Protesta del popolo delle Due Sicilie/Capo VI

Capo VI

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CAPO SESTO


GLI AFFARI INTERNI.


L’amministrazione di un paese dove è nata la scienza dell’economia, e dove ne scrivono anch’oggi dottamente molti uomini egregi, è data in mano di stupidi e di ladri.

Il ministero dell’interno è una bottega, è un mercato, è un vitupero. Il Ministro associato con alcuni mercatanti di grano negozia a danno della nazione: associato con gli appaltatori delle opere pubbliche divide con essi gli sporchi guadagni, o li affida a chi gli offre premio maggiore, ladro erudito ha sottratto da Pompei e da Ercolano le più belle e preziose antichità, e se ne ha formato un superbissimo museo; maraviglioso a quanti non san congiungere scienza e ladroneria. Gl’impiegati adulatori, buffoni, e cagnotti del Ministro, fanno quello che fà egli, ed egli quel che fa il Re.

L’agricoltura, che nel nostro paese dovrebbe avere tutta la protezione del governo, e le cure assidue e costanti di un Ministro, forma parte di un ripartimento del Ministero dell’interno, sta in mano di due o tre sciocchi impiegati. I nostri campi sono i più belli e i più fertili tra quelli di tutta Italia, ma sono incolti e deserti, o abitati da pochissimi miseri e stanchi contadini. Immensi terreni nella Sicilia, nelle Calabrie, negli Abruzzi, ne Principati e nella Puglia stessa rimangono abbandonati, di cattiv’aria, pestilenti: se in qualche luogo si vuole bonificarli, come presso la foce del Volturno, il Ministro ne dà il carico a qualche suo fidato; il quale spende, spende, spende, e non fa mai nulla: prende egli in fitto quei terreni a tenue ragione, e poi li ridà in fitto [p. 36 modifica]a’ contadini; si grida da ogni parte: si chiama il rendimento de’ conti, si crea una Commissione, della quale è capo... il Ministro. In un regno sì bello e sì fertile che potrebbe nudrire il doppio degli abitanti che ha, spesso manca il pane, spesso si trovano uomini morti per inedia: spesso si deve far venire il grano da Odessa, dall’Egitto, e da paesi che si dicono barbari. Se domandate ai Ministri: sapete quanto grano si fa? Sapete quanto ne bisogna pel regno? Nol sanno: non sanno quel che sa e fa ogni padre di famiglia, il quale registra ciò che gli entra, osserva quel che consuma; se ha soverchio il vende: se ha bisogno si provvede a tempo: se è ben provveduto e vede che gli manca non dubita che è rubato; cerca di punire il ladro. E pure i Ministri ed il Re non giungono a tanta altezza di scienza; non conoscono altra statistica che quella che numera ogni tre anni quante sono le pecore che si chiaman sudditi delle Sicilie; si abbandonano tutti alla Provvidenza di Dio, ed alle cure dei proprietari, e quando vedono che il popolo ha fame e grida, proibiscono l’estrazione del grano, vi tolgono il dazio per un paio di mesi, dicono ai frati di far larghe limosine, di pregare Iddio, che mandi una buona annata1. Ma i proprietari invece di esser protetti ed aiutati, come quelli che sono veramente utili, si tengono come spugne, per empirli e spremerli. Oppressi dalle gravezze, scemati dagl’Intendenti, da Sott’intendenti e da ogni maniera d’impiegati, impediti nel commercio (perchè nelle province non sono strade, perchè il Ministro e pochi [p. 37 modifica]tra’ ricchi fanno un sordido monopolio), vendono le derrate a tenuissimo prezzo, talvolta appena rimborsano le spese; onde si assottigliano, si scuorano, scemano il prezzo ai manovali zappatori, agli altri artisti; ed ecco le rapine, i delitti, i briganti. La miseria poi dei miserrimi contadini ti strazia veramente il cuore. Menano la zappa un giorno e non hanno che quindici o venti grani al giorno, con cui ne comprano pane ed olio, e si fanno una minestra di erbe selvatiche, che spesso è senza sale. Nel verno cascan di fame, cercano un tomolo di grano al proprietario, e l’ottengono a patto di restituirgliene due o due e mezzo alla ricolta, ed a patto di dargli a godere la moglie o la figliuola. Il pessimo governo fa che il proprietario non abbia altro mezzo d’arricchire che l’usura, il contadino vende onore per pane, la nazione tutta diventa stupida e feroce. La povera gente si sdegna contro chi l’opprime più da vicino, e non vede che tutti sono oppressi, e la cagione di tutti i mali è il governo. Quante volte si è proposta una cassa di anticipazione agricola, una cassa di risparmio! Quante altre utili proposte si farebbero, se non si sapesse che questo cieco e bestiale governo non capisce nemmeno l’util suo, non è nemmeno tanto infame da dire: gli uomini diventeranno più numerosi, più ricchi, ed io comanderò un popolo più grande, avrò più larghi tributi. Le Società economiche ed i Consigli provinciali si tengono a pompa, non possono occuparsi altro che d’inezie, perchè il governo non si cura dei miglioramenti che si propongono. Quando il governo è tristo tutte le più belle istituzioni intristiscono, e per lo meno diventano inutili. Dobbiamo lodare il Re (affinchè non si dica che malediciam tutto) che ha renduto libero il commercio, ha fatto molti trattati, ha fatto riconoscere la sua bandiera in ogni parte: ma quando l’interno è fradicio, che vale un po’ di vernice e di crosta al di fuori? Quando i produttori sono oppressi, le industrie sono poche e lente, [p. 38 modifica]il commercio interno attraversato da mille ostacoli che valgono i trattati? Quando un popolo con la zappa potrebbe cavar tesori dalla sua terra e dar tutto a tutti, è ammiserito, avvilito, spossato, stanco, tutto il suo commercio dovrà essere passivo, dovrà essere a suo danno: le arti dovranno anch’esse languire, perchè morta è l’agricoltura che è loro madre.

