Ragguagli di Parnaso (Farri)/Centuria prima/Ragguaglio V
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RAGGUAGLIO V.
Pietro Crinito dunque fu il primo, che disse, che essendo legge certissima, che tutte le cose, che si veggono sotto la Luna, nascano prima, crescano poi, & invecchiando manchino alla fine, cosa degna di molta ammiratione gli pareva, che la sola Republica Venetiana, con gli anni, ogni giorno più si vedesse ringiovanire, e che quelle leggi, quegli ordini, e quegli ottimi instituti, che negli altri Principati, dopo molto essersi rilassati, andavano alla fine in dimenticanza, solo in Vinegia si vedessero crescere in rigore, in accuratezza, in maggior diligenza, di più stretta osservanza; benefitio quale operava, che nella eccelsa Republica Venetiana non si erano giammai vedute quelle riforme di governo, quei ripigliamenti di stato, che con infiniti tumulti tanto spesso usarono la Republica Romana, e la Fiorentina, essendo proprijssima virtù del Senato Venetiano con la severa osservanza delle sue antiche leggi perpetuarsi nella sua florida libertà; e che in Vinegia non vedendosi quei difetti, che par che non sappiano schivar gli altri Potentati, che le diligenze, anco esquisite, in brieve tempo terminino in quelle supine negligenze, che ad ogni libertà, & à tutti i Prencipati togliono la vita, meritamente gli parea di poter affermare come per cosa certissima, per così fatta prudenza la Republica Venetiana dover esser eterna col mondo sopra la terra.
Appresso disse Angelo Politiano, che, e quello che havea raccontato Pietro Crinito, & altri mille ordini veramente eccellentissimi egli ammirava nella prudentissima Republica Venetiana; ma che rarissima cosa li pareva essere, che una Republica Aristocratica, il vero fondamento della quale dagli scrittori più intendenti delle Republiche era riputata la parità de’ beni tra la Nobiltà, così lungo tempo havesse potuto mantenersi in tanta pace, e grandezza, in quella sproportionata disuguaglianza di ricchezze, che grandissima si vede nella Nobiltà Venetiana, nella quale ancor che si trovino i due tanto pericolosi estremi delle immense facoltadi, e della molta povertà, in Vinegia nondimeno non si vedeva quel difetto, che pareva che con humane leggi non fosse possibile prohibire, che il ricco calpestasse il povero, ilquale ancor che grandemente invidiasse la fortuna de i facoltosi, ò per la sviscerata carità, che in tutta la Nobiltà Venetiana regna verso la pubblica libertà, ò perche le ricchezze, ancorche grandissime, da chi le possiede, verso gl’inferiori non fossero abusate; tanto il povero, quanto il facoltoso in quella felicissima patria con somma modestia si vedevano viver in pace.
Dopo il Politiano, disse Pierio Valeriano, che l’unico miracolo, che altri sommamente doveva ammirare nella Republica Venetiana, era il sito raro, e mirabilissimo, dove ella ha fondata la Metropoli del suo Imperio, dal quale credeva, che i Signori Venetiani immediatamente dovevano riconoscere il benefitio grandissimo dell’augustissima libertà loro, come quello, che perpetuamente gli ha assicurati dalle forze di molti Prencipi stranieri, che hanno tentato di por loro la catena della servitù al piede.
Seguì poi Giuliocesare Scaligero, e disse, che lo stupor grande della libertà Venetiana, quale di meraviglia empiva il mondo tutto, era, che la stessa Nobiltà che governava, non solo con animo patientissimo pagava le gravezze antiche al publico Erario, ma che con prontezza, e facilità incredibile, contro se stessa spesso ne pubblicava delle nuove, lequali rigorosamente erano poi esatte da i pubblici riscuotitori; e che molte volte si era veduto, che i Nobili Venetiani ne gli urgenti bisogni della Republica, prima di aggravar con nuovi datij i popoli loro, havevano posto mano alla borsa propria, & il tutto con tanta liberalità, e prontezza di animo sviscerato verso la publica libertà, che simil attione meritava di esser preposta à tutte le maraviglie, che si notavano nella felicissima libertà Venetiana, come quella, che chiaramente faceva conoscer ad ogn’uno, ch’ella esquisitamente possedeva quella eccellente qualità, che rende le Republiche eterne, di aver la sua Nobiltà tanto svisceratamente innamorata del viver libero, che alla privata utilità allegrissimamente proponeva i pubblici interessi.
