Protesta del popolo delle Due Sicilie/Capo VII
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CAPO SETTIMO
LE FINANZE.
Pagare, o non altro che pagare devono i miseri abitatori delle Sicilie; stretti e smunti da enormi dazii e pazzi che si aggravano crudelmente su i più poveri. Il dazio della fondiaria che è del venti per cento, è malamente ripartito, ed avaramente esatto; più il tre per cento che fu imposto per fabbriche indispensabili, cioè la ristaurazione del Real Palazzo, e dello stabilimento dei reietti, e pel mantenimento dei poveri. La fabbrica del Palazzo è finita da un pezzo, l’Annunziata è restaurata dall’incendio sofferto, e cava la rendita da una quantità di botteghe novellamente costruite: i poveri ci assediano in tutti i luoghi ed il tre per cento persiste tuttavia. I grandi possessori se ne lagnano, ma i possessori minuti talvolta abbandonano i loro miseri fondi a percettori, perchè coltivandoli non ne caverebbero di che pagare la fondiaria. Il contadino che ha poche braccia di terreno ed un misero tugurio, si vede addosso gli esattori inesorabili, i quali lo cacciano dalla casa, gli vendono la caldaia, la padella, il treppiede, e le povere masserizie, fra i pianti della donna, e le strida delle misere creaturine, impaurite dalle minacce dei gendarmi, i quali sono strumenti sempre pronti ad ogni espressione. Chi indugia a pagare si vede in casa un ospite gendarme, che vuol cibo e letto, o due carlini al giorno, co’ quali egli sbevazza nella taverna, e la misera famiglia piange digiuna, e vende per pagare. Il dazio su i fondi urbani fu cresciuto per pagare i tedeschi venuti con Ferdinando I: i tedeschi partirono e il dazio rimase qual era. Contro ogni massima di economia ci sono due o tre, ed anche quattro dazi su di una sola cosa. Si paga la fondiaria, si paga un dazio nell’introdurre il grano in un paese, si paga un dazio nel macinarlo, si paga un dazio nell’introdurlo manifatturato in un altro paese.
Il sale pagasi tredici grani il rotolo; e la povera gente non può comperarlo. Quando il Re corre il regno le affamate popolazioni gli vanno incontro e non gli gridano altro che, ribassate il dazio sul sale, mettetelo sopra altra cosa, lasciateci mangiar condito. Il Re fa segno col capo, dice che farà, sprona il cavallo, e misero chi non gli fa luogo. In Napoli si giunse sino a questa vergogna: si posero i birri a costringere i sorbettieri a gettare l’acqua che si fa dalle neve per congelare i sorbetti; affinchè non si potesse ribollire ed estrarne il sale. In Sicilia non vi ha dazio sul sale, nè sul tabacco, ma il dazio sulla fondiaria è maggiore, e quei miseri sono in altra parte spremuti. Dazi comunali, dazi urbani, dazi sulle cose di cui han più bisogno i poveri, e nessuno su le carrozze, sui cavalli, su i servi: e perchè nessuno impari a leggere, dazi enormi su i libri. Per ogni libro che viene dall’estero prima si pagava tre carlini a volumi, ora si paga la metà, ed è ancora una imposta gravissima. E se un libro estero portato in Napoli si porta in Sicilia si paga un altro dazio, e così dalla Sicilia in Napoli. Tutti gli altri stati d’Italia han fatto una lega ed una legge sulla proprietà letteraria: solo il nostro governo non ha voluto parteciparvi, perchè non ha voluto lasciarci di proprio nemmeno il pensiero.
Se un uomo è impiegato deve servir per sei mesi senza soldo; il che significa che per sei mesi non deve vivere. Dal soldo deve lasciare il due e mezzo per cento per la sua vedova: la quale dipoi per grazia, e dopo lungo tempo dalla morte del marito può ottenere una pensione. Deve lasciare ancora il decimo: e questa imposta fa più dolore ai minuti impiegati i quali, da un soldo di dieci ducati si veggon tolti dodici carlini e mezzo; e così sono costretti alla frode, al furto. Un tempo si pagava anche il decimo graduale, cioè chi aveva un soldo maggiore di cento ducati doveva lasciare il venti per cento, chi duecento il trenta, e così via via. Quando nel 1836 nacque il primo figliuol di Ferdinando, questi perdonando le pene ai condannati ribaldi, tolse il decimo graduale che spiaceva agli alti impiegati, e rimase il decimo ordinario che s’aggrava su tutti e dispiace ai più miseri.
