Protesta del popolo delle Due Sicilie/Capo V
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CAPO QUINTO
LA POLIZIA.
Noi abbiamo un codice di leggi civili e penali che è forse dei migliori che sieno in Europa, ma esso è nulla al perchè la Polizia fa tutto, può tutto, e non riconosce alcuna legge. Negli affari civili i debitori di mala fede, i truffatori, gli usurai, le spie, e gli altri tristi, quando vedono che han torto per giustizia cercano i favori o la protezione di qualche impiegato di Polizia o del Ministro. Ed il Ministro chiama a sè le parti, giudica ed esegue alla gendarmesca, non curandosi nè di patti nè di convenzioni, nè di sentenze di tribunali. Chi si lagna e parla o di leggi, eccogli i gendarmi, le manette, il carcere; dove resta finchè non si persuade che il volere della Polizia è la sola legge cui si deve ubbidire. Un mercante scrisse a Leopoldo Principe di Salerno pregandolo umilmente gli restituisse i seimila ducati che gli aveva prestati; la risposta gliela portarono i gendarmi che condussero in carcere quell’insolente che domandava il suo. Un padre di famiglia vivea col frutto di un picciol capitale: il debitore dà un sottomano ad un impiegato di Polizia ed eccoti quel misero in carcere e per uscirne dovette rinunziare a gran parte del suo danaro e dare una mancia a quei schifosi carnefici detti impiegati di Polizia. Un uomo dabbene scacciò da sè la moglie che era infedele sedottagli da un impiegato di Polizia; la donna ricorse al Ministro, che fatto buon viso alla sgualdrina fe’ imprigionare il marito costringendolo o a riprendersi la donna, o a darle un assegnamento ben grosso. Mille fatti di questi e più brutti ancora sono accaduti ed accadono; e sarebbe inutile a scriverli. Il Ministro di Grazia e Giustizia se n’è lagnato; il Re ha ordinato che la Polizia non si brigasse di affari civili; gli ordini del Re sono stati spediti sino a Commessarii: la Polizia seguita nello stesso modo. Le donne più sozze hanno i favori del Ministro; vi corrono ad ogni udienza, fanno anche le spie, ed ei le riceve in una stanza, dove sono specchi e profumi, ed addobbi di meretrici.
Per conoscere quel che fa la Polizia negli affari criminali bisogna sapere che il Ministro è ancora generale e capo dei gendarmi: onde egli, i Commessarii, gli ispettori, gl’impiegati, tutti i gendarmi, i birri sono una cosa. Ed egli per rendere più terribile la sua potenza ha fatto fare una legge che chiunque, per qualunque cagione, ardisce dar pure un pugno ad un gendarme non ha meno di sette anni di galera. Un ebanista di Sorrento mal sofferiva che una sua sorella amoreggiasse con un caporale di gendarmi: un dì entra in casa e ve lo trova; sgrida e batte la sorella, il gendarme lo investe, ei gli dà un pugno sul viso: fu condannato alla galera per tredici anni. Il rapporto di un gendarme è documento degnissimo di fede: e i delitti contro la forza pubblica sono puniti con una pazza crudeltà. Egli è giusto che i cittadini rispettino la pubblica forza, e sieno puniti quando mancano a questo rispetto; ma quando la forza pubblica sono i birri ed i gendarmi, cioè la più sozza ed infame canaglia, questi abusano del potere che hanno; e quando il gendarme o per ubbriachezza o per capriccio o per prepotenza mi percuote o m’ingiuria, o attenta all’onor della mia famiglia, non è più forza pubblica, ma è un ribaldo, che Dio, le leggi e l’onore mi comandano di punire, è un tristo che usa della forza non già della legge, e la legge non deve proteggerlo, ma punirlo. Il bugiardo giornale delle Due Sicilie, scritto dalla Polizia, dice maraviglie dei gendarmi, che hanno spenti incendii, che han salvato naufraghi; ma le son menzogne. Si toglie questo merito di lode a generosi ed onesti cittadini e si dà a gendarmi; perchè i rapporti che parlano dei cittadini si mandano al Ministro dell’Interno, e quelli dei gendarmi alla Polizia. In ogni paese, in ogni villaggio, in ogni chiesa, in ogni teatro dobbiamo vedere e soffrire i gendarmi, dobbiam leggerne anche nei giornali; ed il Re non si vergogna di tenerli anche innanzi la reggia.
