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bilei e, tant’altre, senza contare quelle per gl’innumerevoli suoi familiari tutti da lui odiati, ma che il popolo doveva amare e servire perché si chiamavano Absburgo.

In quei giorni la scolaresca di tutto l’Impero, in file bene inquadrate, condotte dagli insegnanti in alta tenuta d’ufficiale di stato, con feluca piumata e spadino d’oro, assisteva alla gran messa cantata delle otto. Finita la messa tutti dovevano intonare ritmo austriaco: parole infami che esaltano la prostituzione di popoli così diversi alla maestà di un vecchio tiranno e, quel ch’è peggio, rivestite della grave, solenne musica dell’Haydn, che altrimenti non andrebbero al cuore d’alcuno.

Ma sia come si voglia, quell’inno usciva da tante bocche in un accordo perfetto, e il suono dell’organo si spandeva per le vòlte maestose della chiesa in mistiche vibrazioni: i maestri e gli ufficiali, irrigiditi sfavillavano nelle loro uniformi, fieri di servire l’Austria; gli officianti dal canto loro servivan l’Austria in atteggiamento umilissimo, studiandosi di portar nel quadro severo una nota di soavitá. Ed il rito in onore del vecchio di Vienna, la cui effigie veneranda era dipinta e scolpita in ogni dove, soverchiava in tanta maestà la maestá stessa di Dio.

— Austria maledetta! — gridava dentro di sé Renato. — Come sai bene intrigare con tutti i mezzi per camuffar la tua iniqua tirannia in diritto divino!