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PREFAZIONE



Fu l’A. veramente un grande poeta tragico? Fu egli, oltre un solerte, instancabile animorum dormitantium excubitor, uno di coloro che appartengono alla schiera, anzi al manipolo, dei geni creatori, Eschilo, Sofocle, Euripide, Guglielmo Shakespeare? A queste domande, che potranno sembrare strane ed oziose, proprio alla prima pagina di un libro ove si raccoglie e si illustra gran parte della produzione poetica alfieriana non tragica, ma che è pur necessario rivolgerci per la ragione che or ora vedremo, io credo debba rispondersi in modo assolutamente negativo: tanto è vero che non uno dei personaggi creati dall’A. è divenuto popolare, non uno è divenuto antonomastico di una determinata passione, come Medea della gelosia femminile, Cordelia dell’amor filiale, Amleto del profondo e immedicabile dolore. Perché ciò? La ragione è probabilmente questa: il poeta tragico, se vuole assurgere a grandi altezze, se vuole vivere la vita dei secoli, deve dimenticare se stesso, scendere nel cupo abisso delle anime altrui, carpirne i segreti, rivelarli agli uomini: l’A., invece, rappresentò, il piú delle volte, se medesimo e, sia Bruto che anima il popolo romano alla libertà, sia Virginio, che sottrae la figlia alle insidie di Appio Claudio, sia Agide, sia Timoleone, sia Carlo di Spagna, è pur sempre l’A. con le sue idealità politiche, varie nei particolari in diversi momenti della sua vita, ma pur sempre lui; e di fronte a lui, un altro personaggio che rappresenta il suo antagonista e che