Ottime e sante sono le istituzioni di benficenza; ma che valgono esse quando la mano che è destinata a dispensare il benefizio è rapace e spietata. Tra le altre la Beneficenza della provincia di Napoli ha ottocento mila ducati di rendita l’anno, e quella di Terra di Lavoro settecentomila, ed intanto un milione e mezzo di ducati appena basta per pochi poveri mal vestiti, mal nutriti, chiusi in luoghi peggiori di carceri. Amministratore dell’Albergo dei poveri in Napoli è stato per molti anni Felice Santangelo fratello del Ministro, questi empì l’albergo di una turba di scriventi, che come mosche canine succhia vano il nutrimento de’ poveri orfanelli, ed accordatosi con gli appaltatori che fornivano le vesti ed il cibo faceva le più scellerate e svergognate rapine. Un giovanetto si gettò dall’alto di una finestra e si sfracellò in terra; essendo vissuto poche ore, e domandato perchè aveva voluto morire, rispose per fame e per disperazione. Di fame morivano que’ miseri fanciulli che pure erano nati da uomini, e spaventati fuggivano da quell’albergo di dolori, d’infamie, e di terrori. Il Re stanco di udir tante ladronerie del Santangelo, fece giustizia a suo modo: gli tolse l’ufficio di Amministratore, ma gliene diede un altro con un bel soldo ed onori; e destinò una Commissione di otto uomini probi a governare l’albergo.

Ma dove ti senti stritolar l’animo e spezzare il cuore, dove si vede una crudeltà empia, è nell’ospizio dei trovatelli, detto la Nunziata. Ogni nutrice latta tre o quattro bambini, scarni, pallidi, affamati, di ogni cento ne [p. 39 modifica]muoiono gli ottantanove e ne morrebbono di più se le buone donnicciuole napolitane non si prendessero per loro divozione quei figliuoli della Madonna, e non li allevassero esse. Torre il pane ai mendici, alle innocenti creaturine è tale crudeltà che solamente noi la vediamo, e solamente il nostro governo può non vendicarla. Il ministro dell’Interno dà un’occhiata ai soli conti della spesa e dell’entrata e con gran cura, disegna, suggerisce, approva le proposte di fabbriche, di decorazione esterne, di miglioramenti alle stanze dove s’intrattengono i governatori e di tutte quelle opere dove si può spendere poco e rubare molto.

Gli ammalati ed i matti hanno anch’essi i loro carnefici. Quando si ragunò il settimo Congresso in Napoli fu scelta una Commissione di medici e chirurgi per osservare lo stato degli ospedali civili. La Commissione osservò, pianse di pietà e di sdegno, scrisse un caldo e lungo rapporto, nè della Commissione, nè di nulla si fe’ parola negli Atti; tutto fu soppresso per ordine del Santangelo Ministro, e presidente del Congresso. Nel giornale intitolato Annali universali di Medicina stampato in Milano dal Calderini, (anno 1846 mese di Febbraio o di Marzo) si parla di questo fatto, e si dice non si volle che la voce del povero giungesse al trono. No, no, non ci volle questo: le orecchie di Ferdinando son sorde a maggiori grida. Si volle nascondere questa vergogna agli stranieri; ed han fatto bene i bravi Milanesi a svelare quest’altra oppressura patita da loro sventurati fratelli delle Sicilie.

Lo stato dei miseri prigionieri non è punto migliore. Il governo dà quattro grani e due decimi al giorno per ogni carcerato: e l’appaltatore deve fornire il pane, la zuppa, l’olio, i vasi di creta, deve imbianchire il carcere ogni sei mesi, dar buone mance, far il suo guadagno.