Poi disse Bernardo Tasso, ch’egli lungo tempo era dimorato in Vinegia, dove di niuna altra cosa più era rimaso meravigliato, che di veder quei Nobili medesimi, che tanto si compiacevano de’ piaceri, delle delitie, e dell’otio, con tanta virtù di animo governar le cose pubbliche, che altrui sembravano, & huomini di vita molto esemplare, e signori nati alle perpetue fatiche.
Dopo il parere del Tasso, Francesco Berni, come è suo costume, con piacevolezza, che diede gusto alla Serenissima Libertà Venetiana, disse, che la più rara, e mirabil cosa, che gl’ingegni grandi doveano ammirar nella Republica Venetiana era, che non solo le lagune, ma i canali tutti della Città, essendo pieni di granci, i Senatori Venetiani nondimeno ne pigliavano così pochi, che meritamente da tutte le nationi erano stimati il sale della terra.
Seguì poi il Sabellico e disse, che mentre egli scriveva l’historia Venetiana, diligentemente havendo osservati gl’ottimi instituti di così prestante libertà, niuna cosa più ammirava in lei, che il danaro pubblico, anco da i Senatori bisognosi venisse maneggiato con tanta fedeltà, che tra la Nobiltà, non solo eccesso capitale, ma somma infamia fosse riputata, il bruttarsi le mani di un soldo di S. Marco.
Disse appresso Iacopo Sannazzaro, che maravigliosa cosa gli pareva nella Republica Venetiana, che nella Nobiltà trovandosi molti mal proveduti de’ beni di fortuna, questi nondimeno con patienza indicibile si videssero tollerar le miserie private, senza pur ne meno col pensiero, affettar le immense ricchezze pubbliche, con quelle seditiose leggi frumentarie, & agrarie con le quali da’ suoi cittadini tanto fu travagliata la famosa Republica Romana; e che era cosa degna di lode, e di meraviglia grande, veder che in Vinegia il Nobil povero con la sola virtù si sforzava di sollevarsi dalle sue miserie, studiando rendersi meritevole di esser dalla sua patria impiegato ne’ carichi lucrosi, onde accadeva, che la vertù, il valore, e la bontà dell’animo, al Nobil povero, nella Republica Venetiana servivano per molto ricco patrimonio.
Soggiunse poi Giovanni Gioviano Pontano, che tutto quello che era stato detto, erano meraviglie grandi, ma che la maggior cosa, ch’egli sempre nella libertà Venetiana havea ammirata era, che le immense ricchezze che si trovavano in alcuni soggetti Nobili, non operassero quei pernitiosi effetti di far gonfiar di boria, e di superbia quei, che le possedevano, molti de’ quali sempre si erano veduti nelle altre Republiche; che però instituto rarissimo era, che in Vinegia quei Senatori, che haveano ricchezze da Prencipe, in casa poi sapessero viver da privati Cittadini, e nelle piazze in niuna cosa fossero differenti, da i più poveri, e che solo i Venetiani haveano saputo trovar il vero modo da separar dalle molte ricchezze quei mali dell’ambitione, della superbia, e del seguito de i Cittadini poveri, che la famosa libertà romana non seppe, o non potè prohibir in Cesare, in Pompeo, & in molti altri Senatori facoltosi.
Fornito che hebbe il Pontano il suo ragionamento, disse il Commendator Annibal Caro, che sopra ogni altra meraviglia nella Serenissima Republica Venetiana egli sempre havea ammirato lo stupor grande, di veder il Serenissimo Prencipe di così famosa libertà, con un ossequio, una riverenza, una Maestà da Re, e con una auttorità da Cittadino, e che il congiungere l’infinita veneratione con la limitata auttorità, la lunghezza dell’Imperio del Prencipe, con la modestia, erano temperamenti stati ignoti alla prudenza de gl’antichi Legislatori delle Republiche passate, sapienza solo felicemente pratticata dal Senato Venetiano.
