Principii di geometria/Note
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NOTE
§ 1.
P2. Si legge «la proposizione a = b è equivalente alla b = a». Volendo, invece dei punti, usare le parentesi, si dovrebbe scrivere
P3. «Dall’insieme delle proposizioni a = b, e b = c si deduce la a = c». I punti stanno per indicare l’aggruppamento
Le proposizioni 1, 2, 3 esprimono le proprietà caratteristiche di ogni identità. Esse sono fra loro irreduttibili.
P4. «Se a e b sono punti allora ab indica una classe di punti (figura)».
P5. «Se a, b, c, d sono punti, a coincide con b, c con d, allora il segmento ac è identico a bd».
Le proposizioni 4 e 5 dicono che «il segmento ab è una classe di punti, determinata dati i due punti a e b».
Si ha così una categoria di enti, chiamati punti. Questi enti non sono definiti. Inoltre, dati tre punti, si considera una relazione fra essi, indicata colla scrittura c ∈ ab, la quale relazione non è parimenti definita. Il lettore può intendere col segno 1 una categoria qualunque di enti, e con c ∈ ab una relazione qualunque fra tre enti di quella categoria; avranno sempre valore tutte le definizioni che seguono (§ 2), e sussisteranno tutte le proposizioni del § 3. Dipendentemente dal significato attribuito ai segni non definiti 1 e c ∈ ab, potranno essere soddisfatti, oppure no, gli assiomi. Se un certo gruppo di assiomi è verificato, saranno pure vere tutte le proposizioni che si deducono, non essendo queste proposizioni che trasformazioni di quegli assiomi e delle definizioni.
§ 2.
Per definizione si intende una proposizione della forma x = a, ovvero a ⊃ . x = a, ove a è un aggregato di segni avente senso già noto, x è il segno, gruppo di segni, che si vuol definire, ed a è l’ipotesi sotto la quale si dà la definizione. Dire che, dati certi enti, si può definire un nuovo ente x, significa che cogli enti dati si può formare un’espressione a in guisa che si abbia l’eguaglianza x = a.
È chiaro che non tutti gli enti si possono definire; ma è importante in ogni scienza di ridurre al minimo numero gli enti non definiti. Di questi si enuncieranno solo le proprietà. La riduzione degli enti non definiti al minimo numero presenta alcuna volta dell’arbitrario; così se mediante a e b si può definire c, e mediante a e c si può definire b, resta in nostro arbitrio la scelta come sistema irreduttibile fra a, b e a, c. Così, nel nostro caso, invece dei segni 1 e ab (punto e segmento) si sarebbero potuti assumere i segni 1 e a’b (punto e raggio); la cosa non sarebbe stata possibile assumendo come concetti non definiti il punto e la retta.
Se in una scienza sonvi enti non definiti ed altri definiti, tutte le proposizioni di quella scienza esprimono proprietà dei soli enti non definiti.
Il significato qui attribuito alla parola definizione coincide, ovvero non, col comune? È facile il vedere che le definizioni che compaiono in matematica, eccettuate al più le prime tuttora oggetto di discussione, tradotte in simboli, hanno la forma precedente. Si esaminino ad es. le definizioni di numero primo, di limite, della continuità delle funzioni, di derivata, ecc.
P1. «Essendo a e b due punti, col segno a’b si intende la classe formata dai punti x tali che il segmento ax contenga nel suo interno il punto b».
P2. Per i segmenti, ed in generale, ove si intenda con c ∈ ab una relazione simmetrica in a e b (Assioma V), sarà ab′ identico con b′a. Se colla scrittura c ∈ ab si intende «c è equidistante da a e da b», allora ab è il luogo dei punti equidistanti da a e da b; a′b è la superficie sferica di centro b e passante per a. Gli accenti introdotti in queste due definizioni figurano in certo modo come segno d’inversione. Essi permettono di risolvere la relazione c ∈ ab rispetto ad una qualunque delle tre lettere (§3 P4). Il segno ab′ si può leggere «il prolungamento, dalla parte di a, del segmento ab».
P3. «Se a è un punto, e k è una classe di punti, allora con ak si intende l’insieme di tutti i punti x che hanno la proprietà che esistono degli y, appartenenti alla classe k, tali che x sia un ay».
P4. «Nelle stesse ipotesi, a′k è il luogo dei punti x che stanno su qualche a′y, ove y appartenga a k».
P5. «E con ak′ si intende la figura formata dai prolungamenti dalla parte di a, dei segmenti che vanno da a ai varii punti di k».
P6. «Se h e k sono due figure, con hk si intende l’insieme dei punti x aventi la proprietà che si può determinare un y, punto di h, in guisa che x appartenga alla figura yk». Più brevemente (§3 P17), hk è la figura formata dai segmenti che vanno dai varii punti di h ai varii punti di k.
Le definizioni 3 — 8 permettono di indicare con segni un gran numero di enti geometrici. Così abc indica un triangolo; abcd, ovvero (ab)(cd), indicano tetraedri; a′bc indica la porzione di piano limitata dal segmento bc e dai due raggi a′b e a′c; a′b′c è l’angolo formato dai due raggi a′c e b′c; ab′c è la porzione di piano limitata dal raggio b′c, dal segmento ac, e dal raggio condotto da a parallelamente a b′c; a′b′c′d è un angolo triedro, ecc. Questo in generale. Ma quei segni, e altri più complicati hanno pure significato, se i punti giacciono in un piano, o sono in linea retta. Così a′ab indica il raggio avente per termine a e contenente b.
Se col segno 1 si intendono i numeri (reali e finiti), e colla relazione c ∈ ab si intende un’equazione fra a, b, c della forma f (a, b, c) = 0, allora la scrittura d ∈ abc (d è un punto del triangolo abc) rappresenta la relazione fra a, b, c, d che risulta eliminando x fra le due equazioni f (b, c, x) = 0 e f (a, x, d) = 0.