Una sola ramaiuolata di fave fetidissime, ed un pane di fango son tutto il cibo di quei miseri. Ogni sei mesi si [p. 40 modifica]dovrebbe dar loro un abito, si dà ogni diciotto. Vedi non uomini ma bestie, nudi nati, pallidi, affamati, rodon le bucce e i rimasugli gettati da qualche prigioniero che si è comperato il cibo; per un grano si scannano, si sotto pongono ad ogni vergogna. Si diedero dugentomila ducati per migliorar lo stato dei prigionieri, il Ministro dell’Interno abilissimo in questi giuochi se li fece sparir tra le mani; il Re per gastigarlo gli ha tolta l’amministrazione delle prigioni, e l’ha affidata nelle mani anche oneste del Ministro delle Finanze. Ecco giustizia di Re; ecco onestà di Ministro!

Altra grande miseria del nostro miserrimo paese è l’infinito numero di mendici che si veggono in tutte le città del regno, e dalle provincie piovono in Napoli. Nulla fa il governo per impiegar tante braccia, per impedire tanta corruzione: solamente se ne vergogna quando arriva qui qualche Sovrano forastiero (come quando vedemmo quella feroce belva di Niccolò di Russia): ed allora la Polizia afferra ogni sorta di persone e la getta in carcere, o la rimanda a morir di fame nelle provincie. In nessun paese del mondo v’ha sì grande numero di mendici come sul nostro; il che mostra il buon cuore del popolo, che soccorre a tanta gente, e l’infamia del governo che non se ne cura; dappoichè tutto quello che si fa per soccorrere i poveri si fa dai privati, o da istituzioni fatte da privati, il governo non vi spende niente, e vi mette la mano sol per opprimere e rubare. Per questa colpevole trascuranza i mendici ogni giorno si moltiplicano, ed alcuni diventano ingegnosamente feroci; prendono in fitto uno storpio o uno scemo, e lo van mostrando per le vie; prendono in fitto i bambini, e li ammaestrano a piangere e gridare, e talora stringono, pizzicano, pungono quelle misere creature per farle stridere, e muovere più efficacemente la pietà dei passanti. Ti si spezza il cuore a quelle strida, e con sentimento misto di pietà e di dispetto se [p. 41 modifica]spinto a gettar la limosina per non udir quello strazio. Or di chi è la colpa di questi mali? Quale tristo spettacolo è una turba di tanti affamati nel paese che la natura ha fatto per essere il più ricco e più lieto di tutti! E questo Re e questo governo si chiama cattolico!

Si crede di porre un rimedio a questo male facendo molte opere pubbliche, delle quali si lodano molto il Re ed il Santangelo, l’uno valente architetto, e l’altro provveduto spenditore. Ma quali sono coteste opere? Si è rifatta la casa del Re col danaro della Città di Napoli: si è speso in pochi anni circa mezzo milione a rabbellire il teatro S. Carlo per dare un divertimento alla Corte, ai forestieri, alle nobili sgualdrine: si spendono circa trecentomila ducati a racconciare la strada di Posilipo, affinchè vi si possa passeggiare in carrozza più agiatamente, e si cacciano da quella contrada i poveri pescatori, i quali con la loro miseria sturberebbero la beata gente nei cocchi. Queste opere sono tutte fatte per capriccio puerile del Re, non per utilità della nazione: si guastano le possessioni de’ proprietari e si devastano dai soldati artigiani muratori: e chi si lagna si ode rispondere che è un malvagio, che l’utilità privata deve cedere alla pubblica. Si son fatte due strade ferrate, una che da Napoli stendesi a Nocera, e con un ramo a Castellammare: un’altra da Napoli a Capua. Quest’ultima fu fatta per congiungere le due reggie di Napoli e di Caserta, come sta scritto su la medaglia fatta per perpetuarne la memoria; e con un braccio ozioso stendesi sino a Nola, dove il Re voleva andar presto a vedere i soldati. Ma tutto si fa per Napoli, e intorno a Napoli, nulla per le provincie, per la disgraziata e cara Sicilia, dove gli abitatori devono arrampicarsi per i dirupi, o correr pericolo di sprofondar ne valloni, o annegar nelle fiumane per portare ad un mercato a tramutare o vendere gli scarsi frutti delle loro terre e della loro misera industria. Ottime e desiderabili sono le [p. 42 modifica]strade ferrate, ma quando vi sono anche le strade comuni: esse sono direi quasi lusso, non una necessità. Or si crederebbe che quando un paesello vuole a sue spese farsi una strada, non ottiene dal governo il permesso? o se lo ottiene, il danaro non basta per isfamar gl’impiegati che fanno avere il permesso, l’architetto che dev’esser dato dal governo, e l’opera resta a mezzo, o non si comincia affatto. Si crederebbe che le Calabrie non hanno che una sola e cattiva strada, due brevi e pessime la Sicilia, due gli Abruzzi, e che pochissime città hanno le traverse che mettono su le strade consolari, tutte fatte dal governo francese? Si crederà che nell’interno delle provincie non si può camminare se non a piedi o a stenti a cavallo? Queste opere tanto cantate, sono opere stolte e pazze, senza un vero fine utile, male eseguite, e mostrano il carattere del Re, che tutto fa a capriccio, tutto presume di fare; e niente sa fare.