Non sapendo onde trar denari si è disposto che ogni supplica che si fa al Ministro delle Finanze deve essere in cartaccia bollata, che costa sei grani il foglio; e di questa carta si deve usare in tutti gli atti giudiziarii. Si profitta della religione del popolo e si traggono circa quarantamila ducati l’anno dalle bolle che permettono di mangiar grasso nella quaresima; e solo seicento ducati si mandano in Roma. Si profitta dell’ignoranza della plebe per trarre un milione l’anno di guadagno dall’infamissimo giuoco del Lotto, si permette ai prenditori ogni arte per adescar la plebe a giuocare. Giuocano, vendono il letto, levano il pane ai figliuoli, sprofondano in miseria, le donne vendon l’oro a qualche prete o frate che ha fama di cabalista; e poi delusi bestemmiano, e tornano a sperare ed a giuocare. Questo scandalo, questa infame gesuitica istituzione, per la quale un re giuoca a guadagno sicuro co’ più miseri dei suoi sudditi, è spaventevole principalmente nella città di Napoli. Questo è il dazio più crudele, più scellerato, pagato dalla gente più povera; la quale sperando un guadagno, che è quasi impossibile, dà al Re anche il tenue frutto del suo mestiere, dà al Re quel pane che ei strappa dalla bocca dei figli. E il Re non si cura che il Lotto è stato abolito in tutte le nazioni colte e maledetto da tutti gli uomini che han timore di Dio, ma seguita a tenerlo nel suo regno per maggiormente corrompere questo popolo che egli ha avvilito ed imbestiato. Questo Re che si dice cattolico, che si confessa e si comunica, non si vergogna di dire a chi gli va a chiedere qualche cosa: Io non ho che darti: giuoca al lotto che Dio ti provvederà. O Dio santo e giusto, e perchè permetti tanta oppressura su i tuoi figli che gemono nel paese delle Sicilie? O Dio de’ Cristiani, abbi pietà di noi, e non farci più soffrire tanta vergogna. Nella Quaresima del 1847, in Napoli nella strada dell’Arco di Mirella, un castaldo del signor Luigi Rubino, accordatosi con altre dieci persone ed un prete, chiudono in una casa un cabalista, il quale, secondo l’opinione loro, sapeva certamente i numeri del Lotto: lo minacciano, lo tormentano, lo battono, lo collano in un fosso, dove lo costringono a cibarsi di paglia e di orina, ne lo traggono, gli fanno gocciolare lardo liquefatto sulla schiena, gli fanno altre pazze crudeltà. Il disgraziato or vuole persuaderli che non sa nulla, or dice numeri a caso, quelli giocano perdono, e infuriano contro di lui. Il prete credendo che il demonio non lo facesse tacere, si veste con la cotta e la stola, gli mostra l’ostia consacrata, lo esorcizza. Le grida del tormentato fecero scoprire gli stolti e feroci tormentatori, i quali imprigionati, confessarono ogni cosa. Ed ecco in qual modo questo giuoco, che uscì dell’inferno in compagnia de’ gesuiti, corrompe la morale, corrompe la religione santissima, spinge a delitti nefandi. Ed il pio Ferdinando ancor tiene questo giuoco, e dà un regalo agl’impiegati quando in fine dell’anno gli portano un guadagno netto che superi il milione di ducati.
Mentre da una parte si smunge e si asciuga la nazione con tanti dazi, e con tanti sottilissimi ed infami ritrovati, e per chi non paga a tempo sta aperto il carcere e pronti tutti i mezzi di oppressione, dall’altra parte i creditori dello Stato non possono esser pagati giammai. Lo stupido e crudele Ministro delle Finanze, D’Andrea, quando taluno gli andava a chiedere il suo e parlava con quella forza che è ispirata dal dolore; rispondea: Non ci sono danari, il Re è povero, abbiate pazienza, ora raddolcitevi la bocca. E gli dava un pezzetto di cioccolatte. Il presente ministro Ferri, è più stupido e più reo del D’Andrea: ritarda quando più può i pagamenti: pare che si cavi dall’animo il danaro che deve dare altrui, risparmia quanto più può fare un grosso regalo al Re; il quale alla fine dell’anno 1846 gli ha dato in dono diecimila ducati, pregandolo della buona amministrazione. Ecco come il Re ed i Ministri si sbranano le sostanze della misera nazione, ed insultano quelli che domandano il sangue loro, il pane del loro figliuoli.