Bartolomeo Cavalcanti disse appresso, che come havea notato il Pontano, cosa molto rara era veder nella Republica Venetiana, che le facoltà de’ grandi non facessero insuperbire i Senatori ricchi, ma che portento molto maggior era veder, che tali fossero gl’ordini di quella eccelsa libertà, tali le Santissime leggi di quella eterna Republica, che nè anco i carichi più supremi attaccassero punto di ambitione, e di superbia, a quei, che con somma autorità gli havevano maneggiati: particolarità altrettanto degna di consideratione, quanto in qual si voglia altro Prencipato, ò ben constituita Republica, non mai era stata veduta, come quella, che direttamente repugnava alla stessa natura delle cose, e che all’hora, ch’egli fu in Vinegia, non ammirò il ricchissimo Thesoro di San Marco, non l’Arsenale, non il Canal grande co’ superbi palagi de’ Cornari, de’ Grimani, de’ Foscari, e gli altri edifitij magnificentissimi con spese reali fabbricati in quella miracolosa Città, meraviglie solo notate da gli huomini ordinarij, ma che cosa veramente ammiranda gli parve che fosse, vedere il signor Sebastiano Venieri, poco prima stato Generale di così potente armata, famosissimo per la gloriosa Vittoria navale, che havea ottenuta contro il Turco, ritornar privato in Vinegia, e con tanta civil modestia passeggiar la piazza, che in nessuna cosa era dissimile da que’ Senatori, che non si erano partiti dalla Città, e che nella Republica Venetiana era cosa troppo singolare, che i suoi Nobili tanta civil modestia, e tanta humanità sapessero usar in casa, e che poi fuori ne’ Magistrati importanti, ne’ carichi grandi, con la magnificenza, con la splendidezza, e con una reale liberalità, si facessero conoscere al mondo, non Cittadini di una ben ordinata Republica, ma huomini nati per comandare, soggetti discesi da sangue Reale, che però credea certo, non altra natione poter trovarsi al mondo, che meglio sapesse l’arte di accommodarsi alla modestia dell’ubbidire, & alla grandezza del comandare, della nobiltà Venetiana: cosa in tanto vera, che dove le altre Republiche, per riputatione de’ pubblici magistrati, erano state sforzate ricordar a’ loro Senatori, che con la magnificenza dell’animo grande, procacciassero di sostener la Maestà del grado publico; il Senato Venetiano più volte era stato necessitato pubblicar severe leggi, per prohibir, à quei, che fuori della Città esercitavano le Prefetture, e gli altri carichi pubblici, la soverchia virtù della splendidezza, e della magnificenza.
Così disse il Cavalcanti, quando Flavio Biondo soggiunse, che quando egli fu in Vinegia, in infinito rimase confuso, all’hora che vide, che in una pura Aristocratia, la Cittadinanza, e la Plebe Venetiana con tanta sodisfattione vivessero in quella felicissima patria, che in molti mesi, ch’egli vi fece dimora, non mai seppe chiarirsi, se la pubblica libertà Venetiana più fosse amata, e tenuta cara dalla Nobiltà, che comandava, che dalla Cittadinanza, e dalla Plebe, che ubbidivano.
Appresso seguì Paolo Giovio, e disse, che non solo à lui, ma a molti Prencipi grandi, co’ quali allungo più volte egli havea discorso delle meraviglie, che si scorgono nel governo della Republica Venetiana, parea cosa degna di sommo stupore, che il Senato di quella Eccelsa Republica non in altro più studiasse, che alla pace, e non ad altro con vigilanza, & assiduità maggiore più attendesse, che à perpetuamente far preparamenti da guerra, e che la pace armata con tutte le sue esquisitezze, solo si vedeva nella floridissima Republica Venetiana.
Al Giovio seguì Giovanni Boccaccio, e disse, che il vero sale, che dalla putrefattione delle corruttele d’ogni abuso, e di tutti i disordini, preservava la libertà Venetiana, era quella principalissima Reina di tutte le leggi, quell’ottimo instituto, tanto inviolabilmente osservato da lei, che per esaltar un Senatore à’ gradi più supremi non la grandezza del parentado, non la splendidezza delle molte ricchezze, non i meriti de’ padri, e de gl’altri antenati, ma il nudo valore, la virtù stessa di colui, che chiedeva il Magistrato erano havuti in consideratione, onde accadeva, che in Vinegia la Nobiltà vitiosa, & ignorante, facea numero, mentre solo la virtuosa, e meritevole comandava, e governava, con quella prudenza, che era nota à tutto il mondo.
