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Anacreontiche - Anacreontica 18 Endecasillabo 1

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I MACCHERONI


poemetto giocoso.



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Chi Pulcinella sia bizzarro e lepido
     Da quel gran naso, e da la gobba gemina,
     A i motti pronto, e ne le zuffe intrepido
     Per me vel dica l’oziosa femina,
     Che ne l’inverno al focherello tepido
     Baje racconta, e filastrocche semina,
     Girando il naspo, o dispiccando il bioccolo
     Giù dal pennecchio fin che dura il moccolo.

* * *


Io narrerò la sconosciuta origine
     De la famosa pasta Maccheronica,
     Togliendola al silenzio, e a la rubigine
     Per celebrarla su la cetra armonica.
     Esci da i regni pieni di caligine
     A rallegrar la gente malinconica,
     O padre Berni, e la tua lira imprestami,
     E le dolci tue grazie in petto destami.

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Quel crudo garzoncel, figlio di Venere,
     Più di qualunque dio strano e bisbetico,
     Che la Frigia città ridusse in cenere,
     E feo Giove mugghiar sul lido Cretico,
     A Pulcinella offrì, due guance tenere,
     Ed un soave risolin patetico;
     Vo’ dir Simona, che in quel dì medesimo
     Compiva il rugiadoso April centesimo.

* * *


Quest’idoletto risplendea senz’emolo,
     Come suol fra le mosche estiva lucciola:
     Tal che ad un guardo lusinghiero e tremolo
     L’innamorato Pulcinella sdrucciola.
     I colori de l’alga, e del prezzemolo
     Tingeano a guazzo la Ninfetta cucciola.
     Ma chi potrebbe sì leggiadra immagine
     Descriver pienamente in brevi pagine?

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Grossa è la testa, e l’occhiolino vivido
     Gocciola sempre, come fa la pevera,
     Sempre lambicca, e d’un fiumetto livido
     Gl’incancheriti ganascioni abbevera.
     Patisce il mento, e il naso un certo brivido,
     Che insieme or li congiunge, ed or gli scevera;
     E al labbro penzolon tramanda l’ugola
     Di fresco timo una odorata nugola.

* * *


Già l’ama Pulcinella senza termini,
     Nè ride più, nè più motteggia, o frottola:
     Già sente il mal di capo, il mal de’ vermini,
     E va girando come una pallottola.
     Spesse fiate avvien ch’ ei si determini
     Di gire a la sua vaga bamberottola:
     Parlar vorriale, nè sa come diavolo
     Presentarsi a la Bella, e resta un cavolo.

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Ma superato quel crudele ostacolo,
     Rompiamo, disse, omai lo scilinguagnolo:
     Amor m’assisterà con un miracolo,
     Amor che non è certo un pizzicagnolo.
     Vedrò l’amato Bene, e s’io non placolo,
     Queste luci sciogliendo in un rigagnolo,
     Più disumano core, e cor più rigido
     Non ha Boote procelloso e frigido.

* * *


Giunto a la porta del fatal ricovero
     Tutto quanto si agghiaccia, ed informicola:
     Batte pian piano a l’usciolin di rovero,
     E lagrimando queste voci articola:
     O amabile fanciulla, io sono un povero,
     Che mezzo brustolata ha la cuticola:
     Amore, Amor, nè vi dirò pantraccola,
     Tutto ardendo mi va con la sua fiaccola.

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Sin dal momento, che le più benevole
     Stelle di vagheggiarvi mi permisero,
     Quel dolce brio, quel volto lusinghevole,
     E que’ ritondi occhietti ahi! mi conquisero.
     Dunque, se voi non siete irragionevole,
     Movetevi a pietà d’un cor sì misero....
     Qui si raggricchia a guisa delle chiocciole,
     E tutto bagna il sen di calde gocciole.

* * *


A quel gemito amaro, a quell’angoscia
     Simona vergognosa e pusillanima
     Sente ferita la sinistra coscia
     Da l’amoroso strale, e si disanima.
     Manda fuor due singhiozzi, e grida poscia:
     Qual affanno crudel mi turba l’anima!
     Pulcinella, son tua: per lo riverbero
     De’ fulgidi occhi miei lo giuro a Cerbero.

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E, sì dicendo, gentilmente spruzzola
     Tutta la faccia di soave mucchero
     Al bel Pulcinellin, che ringalluzzola,
     E quasi affoga dentro a un mar di zucchero.
     Non è tanto odorosa una meluzzola,
     Nè così grato fuma il Thé nel bucchero,
     Come quei labbri allor che si dimenano,
     E non parlano già, ma cantilenano.

* * *


I teneri colloquii assai durarono
     Fra il casto amante, e la donzella nubile,
     In sin che mano a mano essi accoppiarono,
     E strinsero il legame indissolubile.
     Parenti, e amici se ne rallegrarono;
     E par massimamente che ne giubile
     Ogni poeta, che per queste zacchere
     Strimpella il colascion, batte le nacchere.

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Ve’ quanti, o Febo, rimatori inconditi
     Per la bella Simona oggi si sfiatano,
     Che ne’ sacri di Pindo antri reconditi,
     E ne l’Aonia valle or si dilatano.
     Cresce la piena ahimè. Febo, nasconditi
     Dietro le foglie di quel verde platano,
     Se udir non vuoi ciocchè la turba indomita
     Dal gorgozzule impuro a l’aure vomita.