Or veniamo alla pubblica istruzione, che è un altro affar da nulla, e forma parte di un altro ripartimento del ministero dell’Interno. Una sola Università in tutto il regno di Napoli, tre in Sicilia, collegi in ciascuna provincia, seminarii nella diocesi, scuole primarie ne’ distretti, secondarie ne’ comuni, e le scuole private sono i luoghi ove il governo tollera che la gioventù delle Sicilie s’educhi il cuore e la mente. Ma che dico s’educhi? L’istruzione del nostro paese è una cosa fradicia, una piaga cangrenosa, un male che il governo tollera per non essere chiamato barbaro. Presidente della pubblica Istruzione è Monsignor Giuseppe Mazzetti, uomo inetto e vano, dominato da un cameriere e da un impiegatello; e quasi fosse leggiero l’uffizio che ha, o non si volesse che ei vi badasse molto, gli si è dato ancora l’uffizio di Consultore di Stato.

L’Università di Napoli è un mercato di studii, una trista vergogna; i professori mediocrissimi, svogliati, [p. 43 modifica]i più d’essi balestrati in cattedra per intrighi2, non vanno quasi mai, o se vanno salgono in cattedra, e belano mezz’ora. In tutto un anno fannosi meno di cento lezioni, v’ha di professori che ne fanno una sola; altri non avendo chi li ascolti pagano un paio di giovani a quali gettano una lezione. Negli esami pe’ gradi dottorali chi può dire quanti intrighi e frodi e ruberie si fanno? In Napoli sono tre pubbliche biblioteche ma pochissimo tempo sono aperte, pochissimi libri si possono leggere; nelle province non v’ha biblioteche affatto, chè ivi non si deve leggere, ma chiudergli occhi, ubbidire, e pagare. Le università della Sicilia sono anche peggiori di quelle di Napoli, vote spelonche dove si ode la moribonda voce di eunuchi professori. I licei ed i collegi sono più pessimi di queste pessime università, senza maestri e con ignorantissimi pedanti, malvagi metodi d’istruzione, rapaci rettori, i prefetti sono stoltissimi e villanissimi pretonzoli; i giovanetti nulla imparano, anzi imparano ad essere stolti, frivoli, ignoranti, presuntuosi, ipocriti, delatori. I seminarii variano di disciplina secondo i Vescovi: vi si studia sempre il latino, o non s’impara mai, o barbaramente. Le scuole primarie e secondarie fanno pietà: i maestri privati fanno bottega di studii: i gesuiti tengono maestrelli di venti anni, ed insegnano viltà, ipocrisia, spionaggio, barbaro latino, barbaro greco, e nulla d’italiano. In somma nel regno delle Sicilie è un miracolo che sieno [p. 44 modifica]uomini che sappian leggere; qui non v’ha istruzione nè educazione popolare; qui è un doloroso pensiero pe’ padri di famiglia come è da chi far educare i figliuoli; qui rarissimi artigiani san leggere; ignorantissimi i nobili e guasti, ignorante la plebe ma vogliosa di sapere, impotente d’imparare; l’educazione delle donne è suonare, cantare, danzare, lascivie. Ma qui per grazia di Dio, è terra italiana; e sebbene uno scellerato governo l’opprime qui è vivo ingegno, ed uomini che han vero e forte sapere, e cuore caldo i quali stanno chiusi e nascosti per non macchiarsi di vergogna, e serbarsi, a tempi più lieti.


Note

  1. I più ricchi e potenti mercatanti di grano in Napoli sono i fratelli Rocca; i quali fanno un monopolio che tutti sanno. Pel caro di quest’anno 1847 il Re ha fatto venire alquanto grano, e con la sua solita logica ha dato il carico ai fratelli Rocca di comprarlo, macinarlo, e venderlo.
  2. Morto il Galluppi, il Re ha nominato professore di filosofia Luigi Palmieri, valentissimo fisico. Il Ministro dell’Interno ne sconsigliava il Re, non perchè il Palmieri fosse un tristo o un ignorante, chè egli è un dotto uomo, ma perchè non è valente in filosofia come in fisica: il Re non ode e comanda che le cattedri di filosofia, di etica, e di storia dei concilii, sien dichiarate di fiducia reale e che le saranno occupate da chi egli vuole.