Ma Leonardo Aretino, da poi che molto hebbe lodato il parer del Boccaccio, soggiunse, che l’uso eccellente della Republica Venetiana, di non dar alla sua Nobiltà carichi di salto, ma graduatamente, era quella base saldissima, dove era fondata la grandezza, e l’eternità di tanta libertà, e che mirabilissimo precetto era, che qual si voglia Nobile, per salir alle supreme dignitadi, fino dalla sua prima giovanezza fosse sforzato cominciar da’ più bassi Magistrati; costume saluberrimo, come quello, che partoriva l’effetto importantissimo di mantener quella vera, e sostantiale uguaglianza tra la Nobiltà di una Aristocratia, che dà lunga vita al viver libero, perche appresso i veri intendenti delle cose di Stato, non la parità de’ beni faceva uguali i Senatori nelle Republiche, ma che tutti i Nobili fossero costretti di caminare alla grandezza delle dignitadi più supreme per la strada medesima di cominciar il corso de’ Magistrati, dalle stesse ultime mosse. Legge degna della molta sapienza Venetiana, della quale, perche affatto fu priva l’antica Republica Romana, ella fu di corta vita nella sua libertà, e quella brieve, che hebbe, fu travagliata da pericolosissime infermitadi di tumultuose sollevationi. Perche l’abuso bruttissimo di dar i Consolati della patria libera, e gl’importantissimi carichi della cura degli eserciti a Pompeo, à Cesare, & ad altri soggetti facoltosi, nella prima giovanezza loro, altro non fu, che più tosto trattarli da huomini nati di sangue Reale, da Signori, e Padroni della patria libera, che da Senatori di una ben ordinata Republica. Percioche essendo verissimo, che quella è ben regolata libertà, dove anco a’ Senatori di sommo valore, e di merito infinito, sempre avanza una dignità grande da sperare, laquale à’ soggetti avidi della vera gloria serve di acuto sprone, che battendo loro il fianco dell’honorata ambitione velocemente li fa correre nella strada diritta della Virtù, per poter giunger poi alla meta del Magistrato bramato, a Cesare & a Pompeo, che nella prima fanciullezza loro, dalla Republica Romana, con mortal imprudenza, ottennero i primi honori, e le più supreme dignitadi, qual altro grado maggiore avanzava da sperar nella Vecchiaia, che quella assoluta signoria della Tirannide, alla quale Cesare scopertamente, Pompeo con più cupi artificij aspirarono poi? Disordine gravissimo, e dal quale la famosa libertà Romana dovea riconoscere la sua morte.
Ancorche la stessa Serenissima libertà Venetiana segni grandissimi desse, che il parer dell’Aretino sommamente le fosse piaciuto, comandò nondimeno a gli altri virtuosi, che avanzavano, che seguissero a dir le opinioni loro. All’hora Benedetto Varchi così cominciò. La mia Republica Fiorentina, che non mai hebbe fortuna da saper tra le sue famiglie Nobili introdur la pace, l’unione, e quel vicendevole amore, che eterna rende la libertà delle Republiche, alla fine fu forzata di cadere nell’infermità della servitù, hora à me cosa, che supera tutte le più rare humane meraviglie, par che sia, che un Nobile Venetiano, ancorche gravissimamente offeso nella vita de’ suoi figliuoli, e nella propria sua persona, più violentato dall’ardente carità verso la patria libera, che spaventato dal rigor de’ Magistrati, con animo franchissimo sappia far la dura risolutione di perdonar in quell’hora medesima al suo nemico l’ingiuria, che l’ha ricevuta: risolutione per certo ammiranda, & altrettanto degna di stupor infinito, quanto apertamente si vede, che il Nobile Venetiano di buonissima voglia nelle mani del Senato sa rimetter quella vendetta dell’ingiuria ricevuta, per laquale tanta renitenza sentono gli huomini sensuali nel donarla a quel Dio, dal quale riconosciamo ogni nostro bene.
Così disse il Varchi: quando Lodovico Dolce soggiunse, che se quello era vero, che confessavano tutti, che la più rara, e più pregiata grandezza, che potea considerarsi in un Prencipe, era il disarmar con facilità, e senza pericolo alcuno un suo Capitan Generale, e da lui, anco all’hora, che sapea di esser chiamato dal Prencipe adirato, o grandemente insospettito della sua fede, ricever esatta ubbidienza, che per certo degna di esser anteposta à tutte le altre cose mirabili, da gli altri notate nella Republica Venetiana, li parea che fosse, ch’ella non solo con facilità grande disarmasse i suoi Capitani Generali di Mare, ma che anco all’hora, che i suoi Ministri più principali conoscevano il Senato sdegnatissimo, e che però erano sicuri di ricever da lui severissimo castigo, ancorche si trovassero assenti, armati, & in carichi grandi, se accadeva, che dalla Republica fossero chiamati, con tanta prontezza d’animo erano veduti ubbidire, che deposte l’armi, e l’autorità de’ pubblici Magistrati, correvano in Vinegia, per esser da gli amici, e da’ parenti loro giudicati, anco con la pena capitale. Cosa che per molti esempi, che all’età sua in quella Serenissima Republica si erano veduti, haveva empiuto il mondo tutto di stupore: che però li parea di poter dire, che li si facea torto apertissimo, se tanta autorità della Republica Venetiana, se tanta sommessione, tanta ubbidienza, e così inaudita carità della Nobiltà Venetiana verso la pubblica libertà non veniva anteposta à tutte quelle leggi ammirande, & ottimi instituti, che avanti lui havevano raccontati gli altri.