* * *


Pulcinella frattanto non dormicchia,
     E, giunto il dì novel, quando le rutile
     Chiome sparge l’aurora, e si sviticchia
     Da i freddi amplessi del consorte inutile,
     Va cercando Pandora, e Farfanicchia,
     Garrule tutte due, che il cielo ajutile,
     Onde invitino a mensa e grandi, e piccioli,
     A una mensa ben d’altro che di ciccioli.

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Seppe l’invito tanta gioja accendere,
     Che tutto quanto il vicinato strepita;
     E corre Fulvia immantinente a prendere
     L’abito giovanil, benché decrepita.
     Già in ciel si vede il mezzodì risplendere,
     E l’orologio annunziator già crepita.
     Quei col robbone, e queste con la ventola
     Escono per mangiare a l’altrui pentola.

* * *


Vansene lesti, ed al balcon si affacciano
     Le donne tutte infino a la bisavola,
     E, giunti a l’uscio, lo sposino abbracciano,
     E il complimento suo ciascuno intavola.
     Per vedere la sposa oltre si cacciano,
     E chi le loda quel bocchin di fravola
     Chi quella dolce guardatura amabile,
     E chi quella bianchezza inenarrabile.

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Ma il bravo Pulcinella con quel frivolo
     Stuolo di scioperoni non si sciopera.
     Farina dal buratto, acqua dal rivolo
     Piglia, e va meditando un capo d’opera.
     Fa un bel pastone in men ch’io non descrivolo,
     Quinci a stenderlo in falde egli si adopera,
     Poscia in tondi cannei le raggomitola,
     E que’ cannelli Maccheroni intitola.

* * *


Così sta scritto ne’ vetusti codici
     Che i Maccheroni un giorno si faceano:
     Ora gli spreme il torchio, e in più di dodici
     Fogge diverse ogni convito beano.
     Puglia, e Liguria vi diran se approdici
     Legno stranier da tutto il vasto Oceano,
     Che, abbandonando le riviere Italiche,
     Con questa merce in sen non lo rivaliche.

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Compiuti adunque, nel laveggio miseli,
     Fin che ben bene gorgogliar si udirono:
     Col traforato ramajuol diviseli
     Finalmente da l’acqua, in cui bollirono.
     Poi di butirro, e di formaggio intriseli,
     Che i Lodigiani armenti ci spedirono:
     E, bramando saper qual lode attenderne,
     Un saggio anticipato ei volle prenderne.

* * *


Mangionne alquanti; e lieto, anzi lietissimo
     Da la cucina uscì, gridando: io recoli:
     Fate largo al pastume odorosissimo,
     E chi lo vuole specolar lo specoli.
     Ognuno balza in piedi, e vogliosissimo
     S’affolla, e guarda, e par che ne trasecoli.
     Giovani, e vecchi al desco si raccolgono,
     E i Maccheroni da le man si tolgono.

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Come stuol di galline o di anitroccoli
     Quando vien la Castalda con l’asciolvere,
     Inteso appena il martellar dei zoccoli,
     Grida, corre, saltella, alza la polvere.
     Chi piglia in becco o foglioline o broccoli,
     E chi dal becco altrui li cerca svolvere:
     Tutti per gioja stranamente impazzano,
     E nel cortile assolatìo svolazzano.

* * *


Gli allegri commensali, senza battere
     Neppure un dente, i Maccheroni ingozzano;
     Non favellano più di certe tattere,
     E tutto il mento di butirro insozzano.
     Quand’ ecco un uom di giovïal carattere,
     Fra quanti begli umori ivi si accozzano,
     Ama il silenzio lietamente rompere,
     E in cotai voci al fin s’ ode prorompere:

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Zughetti, fricassee, torte, pastiglie,
     Distruggitrici in questa età de gli uomini,
     Io vi reputo men de le quisquiglie,
     E fia sempre che v’odii, e che vi abbomini.
     Fumino pur le Galliche stoviglie
     Ne le cucine sol de’ gentiluomini,
     I quai con faccia dimagrata e tisica
     Studian de’ cibi la moderna fisica.

* * *


Vietano bruscamente gl’Ippocratici
     Di cercare le droghe, e di nutrirsene.
     Abbianle i cuochi valorosi e pratici,
     E godan essi usarle, e sbizzarrirsene.
     Via di qua gl’insolenti olii aromatici,
     Che presto fanno a maravalle girsene1.
     Ungano i Maccheroni il nostro esofago
     Nemici de la febbre, e del sarcofago.

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Con un tal cibo, che rallegra gli animi,
     Qual cibo v’è che possa mai competere?
     Dunque tra i più famosi e più magnanimi
     Eroi s’innalzi Pulcinella a l’etere.
     Tacque, ciò detto, e i commensali unanimi
     Fecero plauso, anzi godean ripetere:
     Muojan le droghe, che di vita privano,
     E i Maccheroni eternamente vivano.

Note

  1. Maravalle storpiato contadinescamente da dies magna & amara valde. Vedi la Tancia del Buonarotti Atto primo Scena prima, colle annotazioni del Salvini.