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DI PARNASO. 29

tadino, che il Nobile suo pari, e che se il precetto Politico, da gli huomini grandi lasciato scritto, che le Aristocratie non morivano mai, quando la gioventù nobile usava la modestia, i Tribunali mantenevano la Giustitia uguale, era vero, ch’egli non sapea vedere, quando mai la felicissima Libertà Venetiana, tanto severa nelle dissolutioni de’ suoi Nobili, tanto esquisitamente giusta ne’ suoi Tribunali, dovesse haver fine.

L’ultimo di tutti volle essere il dottissimo Ermolao Barbaro, il quale disse, che all’hora nelle Patrie libere introducendosi la Tirannide, quando i secreti più importanti della Republica con pochi Senatori erano comunicati, la prestantissima Libertà Venetiana, per fuggire di far naufragio in così pericoloso scoglio, comunicava i secreti, e deliberava le faccende più importanti del suo Stato nel supremo Magistrato del Pregadi, numeroso di più di dugento cinquanta Senatori, e che cosa gli pareva degna di stupor grande, che la Republica Venetiana in così gran numero di Senatori trovasse quella secretezza, che con tante diligenze, e con tanti buoni trattamenti di liberalissimi doni, i Prencipi molte volte indarno cercavano in un solo Secretario, in un paio di Conseglieri. All’hora la Serenissima Libertà Venetiana pose la mano sopra la spalla del Barbaro, e così li disse. Voi havete nominata quella pretiosa gioia, della quale io tanto mi pregio, e per laquale merito di esser da ogn’uno invidiata, mercè che per ben governar gli Stati non meno è necessaria la secretezza, che il buon consiglio.


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