Or chi patisce ingiuria da questi carnefici e se ne risente, non solo è punito con la galera; ma udite altra nefandezza. Dopo che i gendarmi con calci, pugna, ed ogni altra maniera di percosse hanno sfogata la loro crudeltà su l’infelice, questi subito vien condotto innanzi ad un nuovo tribunale, che chiamasi Commissione per le mazzate, in cui sono giudici i Comessarii di Polizia, testimoni ed esecutori i birri e i gendarmi, e vien condannato ad avere le mazzate sul culo1. Questa Commissione stabilita non per legge, ma per ordinanza di Polizia, giudica e condanna senza prove, l’accusato non può difendersi, e spesso soffre crudeli battiture e carceri dalla Polizia, e vien assoluto dal tribunale. Dopo questa infame pena comincia l’istruzion del processo, che vien fatto da un Commissario, comincia la causa che deve portarsi alla Corte Criminale e comincia dalla tortura.
Sta scritto nel codice penale che la tortura è abolita; ma andate nelle carceri e vedrete in qual modo la tortura lacera le membra dei miseri prigionieri, che ne rimangon storpii e mal conci. Domandate quei prigionieri, ed essi vi risponderanno: «Io non voleva confessare come il Commissario voleva, ed egli mi fece spogliar nudo, legar le mani ai testicoli, e gettar sul corpo secchie d’acqua fredda nel mezzo del verno. — Io fui legato mani e piedi e così sospeso ad una fune che per una carrucola pendeva dalla soffitta: mi davano i tratti e io gridava non saper nulla, il Commissario mi veniva addosso arrabbiato, mi feriva il capo col manico di uno stiletto, mi pugneva, mi mordeva, mi svelleva persino i peli dalle dita dei piedi... dissi ciò che ei volle. — Mi spogliarono nudo, mi legarono, mi batterono, mi rotolarono per le scale, non mi diedero nè mangiare, nè bere per due giorni, e per farmi morire anche di freddo, aprivano la finestra della segreta la notte, e la chiudevano al giorno.» Or in quali paesi, da quali carnefici si fanno queste crudeltà bestiali? Nè si creda che sono esagerazioni, o cose che non si possono provare, che chi entra in un carcere, chi ode una discussione nella Corte Criminale vede ed ode cose peggiori di queste. E le udirono quegli scienziati che venuti al congresso in Napoli assistettero ad una gran causa criminale, e videro gl’imputati che mostravano le cicatrici delle ferite, e narravano quello che avevano patito dal più sfacciato ladro e carnefice tra i Commessarii di polizia, il Campobasso. Noi chiamiamo in testimonianza quegli scienziati, essi tornati a loro paesi han dovuto narrare che orrori hanno uditi e veduti. La Polizia non se ne vergognò: ed il Ministro si sdegnò contro tutti quei rivoluzionarii che si chiamavano scienziati; i quali, come ei disse ad un suo confidente, erano venuti a turbare la pace del regno e sua.
