Rime di Vittorio Alfieri scelte e commentate (1912)/Prefazione

Rosolino Guastalla

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PREFAZIONE



Fu l’A. veramente un grande poeta tragico? Fu egli, oltre un solerte, instancabile animorum dormitantium excubitor, uno di coloro che appartengono alla schiera, anzi al manipolo, dei geni creatori, Eschilo, Sofocle, Euripide, Guglielmo Shakespeare? A queste domande, che potranno sembrare strane ed oziose, proprio alla prima pagina di un libro ove si raccoglie e si illustra gran parte della produzione poetica alfieriana non tragica, ma che è pur necessario rivolgerci per la ragione che or ora vedremo, io credo debba rispondersi in modo assolutamente negativo: tanto è vero che non uno dei personaggi creati dall’A. è divenuto popolare, non uno è divenuto antonomastico di una determinata passione, come Medea della gelosia femminile, Cordelia dell’amor filiale, Amleto del profondo e immedicabile dolore. Perché ciò? La ragione è probabilmente questa: il poeta tragico, se vuole assurgere a grandi altezze, se vuole vivere la vita dei secoli, deve dimenticare se stesso, scendere nel cupo abisso delle anime altrui, carpirne i segreti, rivelarli agli uomini: l’A., invece, rappresentò, il piú delle volte, se medesimo e, sia Bruto che anima il popolo romano alla libertà, sia Virginio, che sottrae la figlia alle insidie di Appio Claudio, sia Agide, sia Timoleone, sia Carlo di Spagna, è pur sempre l’A. con le sue idealità politiche, varie nei particolari in diversi momenti della sua vita, ma pur sempre lui; e di fronte a lui, un altro personaggio che rappresenta il suo antagonista e che [p. vi modifica] è, diremmo, un altro Alfieri, ma negativo: Appio Claudio, Filippo, Creonte, Cresfonte.

Un poeta che sente tanto la propria personalità da non saperla o non volerla dimenticare mai, neppure quando scrive tragedie, che crea i suoi personaggi non volgendo gli occhi al mondo esteriore, ma, soprattutto, esplorando l’anima propria, che, se piange, piange le proprie lacrime, se freme, freme dei propri fremiti, può riuscire, quando la Natura lo abbia fornito di quella acuta intelligenza e di quella straordinaria sensibilità ond’era dotato l’A., eccellente nel genere lirico. E tale a me pare sia riuscito il nostro Poeta; cosí grande, anzi, che da moltissimo tempo non se n’era veduto l’eguale. E la grandezza gli deriva in primo luogo dall’avere associati nelle sue rime, con indissolubile legame, tre diversi e disparati elementi: l’amore della Libertà, l’amore per la Donna, l’amore per l’Arte. Ciascuno dei quali riceve alimento dagli altri e agli altri lo porge: cosí, se il Poeta fissa gli occhi della sua donna,

negri, vivaci, in dolce fuoco ardenti,

se ne riceve un sorriso, se gliene giunge una lettera, ecco si sente stimolato a compiere quelle opere che gli daranno, forse, la fama, alla quale costantemente anela, quelle opere a cui dovranno ispirarsi gli Italiani quando si sentiranno invasi da sacro e infrenabile amore per la libertà: è necessario percorrere a ritroso il cammino dei secoli e giungere sino a Dante, del quale l’A., con legittimo orgoglio, si stimava non ignobile discepolo, per trovare stretti in una cosí omogenea unità l’uomo, il cittadino, l’artista.

E nessuno, dall’Alighieri in poi, che, non riuscendo a trovare la libertà nel mondo, la cercò per i regni della morta gente, nessuno ne andò in traccia per sé né si studiò di suscitarne in altri il desiderio cosí costantemente e cosí ardentemente come l’A., che, piú di tutto, ringraziava Dio di essere stato posto in tale condizione da non aver mai avuto bisogno di impiego alcuno per vivere, ove avrebbe dovuto curvare la schiena e rinunciare, in [p. vii modifica] parte almeno, alla sua volontà; che, pur di pensare a modo suo, e di non dover tarpare le ale al proprio ingegno, lasciava alla sorella gran parte del suo patrimonio, e andava là dove lo chiamavano con voci possenti la Gloria e l’Amore. Nessuno, da Dante in poi, aveva fronteggiato cosí audacemente le parti come l’A. e nessuno sfolgorò mai con piú tremende parole delle sue coloro che, spacciandosi per araldi di libertà e di eguaglianza, portavano all’Italia — a giudicare dagli effetti immediati — nuove catene e una tirannia, se non peggiore, almeno uguale a quella che sino allora aveva funestata la patria nostra.