Per fare i maioraschi dei principi reali secondogeniti (ciascuno dei quali toglie alla nazione ben sessantamila ducati l’anno) il Re ha usurpate le terre del demanio pubblico, cioè della nazione, le ha fatte apprezzare come ei voleva, e le ha date ad amministrare alla Cassa di ammortizzazione: la quale ritraendo dalle terre poca ed incerta rendita, doveva pagare molto più di quel che esigeva, e questo più doveva prenderlo da altra parte. Dipoi il Re volendo che questa rendita non fosse di terreni, ma di capitali, e che i fratelli e i figliuoli fossero creditori dello Stato, ordinò che la stessa cassa comperasse quei fondi ad un prezzo anche maggiore di quello che esso vi aveva dato, che comperasse i sessantamila ducati limpidi di rendita eretta sul gran libro del debito pubblico. Or quando il Re fa queste sfacciate ladronerie qual meraviglia che gl’impiegati rubino anch’essi! Nel medio evo alcuni re assoldavano gli assassini, e con questi dividevano le prede fatte ai mercatanti viaggiatori: e Re Ferdinando non fa peggio di quelli?
Mentre la nazione manca di pane, il Re ed il Ministro delle Finanze vogliono torre il debito pubblico; ed ogni sei mesi si tragge a sorte un numero di creditori dello Stato ai quali o si restituisce capitale, o si dà un interesse minore. Il solo Rothscild, che è creditore di grandissime somme che non si voglion pagare, non è rimborsato, e gli si paga l’interesse del cinque per cento. Si toglie il pane ai figliuoli, e si dà ad un estraneo: a questo ebreo grazie e favori, nelle sue mani è tutto il monopolio del commercio. E quando si deve far qualche decreto pel quale la rendita pubblica rialza od abbassa: il Re: il Re dico, ed i Ministri mandano le persone a negoziare. Fingono di vendere o di comperare, ed assassinano i privati che nulla possono sapere di cotesti neri intrighi ed infamie.
I privati depongono i loro denari nel banco (che dice real tesoro, perchè qui tutto è reale) e ne hanno una carta che ha valor di moneta. Questo danaro invece di rimaner inutile vien rimesso in commercio, ed è in una cassa detta di sconto, la quale lo dà in prestito al tre per cento, ed il governo ne ha un guadagno. Il ministro Ferri vedendo che in alcuni anni questo guadagno è diminuito, ha moltiplicato sì stranamente le convinzioni de’ prestiti, che i negozianti non possono aver più danari e sono costretti o a farsi strangolar dagli uomini, o a ricorrere al Rothscild; il quale, perchè a lui nulla si nega, prende il danaro alla cassa di sconto alla ragione del tre, e lo ridà alla ragione del cinque, del sei, o del sette. Così lo stupido Ministro, non per un danno, ma per un minor guadagno che il governo aveva, ha chiuse tutte le vie ai negozianti, che sono in gran parte falliti e sprofondati in miseria; ha spento il credito pubblico, ha tagliato i nervi al commercio, ha scuorata, avvilita, ammiserita tutta la nazione; la quale è posta come in uno strettoio, spremuto da ogni parte, e non le resta di proprio che le lagrime, ed il dolore.
Il Ministero delle Finanze non è altro che una grande officina di ladronerie: noi non possiamo altro che pagare: gl’impiegati non fanno altro che trarci sangue, il Re tesoreggia ed accumula danari, e li mette su i banchi stranieri. Così i tedeschi del primo Ferdinando, gli scialacquamenti di Francesco, e la feroce avarizia di questo Ferdinando secondo, ci han lasciato solamente quello che Carolina d’Austria diceva di volerci solamente lasciare; gli occhi per piangere: ma se saremo uomini piangeranno anche coloro che hanno stancata la nostra pazienza, ed abusano, ed insultano la misericordia di Dio.