Cominciato il processo il Commessario ed il Cancelliere lo menano per le lunghe, aspettando che vengano i parenti degli imputati ad acconciar la faccenda con denari: ed i commessi, che sono impiegati senza soldo, e vivono desiderando delitti e morti, e scorticando chi vien loro alle mani, i commessi si preparano co' birri al guadagno ed alla festa. Gli avvocati criminali con grosse mance si tengono amici i cancellieri ed i commessi, e mutano a loro voglia i processi; sicchè colui che non ha per dare a tutta questa turba affamata soffre ogni pena, ogni crudeltà; su di lui mostrano tutto lo zelo e si fanno onore i manigoldi della Polizia. Un uomo di civil condizione fu arrestato come ladro; gli furono trovati in casa parecchi orologi, anelli, orecchini, collane, ed altri ornamenti d’oro: confessò sette furti fatti con chiavi false a sette mercatanti; fu ben trattato in carcere, ebbe la piccola pena di sei anni di reclusione. Il Re clementissimo gli fece grazia prima di quattro anni, poi di quindici mesi, poi delle spese del giudizio. Aveva dato trecento ducati al Commessario Campobasso, che con tanto amore lo protesse e gli fece avere perdono. Non dirò il nome del ladro; ma la causa fatta nel 1841, il processo e i rescritti di grazia stanno nella Corte Criminale di Napoli, e chi vuole può leggerli.
Per i delitti di Stato non v’è altra pena, che o morte o galera: i processi son fatti dalla Polizia segretamente, con lunghe e sottili torture. Fino dal 1846 ne giudicavan le Commissioni militari, e la Suprema Commissione di Stato, ma abolite queste Commissioni i giudizi appartengono a tribunali ordinari. La causa di quest’abolizione non è stata benignità o volontà di seguire quello che molti chiari uomini hanno scritto di queste scellerate Commissioni, dappoichè il nostro governo non si cura delle chiacchiere di costoro, ma è stata una causa segreta che noi vogliamo palesare. Nel 1839 vennero arrestati come settari della Giovane Italia alcuni giovani, i quali ebbero ardire di ritorcere l’accusa e dir che la Polizia avea inventata la setta, e li calunniava, e si difesero in modo che i giudici li assolvettero dicendo che non avevano prove per condannarli. Il Ministro sul quale era caduta la colpa, infuriò contro que’ giovani, disse al Re che la Commissione era composta di giacobini; a quei giudici furono sostituiti altri, e dopo un anno fu abolita la Commissione di Stato e le altre Commissioni militari. Il Ministro pensò che abolita la Commissione di Stato, dove erano alti e fedeli magistrati che non temevano di lui, egli creava ventidue Commissioni quanti sono i tribunali del regno, dove sono giudici giovani, ambiziosi; dove si possono fare ventidue cause senza rumore, senza che gl’imputati possano far pervenire i loro lamenti agli altri Ministri ed al Re, dove il Ministro può esercitare la sua prepotenza, e, benchè da lontano la sua onnipotenza. La Polizia fa ancora i processi, la discussione è ancora segreta, e tra giudici militari che non sapevano di legge, e giudici togati venduti al Ministro non v’ha nessuna differenza. Nè gli avvocati possono levar la voce contro la Polizia, se da avvocati non vogliono diventare accusati; dappoichè anche Giuseppe Marcarelli presidente della Corte Criminale di Napoli, uomo amato e riverito da tutti, perchè da avvocato officioso difese magnanimamente gli accusati della Giovane Italia, venne in odio del Ministro che gli fece torre ogni impiego. Or quanti pochi sono coloro che hanno il coraggio e la dignità del Marcarelli! Veggasi dunque che le generosità del nostro governo sono ingegnose oppressioni.