C’è nel pensiero dell’A. una specie di discontinuità; può sembrare a prima vista una contraddizione nei termini aver cantata, ad esempio, la distruzione della Bastiglia e aver detto con parole, che ne ricordano altre del Göthe:

Ahi memorabil giorno!
Atroce, è ver, ma il fin di tutte ambasce:
Di libertade adorno
Fia questo il dí che vera Francia nasce;

e aver rovesciato poi contro i rivoluzionari francesi quante parole contumeliose conteneva il vocabolario italiano, e, non essendogli quelle piú sufficienti o non parendogli abbastanza espressive, averne create persin delle nuove, ricorrendo a lingue straniere; può sembrare in contraddizione con se stesso - e nelle mie note l’ho fatto osservare - chi, dopo aver scritto contro la Chiesa cattolica in genere, e contro l’infallibilità del Pontefice, contro la confessione, contro il celibato dei preti in particolare quello che ognuno può leggere nel libro della Tirannide, vi dice: «La Chiesa cattolica soltanto possiede la chiave della verità, il talismano della felicità degli uomini e, se qualche piccolo errore può imputarlesi, potrà facilmente correggersi»; può sembrare in aperto e inconciliabile contrasto con se medesimo chi, dopo essersi nutrito del Rousseau, del Voltaire, dell’Helvetius, non solo rinnega i propri maestri, ma scaglia contro essi il velenoso quadrello delle [p. viii modifica]terzine che compongono L’Antireligioneria e la Filantropineria; ma la contraddizione o è solo apparente o assai men grave di quello che, sul momento, possa sembrare. Poiché lo stesso amore della libertà ispira il cantore di Parigi sbastigliata e l’autore del Misogallo e delle satire: prima, egli reclama la libertà per chi la pensa diversamente dai dominatori e non per questo deve essere perseguitato e colpito: poi, all’avanzarsi della marèa rivoluzionaria, reclama la stessa libertà per chi, pur rappresentando l’antico ordine di cose, ha diritto alla conservazione della propria esistenza e corre pericolo, invece, di essere travolto e sommerso.

Pochi uomini sentirono, quanto l’A., con l’amore della libertà, la dignità dell’arte che professarono. È universalmente noto quell’episodio narrato al capitolo ottavo dell’epoca III dell’Autobiografia e ripetuto, con minore vivacità, nella seconda parte della satira I viaggi: l’A. si trovava, ventenne appena, a Scoenbrunn, e avrebbe avuto desiderio di conoscere il grande Metastasio, le cui ariette erano sulle bocche di tutti; ma, quando lo vide nel giardino, genuflesso dinanzi alla Imperatrice, gliene prese tale ribrezzo, che volse le spalle né volle piú saperne di lui. L’episodio, come ho detto, è dei piú noti, ma può avere un valore simbolico sino ad oggi, forse, non traveduto: non vi sembra che il Metastasio e l’A., uno vecchio e inginocchiato, sorridendo, dinanzi a Maria Teresa, l’altro giovane, in piedi, fremente per lo sdegno, rappresentino l’Italia e l’arte sua qual’era stata sino al sec. xviii, umile, avvilita dinanzi al potere, inconscia quasi della propria abiezione, e l’Italia e l’arte italiana quali l’A. le volle e le seppe in gran parte creare? Prossimo ad abbandonare la cetra, perché vicino a compiere quei cinquant’anni, raggiunti i quali, aveva stabilito di dare un addio alle Muse, prima che queste lo dessero a lui, l’A. ripercorreva mentalmente tutta la vasta e organica opera sua, e si compiaceva di non avere scritta una sola parola non ispirata all’amore della verità, sicché, concludeva, se le età future [p. ix modifica] non mi potranno chiamare cigno, perché al mio verso troppo spesso mancò la dolcezza, almeno mi chiameranno colomba per la sincerità e la nobiltà degli intenti. Sotto questo aspetto può dirsi che l’A., il quale delineò nel libro intitolato Del Principe e delle lettere il perfetto scrittore, non contaminato e costretto a contaminare l’arte sua con la protezione dei potenti, non pavido dinanzi alla verità da rivelarsi agli uomini per non cadere nell’ira di chi gli getta il pane e lo colma di onori, volle poi darne in se stesso il piú nobile esempio.