La Serenissima Libertà Venetiana, che senza mai rispondere cosa alcuna a quei virtuosi, haveva uditi tanti suoi lodevolissimi ordini, e tante sue meravigliose prerogative, disse al Dolce, che quella, ch’egli haveva raccontata, era cosa degna di grandissima consideratione, ma che però era beneficio anco posseduto da gli Imperadori Ottomani: ma che da una sola prerogativa, ch’ella esattamente possedeva, e nella quale si conosceva avanzar ogni Prencipato, e qual si voglia passata, e presente Republica, riconoscea tutta la sua grandezza, laquale per ancora da nessuno di quei virtuosi era stata detta.
Allora Dionigi Atanagi disse, che la più rara meraviglia, che da gl’ingegni grandi nella Republica Venetiana fino alle stelle con ogni sorte di lode esaggerata, meritava di esser esaltata, era il vedere, che il tremendo tribunale de’ Capi de’ Dieci, & il supremo Magistrato de gli Inquisitori di Stato, con tre sole palle di tela, con facilità incredibile seppellivano vivo qual si voglia Cesare, qual si sia Pompeo, che vedevano scoprirsi in quella ben ordinata Republica.
Non così tosto hebbe l’Atanagi detto il parer suo, che Girolamo Mercuriale soggiunse, che mentre egli si trovava in Padova nella sua carica di leggere in quelle famose Scuole Medicina, seppe, che alcuni Plebei, conforme al costume loro, essendo in Vinegia andati al lito del Mare, per ivi sollazzarsi con alcune giovani Cortigiane, che con esso loro havevano menate, da più giovani Nobili Venetiani talmente furono strapazzati, che havendo quelli posto mano alle armi, uno ne uccissero, e gli altri maltrattarono, per lo qual delitto da’ Giudici essendo stati chiamati alle scale, quei plebei, ancor che vedessero i Giudicij tutti in mano della Nobiltà offesa, tanto non di meno sperarono nella rettitudine del Senato, nella esquisitissima Giustitia de’ Tribunali Criminali, che non dubitarono di comparir avanti i Giudici, e porsi prigioni, e che punto della buona opinione loro non si ingannarono, perche nelle difese loro havendo i Giudici pienamente conosciute le molestie date loro da quei Nobili, con eterna gloria dell’incorrotta Giustitia Venetiana gli assolsero come innocenti. E che portento non più veduto, e che da quei, che non lo praticavano, non poteva credersi era, che il Nobile, ancorche potente per parentado, grande per ricchezze conspicue, e per gli honori ricevuti nella Republica di somma autorità, nel piatire più duro avversario provasse il Cittadino, che il Nobile suo pari, e che se il precetto Politico, da gli huomini grandi lasciato scritto, che le Aristocratie non morivano mai, quando la gioventù nobile usava la modestia, i Tribunali mantenevano la Giustitia uguale, era vero, ch’egli non sapea vedere, quando mai la felicissima Libertà Venetiana, tanto severa nelle dissolutioni de’ suoi Nobili, tanto esquisitamente giusta ne’ suoi Tribunali, dovesse haver fine.
L’ultimo di tutti volle essere il dottissimo Ermolao Barbaro, il quale disse, che all’hora nelle Patrie libere introducendosi la Tirannide, quando i secreti più importanti della Republica con pochi Senatori erano comunicati, la prestantissima Libertà Venetiana, per fuggire di far naufragio in così pericoloso scoglio, comunicava i secreti, e deliberava le faccende più importanti del suo Stato nel supremo Magistrato del Pregadi, numeroso di più di dugento cinquanta Senatori, e che cosa gli pareva degna di stupor grande, che la Republica Venetiana in così gran numero di Senatori trovasse quella secretezza, che con tante diligenze, e con tanti buoni trattamenti di liberalissimi doni, i Prencipi molte volte indarno cercavano in un solo Secretario, in un paio di Conseglieri. All’hora la Serenissima Libertà Venetiana pose la mano sopra la spalla del Barbaro, e così li disse. Voi havete nominata quella pretiosa gioia, della quale io tanto mi pregio, e per laquale merito di esser da ogn’uno invidiata, mercè che per ben governar gli Stati non meno è necessaria la secretezza, che il buon consiglio.