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DI PARNASO. | 23 |
vera, che dove le altre Republiche, per riputatione de’ pubblici magistrati, erano state sforzate ricordar a’ loro Senatori, che con la magnificenza dell’animo grande, procacciassero di sostener la Maestà del grado publico; il Senato Venetiano più volte era stato necessitato pubblicar severe leggi, per prohibir, à quei, che fuori della Città esercitavano le Prefetture, e gli altri carichi pubblici, la soverchia virtù della splendidezza, e della magnificenza.
Così disse il Cavalcanti, quando Flavio Biondo soggiunse, che quando egli fu in Vinegia, in infinito rimase confuso, all’hora che vide, che in una pura Aristocratia, la Cittadinanza, e la Plebe Venetiana con tanta sodisfattione vivessero in quella felicissima patria, che in molti mesi, ch’egli vi fece dimora, non mai seppe chiarirsi, se la pubblica libertà Venetiana più fosse amata, e tenuta cara dalla Nobiltà, che comandava, che dalla Cittadinanza, e dalla Plebe, che ubbidivano.
Appresso seguì Paolo Giovio, e disse, che non solo à lui, ma a molti Prencipi grandi, co’ quali allungo più volte egli havea discorso delle meraviglie, che si scorgono nel governo della Republica Venetiana, parea cosa degna di sommo stupore, che il Senato di quella Eccelsa Republica non in altro più studiasse, che alla pace, e non ad altro con vigilanza, & assiduità maggiore più attendesse, che à perpetuamente far preparamenti da guerra, e che la pace armata con tutte le sue esquisitezze, solo si vedeva nella floridissima Republica Venetiana.
Al Giovio seguì Giovanni Boccaccio, e disse, che il vero sale, che dalla putrefattione delle corruttele d’ogni abuso,
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