Aveva coperte le sudicie pareti di un piccolo caffè, che eserciva presso quella stazione, di brutte oleografie, rappresentanti i più celebri delinquenti politici. Lo Zeppacore, da me interrogato, asseriva di essere innocente, aggiungendo che il giorno dell’assassinio era andato con alcuni compagni, per divertirsi, a Frascati, e che solo tornando la sera a Roma, avevano appreso la morte del Rossi. Nessuna confidenza mi riuscì di [p. 68 modifica]ottenerne, ma non è però inverosimile, che l’alibi fosse soltanto fantastico e ch’egli avesse invece rivelata la congiura, con promessa d’impunità, che non gli fu mantenuta. Lo Zeppacore riproduceva il tipo di quei vecchi e tristi settari, romaneschi e romagnoli, non loquaci che nella bestemmia contro la divinità, nell’odio ai preti, e nella irriverenza alla religione; falsi nei loro rapporti sociali; pieni di unzione, anzi adulatori e servili nel bisogno, e sempre pronti a far la festa ad un uomo per comando di setta, o per compiacere agli amici. Per essi la libertà non era rappresentata che dall’odio per ogni governo costituito, e dall’esercizio del più sboccato turpiloquio; non avevano paura che della forza soldatesca, sicuri, alla men peggio, che i compagni non avrebbero parlato. Lo Zeppacore è morto da pochi anni.


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Fu quell’anno 1851 memorabile per il numero dei forestieri e gli strani fenomeni meteorologici. Vennero rimesse in onore le funzioni della settimana santa, non solo in San Pietro, ma nelle altre basiliche e chiese, e fu ripristinata la popolare girandola al Pincio. L’inverno era stato rigidissimo, e il 28 luglio si ebbe una paurosa eclissi solare, di cui il padre Secchi dette conto in una interessante relazione. In essa si leggeva: «in quanto agli effetti sugli animali, non era tanta l’oscurità da produrre cose straordinarie, ma pure molti piccoli uccelli furono veduti rifugiarsi sotto i tetti, senza dubbio per l’impressione prodotta in loro dalla diminuzione di luce, ch’è analoga a quella che si ha all’apparire di un temporale». Oltre all’eclissi, furono frequenti i bolidi, le aurore boreali, e nella giornata del 19 settembre le vicende atmosferiche non potevano essere più straordinarie. Dalla mattina alla sera imperversò una serie non interrotta di temporali; ed a mezzodi il cielo si fe’ buio che pareva notte, tanto che furon dovuti accendere i lumi. La pioggia torrenziale, alternata da scariche elettriche fortissime e paurose, segnò all’osservatorio del Collegio romano non meno di quattro pollici e 0.82 linee: misura alla quale non sì era mai saliti. Ed anche il novembre fu stranamente piovoso, tanto da esserne, nei punti più bassi, inondate la città e la [p. 69 modifica]campagna, con molto disgrazie. Ma quell’anno si chiuse con una graziosa novità, quella di sostituire alle visite di capodanno piccole offerte di trenta baiocchi ciascuna, in favore degli asili d’infanzia. Di questi asili, a cura di una società costituitasi fin dal 1847, n’eran sorti tre, destinati solo ai maschi, nei rioni Monti, Regola e Trastevere, e furono appellati cristiani, per escluderne gli israeliti. Or, nel fine di accrescere il numero di quei pietosi ricoveri, si pensò d’invocare con quel mezzo il concorso della pubblica carità. Nè questa fu sorda all’appello, perchè le tenui offerte piovute indistintamente da nobili e borghesi, ecclesiastici e laici, cristiani e israeliti, fruttarono in quel primo anno poco meno di un migliaio di lire.


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Il primo dei matrimoni mondani, dopo il ritorno del Papa, fu quello celebrato il 21 aprile del 1852 tra il principe Giovannelli di Venezia, giovane a ventinove anni dalla fluente barba nera, e donna Maria Chigi, appena sedicenne, una delle cinque bellissime figlie del principe Sigismondo Chigi, delle quali la maggiore aveva sposato, due anni prima, Giulio Torlonia, duca di Poli. I Giovannelli erano patrizi di Venezia, magnati di Ungheria e ciambellani d’Austria. Il matrimonio però, per quanto sorriso dalla gioventù, dalla ricchezza e dalla nobiltà, fu sterile, e il dovizioso patrimonio del principe, morto nel 1886 senatore del regno d’Italia, fu raccolto da alcuni parenti di Francia. Le altre sorelle di donna Maria sposarono, qualche anno dopo, una, il conte Giuseppe Macchi; la seconda, il conte Bonaccorsi, e una terza, il marchese di Bagno. La prima a morire fu la Macchi, il cui marito sposò in seconde nozze, pochi anni dopo, un altro fior di bellezza, Giulia Capranica, assumendo il titolo di conte di Cellere. Della Giovannelli conservo un’incantevole fotografia, che la riproduce velata. Strano capriccio dell’avvenente signora.