Inesauribile sorgente di poesia è per l’A. l’amore per la sua donna. Oh, non è questa la Fillide, la Licori, l’Amarillide cresciuta fra gli alberi bene allineati del Bosco Parrasio! Per buona sorte, sebbene gli Arcadi lo avessero iscritto tra i loro, Vittorio Alfieri non fu mai Filacrio Eratrastico e, se cantò d’amore, fu sempre l’uomo, il Poeta dal cuore maschio e gagliardo. Nulla, o quasi nulla, di svenevole in cento e cento sonetti che egli indirizza alla sua donna, nessuna leziosaggine nelle tante espressioni d’amore ch’egli le scrive; il suo è un amore sano, non cresciuto all’ombra insidiosa dei salotti, o, almeno, restatovi per assai breve tempo: il suo amore si è nutrito e irrobustito durante le pazze corse a cavallo traverso alla campagna romana, o nella solitudine delle foreste germaniche o nella appassionata e tumultuosa ammirazione delle gesta compiute da coloro che nelle pagine di Plutarco vivono di vita immortale. Piange, sí, spesse volte l’A., se è lontano dalla sua donna, ma il suo non è il pianto del pastore vittorelliano che chiede alle amiche piante se tornerà o no la sua donna: l’A. piange come un’anima forte, temprata a dure battaglie, che anela alla presenza dell’unica persona a cui si compiace e si degna di aprire il suo cuore, di confidare i suoi sogni, di leggere ciò che ha scritto, e dalla quale attende la parola di lode o il severo giudizio. Della vera Contessa d’Albany nel canzoniere alfieriano ce n’è ben poca, - guai se l’A. ce l’avesse rappresentata quale realmente essa fu! - Si può anzi dire che, come ella [p. x modifica] vi è raffigurata, è un’astrazione piú che una vera persona, è l’essere fornito di ogni virtú, ricco di ogni pregio, che ci richiama alla donna evanescente e incorporea dei poeti del dolce stil nuovo, aggiuntivi molti colori che l’A. trae dalla tavolozza di F. Petrarca. E questa specie di transumanazione avviene non già perché l’A. abbia voluto di proposito falsare o tacere la verità, sí per quella stessa tendenza all’idealizzare – tanto piú pronunciata nel Canzoniere che è opera di poesia – per cui l’A. fu talvolta inconsciamente tratto a deviare dalla verità anche nell’Autobiografia: ivi, egli finí col darci quasi il profilo del perfetto cittadino e del perfetto scrittore; qui, l’Albany è levata a simbolo della donna a cui non manca veruna dote né del cuore né della intelligenza perché il Poeta le possa chiedere ispirazione e consiglio.

Ma, del resto, la figura della Contessa non è la più importante del Canzoniere: l’A. lo invade quasi tutto con la sua persona, e sopra di lui si riverbera, in gran parte, la luce della sua poesia. Dal 1777 in poi egli vi si descrive ora per ora in cento maniere diverse: animato dall’Amore e dalla speranza della Gloria, scoraggito perché gli sembra, dopo tanto lavoro, di non aver fatto nulla e che il suo nome non possa resistere alla innumerevole serie degli anni: ora ritorna col pensiero a’ suoi amori e si duole di aver offerto il proprio cuore a chi non erane degno, mentre gli sembra che solo la Contessa possa essere la vera sua donna: qua, avvicinandosi al luogo dov’ella è, sente quasi