Quando poi non ci sono pruove da fare una causa, basta una denunzia anonima, o un sospetto per far chiamare le persone fin dalle lontane province, e gettarle in una prigione, dove stanno finchè piace al Ministro, o vengon mandate sopra un’isola a morir di fame e di stento, senza nemmen sapere la cagione della loro pena, senza essere interrogati una volta. Nelle carceri ci sono alcuni sventurati da dieci, da quindici, da vent’anni, non giudicati, ma per comando della Polizia. Negli affari di Stato la Polizia può ritener in carcere le persone anche dopo che sono state assolute da un tribunale, può mandarle in un’isola, o anche in esilio; può fare ogni più scellerata cosa, e la fa sfacciatamente. Negli affari più lievi il primo ordine del Ministro, la prima parola che gli esce di bocca, senza vedere, senza udire, è l’arresto, le manette, le mazzate. Ogni birbone che vuol offender altrui, o vendicarsi, inventa un’accusa, la quale basta per l’arresto di un uomo, per perderlo ne’ suoi negozi, per subissarlo nelle sostanze. E questo si dice mantener l’ordine pubblico. Quello che il Ministro fa in Napoli, nelle provincie lo fanno gl’Intendenti, i Sotto-Intendenti, i Commessarii, gl’Ispettori, i Giudici regi. Nelle Calabrie poi è rotto anche quest’ordine feroce: chè quelle regioni sono in uno stato di guerra permanente. Egli è vero che le Calabrie sono state sempre il paese dei briganti, per l’indole fiera degli abitatori; ma è vero ancora che il governo costringe quella dura gente al delitto, e la Polizia ve li fa pullulare. I briganti cercano ai proprietari qualche somma di danaro, ed avutala, offendono solo chi li offende, vivono soli, guardinghi, tranquilli. La gendarmeria che deve perseguitarli tassa i proprietari per armar le milizie urbane, poi va alle costoro mandre, e prende pecore, agnelli, cacio a sua voglia, e batte i pastori che dan da mangiare ai briganti. Mentre i gendarmi fanno una via, i briganti sono o in casa di un uffiziale, cui han dato il danaro avuto da proprietari, o in altro luogo che l’uffiziale ben conosce. Così i briganti son sempre miseri, i gendarmi sempre ricchi, i proprietari sempre assassinati or dagli uni or dagli altri. Giosafatte Talarico, celebre bandito calabrese, è stato per dodici anni il signore della Sila, beffandosi dei gendarmi, del Ministro, e di tutti i cinquantamila soldati del Re. Gli fu proposto di capitolare, ed il Ministro gli portò e gli diè, di sua mano in Cosenza il decreto di grazia. Ora è in Lipari, armato con diciotto ducati al mese: i compagni ne han dodici. Il vescovo di Lipari lo ha fatto confessare, e sposare una brigantessa sua compagna, ed ha scritto al Re desse più larga pensione al Talarico divenuto buon cristiano, marito, e suo compare. Il Re poteva negar nulla ad un vescovo che pregava per un brigante? Il Ministro si è gloriato di aver liberate le Calabrie da un mostro. E pure lo sciagurato Giosafatte faceva minor male che gli affamati gendarmi, e il rapacissimo capitano Salzano. Il solo Del Carretto gendarme si può gloriare di quello che farebbe vergogna ad ogni uomo, di essere sceso ad accordo con un brigante, di dar cuore agli altri di divenir celebri briganti. Quanto è vile la Polizia delle Sicilie! quanto è stupida e balorda! quanto è maggior di lei anche Giosafatte Talarico!
E quanto è ladra! Non bastando al Ministro nè i suoi soldi, nè quelli del figlio, che fanciullo di 10 anni è tesoriere della cassa di sconto con 500 ducati al mese, nè il danaro per le spie, che son poche, sciocche e mal pagate; non bastandogli i ricchissimi doni di cocchi, di cavalli, di vasellamenti d’oro e d’argento, di finissimi drappi che gli vengon dati da coloro che lo vogliono protettore, o non nemico (i nomi dei quali si potrebbe dire); voleva metter mano anche nella cassa della Prefettura, ma il Prefetto l’impedì. Egli fa suoi tutti i libri che vengon dall’estero, e che son proibiti dai revisori, onde si ha formata una ricca e gran biblioteca. I Commessari seguono l’illustre esempio. Quando nei dì di festa non han danari da far banchetti, mandano ad arrestar le meretrici, dicendo che debbono sloggiare, che la vicinanza è scandalezzata: quelle meschine danno danari, e rimangono altro tempo nella casa per essere richiamate e ripagare. Prendono ogni cosa dai bottegai, e niente pagano: e se uno cerca il suo, dopo poco tempo si vede in bottega un impertinente che fa nascere una rissa: son tutti presi, si chiude la bottega, si fa un gran processo: i parenti vanno con la borsa, ed ecco riaprire la bottega, lacerar il processo, in tutto pace ed ordine pubblico. Per mantener quest’ordine i ladroncelli che per le vie rubano i fazzoletti dalle tasche, dividono i furti con i birri e gl’ispettori: per quest’ordine nelle prigioni certi caporioni detti camorristi, armati di pugnali tolgono per forza ai loro miseri compagni danari, e, a chi non ne ha, anche il pane; e danno parecchi scudi ogni mese all’Ispettore: per quest’ordine la Polizia per aver danari protegge le biscazze, dove tanti stolti vanno a gittar le loro fortune ed ammiserir le famiglie.