spirar l’ambrosia, indizio del suo nume;

altrove, in divoto pellegrinaggio alla tomba del gran padre Alighieri, gli chiede che debba fare contro i suoi numerosi e codardi nemici, e, visitata la camera ove il Petrarca morí, lamenta che gli Italiani la lascino in isquallido oblio. È insomma nel Canzoniere tutto l’A. sdegnoso, iracondo, insofferente di giogo, geloso e superbo di tutto ciò che è bello in Italia “dall’idioma gentil, [p. xi modifica]sonante e puro„ alle Corse del Pallio di Siena e alla Battaglia del Ponte di Pisa.

Il Bertana dice, con molta verità,1 che c’è nelle Rime dell’A., pur sotto al consueto procedimento d’idealizzazione, a cui accennavo più sopra, una realtà soggettiva ed una oggettiva; c’è infatti una realtà soggettiva, in quanto egli non si descrive che in quegli istati nei quali realmente ebbe a trovarsi e che vengono quasi tutti riconfermati dall’Autobiografia e, talvolta, anche dall’epistolario; c’è una realtà oggettiva, perché le orride selve atre d’abeti, la bella arte – fatta selva, il piú sublime giogo delle Alpi, la spiaggia solitaria del mare, sono luoghi che il Poeta vide e abitò e che veramente suscitarono in lui quella determinata impressione. Ma, per il modo come l’A. ordinò le sue rime nella edizione di Kehl,2 e come furono ordinate le altre, pubblicate dopo la sua morte,3 se io non mi sono ingannato, non tutta si appalesa quella realtà cosí soggettiva come oggettiva. In primo luogo, né le rime dell’A., nella edizione di Kehl né le altre edite a Londra, sono disposte per ordine cronologico; secondamente, avviene che molte volte noi ci chiediamo, leggendole, a quale luogo, a quale particolare circostanza, intenda precisamente riferirsi il Poeta. Per venire in chiaro di tutto, per ricostruire logicamente la vita dell’A. quale ci è tratteggiata nelle sue Rime, era necessario ricorrere al tredicesimo manoscritto [p. xii modifica] dell’A. conservato alla Biblioteca mediceo-laurenziana, e far tesoro di quelle annotazioni che accompagnano presso che tutti i suoi componimenti.

Cosí ho fatto; e che la nuova disposizion delle rime alfieriane giovi a meglio comprenderle e, quindi, a meglio gustarle, mi pare non possa venir posto in dubbio da alcuno: resta a vedere se il commento parrà ai colleghi o troppo abbondante o troppo scarso. Nel primo caso direi: «Nulla di male: nel piú sta il meno»; nel secondo: «Ebbene, ciò non mi dispiace: non tutto tutto deve spiegare il commentatore; l’opera sua deve essere integrata, in primo luogo, dall’insegnante, poi, dal discepolo».

Rosolino Guastalla.

Lucca, il 16 di giugno del 1912.


Note

  1. Vittorio Alfieri studiato nella vita, nel pensiero e nell’arte, Torino, Loescher, 1902, pag. 501.
  2. Rime | di | Vittorio Alfieri | da Asti | Dalla Tipografia di Kehl | co’ caratteri di Baskerville | MDCCLXXXIX. | Nella nostra edizione abbiamo messo fra parentesi quadra il numero d’ordine dei vari componimenti nella stampa di Kehl, e a ciascuno di essi abbiamo aggiunta l’intitolazione.
  3. Rime | di | Vittorio Alfieri | da Asti | Londra | MDCCCIV |. Per le Odi sull’America libera ho seguito l’edizione di Kehl, 1787-88; per l’Ode su Parigi sbastigliato mi son valso della edizione pure di Kehl del 1789, dov’essa apparve col Panegirico di Plinio a Traiano; per il Misogallo, Le Satire, gli Epigrammi ho fatto tesoro dell’ottima edizione dataci dal Renier (Firenze, Sansoni, 1884); per l’Etruria vendicata infine, della edizione segnata Italia, MDCCCV.