Non contenta la Polizia di rubarci, di tormentarci co' gendarmi, con le mazzate, con le torture, con le carceri, con le spie, col metter mano in tutto ed opprimerci in tutto, vuol tormentare anche il pensiero. Ha scelto alcuni uomini d’ingegno mediocrissimo, di cuore fetidissimo, che un dì furono carbonari ed ora sono veri sbirri dell’ingegno; ed alcuni altri scrittorelli di giornali, che digiuni facevano i Bruti, ed ora impiegati vogliono aver merito di fedelissimi; ed a questo fior d’ingegni ha dato il carico di compilar quella vergogna del nostro giornale, e la censura dei fogli periodici, e dei libri non più lunghi di dieci fogli di stampa.
Non è a dire quanto sono stolti e ridicoli questi censori, i quali non solamente vietano di scriversi tutto quello che vien loro comandato di vietare, ma cassano e aggiungono quello che è secondo il loro gusto, e le loro opinioni particolari, il loro capriccio: e mentre da una parte cancellano le parole popolo, cittadino, nazione, dall’altra fanno stampare certe scritture sciocche e bestiali che svergognano la nazione. Inoltre oggi permettono quel che ieri proibirono, e proibiscono quel che ieri permisero: non vi è gente che più di questa strazia il senno comune; danno la tortura a coloro che vogliono scrivere in un paese dove si deve tacere, soffrire, pagare, confessarsi e lodare il Re. La compilazione del giornale consiste nel volgere e troncare le notizie straniere, ed i soli atti del governo che si fanno noti pubblicamente, sono che il Re ha preseduto al Consiglio di Stato, che ha traslocati magistrati, che ha fatto un trattato di commercio. Talvolta ancora il Ministro sentendosi morso da qualche giornale forestiero, scrive egli stesso qualche articolo, del quale se ne riconosce l’autore ad uno stile sbirresco ed arrogante; ed alla sottoscrizione X, Y. O Del Carretto opprimici ma non iscrivere! Lo stolto talora parla di cose che il pubblico, non sa, perchè non legge i giornali forestieri, ed egli, gliele fa sapere con le sue gendarmesche spavalderie; le quali fanno ridere anche i fanciulli, che vi trovano i più nuovi spropositi di grammatica. La gente onesta geme a tanta baldanzosa vigliaccheria: e così siamo oppressi dentro, e svergognati fuori.
Note
- ↑ Queste mazzate prima si davano solamente a chi avesse scagliato pietre: ora la polizia le dà a tutti quelli che han resistito alla forza pubblica, a carcerati che han mancato di rispetto ai Commessarii, o sono venuti alle mani tra loro. Presidente di questa Commissione era Giuseppe de Cristofaro, il più brutto, il più ladro, il più crudele, il più ipocrita, il più sozzo malvagio della terra. Anima del ministro, contabile del ministero con soli 60 ducati al mese, ha rubato tanto e sì spietatamente che ha comperato cocchi, casini, possessioni, s’ha fatto un sepolcro al Camposanto spendendovi seimila ducati. Questi è il boia dei poveri carcerati, e la furia che consiglia il Ministro ad incrudelire. Il Re sapute tante ribalderie gli tolse tanto potere. De Cristofaro ricorse a Monsignore: ed ora ha il potere stesso, vive, gode, si confessa, si comunica, insulta Dio e gli uomini.