P9. Questa definizione è sufficiente per le nostre ricerche geometriche. Ma data una classe h, applicando un numero finito di volte le definizioni 6, 7, 8 si ottengono delle classi, come hh, h′h, h(hh′)′, ecc., le quali, se nessuna proprietà si conosce dalla relazione fondamentale c ∈ ab, sono in numero infinito. Se a questa relazione si attribuiscono le comuni proprietà geometriche, esse non sono tutte distinte.
Si hanno definizioni di maggiore eleganza nel modo seguente. Essendo h una classe, si chiami classe derivata da h, e si indichi con h* la classe formata da h, e da tutte quelle che se ne deducono ripetendo più volte le operazioni date dalle def. 6, 7, 8. La definizione di h* non si può esprimere coi segni introdotti, poichè in essa occorre il concetto di numero. Essa si può esprimere mediante questi segni, e quelli introdotti nella «Arithmetices principia». Allora si può definire per retta (P10) la classe derivata da due punti non coincidenti, e per piano (P12) la classe derivata da tre punti non collineari. Queste definizioni e quelle del testo, ammessi gli assiomi geometrici, finiscono per coincidere; ma, scambiando le definizioni, l’ordine delle proposizioni verrebbe del tutto alterato, poichè alcune proposizioni sulla retta e sul piano, che ora dipendono dagli ultimi assiomi, ne diventerebbero indipendenti, e viceversa.
P10. Il segno 2 si può leggere retta, poichè la classe qui definita è precisamente quello che chiamiamo retta, se alle parole punto e segmento attribuiamo il comune significato. Questa definizione si legge:
«Retta è ogni ente x avente la proprietà di potersi eguagliare ad un (ab)′′, ove a e b siano punti distinti».
P11. Il segno Cl si legga collineari.
«Se a, b, c sono punti, allora dire che a, b, c sono collineari, equivale a dire non è assurdo l’immaginare un ente r che sia una retta, e che contenga i punti a, b, c».
P12. Il segno 3 si può leggere piano, per la ragione esposta alla P10.
«Piano è ogni ente (abc)′′, ove a, b, c siano punti non collineari».
P13. Il segno Cp leggasi complanari.
«Quattro punti diconsi complanari se giacciono in un medesimo piano».
Le definizioni 11 e 13 sono abbreviazioni, di cui si potrebbe anche fare a meno.
P14. Il segno Cnv leggasi figura convessa.
«Figura convessa significa ogni ente x il quale sia una classe di punti, e sia tale che comunque si prendano a e b, purché punti di x, si possa dedurre che ab è contenuto in x».
Ossia «figura convessa è una figura che contiene tutto il segmento che unisce due suoi punti qualunque».
§ 3.
I teoremi contenuti in questo § si deducono puramente dalle definizioni e assiomi logici; e sono qui opportune alcune parole sulla dimostrazione.
È noto che la Logica scolastica non è di sensibile utilità nelle dimostrazioni matematiche; poichè in queste mai si menzionano le classificazioni e regole del sillogismo, e d’altra parte vi si fa uso di ragionamenti, del tutto convincenti, ma non riduttibili alle forme considerate in Logica. Per questa ragione alcuni matematici, fra cui Cartesio, proclamarono essere l’evidenza l’unico criterio per riconoscere l’esattezza d’un ragionamento1.
Ma questo principio lascia alla sua volta a desiderare. Una dimostrazione può essere più o meno evidente; essere evidente per una persona, dubbia per un’altra; e ad ognuno sarà successo di trovare insufficienti delle dimostrazioni già ritenute esatte. Esso poi lascia tanto più a desiderare nelle nostre ricerche, le quali si riferiscono a proposizioni, cui si è tanto abituati, che possono parere a molti pressochè evidenti.
Però questa questione è suscettibile di soluzione del tutto soddisfacente. Invero, ridotte, come qui si è fatto, le proposizioni in formule analoghe alle equazioni algebriche, allora, esaminando le comuni dimostrazioni, si scorge che esse consistono in trasformazioni di proposizioni e gruppi di proposizioni, aventi massima analogia colle trasformazioni delle equazioni algebriche simultanee. Queste trasformazioni, o identità logiche, di cui facciamo continuamente uso nei nostri ragionamenti, si possono enunciare e studiare.
La raccolta delle identità logiche di cui facciamo uso fu già fatta nel mio opuscolo menzionato; molte di esse furono raccolte dal Boole. Il loro numero è grande; sarebbe uno studio interessante, e che finora manca, il distinguere le fondamentali, che si debbono ammettere senz’altro, dalle rimanenti, contenute nelle fondamentali. Questa ricerca porterebbe ad uno studio, sulla Logica, analogo a quello qui fatto per la Geometria, e nel precedente opuscolo per l’Aritmetica.
Nelle note seguenti trovansi alcuni saggi di queste trasformazioni.
P1. «Se a e b sono punti, si deduce: dire che c è un a′b, equivale a dire che c è un punto e che b è un ac. Dimostrazione: Questa prop. è equivalente alla P1 del §2».
È evidente che questa prop. è la def. 1 leggermente trasformata. Volendo esaminare più attentamente come la def. 1 si trasformi in questa, si sostituisca nella prop. c ∈ a′b, al posto di a′b, il valore dato dalla def. 1. Si avrà: c ∈ a′b . = . c ∈ (1. [x ∈] (b ∈ a x)). Ora un’identità logica dice che, se h e k sono due classi di enti, si ha a ∈ h ∩ k . = : a ∈ h . a ∈ k. Applicando questa riduzione al secondo membro dell’equazione precedente, si avrà c ∈ a′b . = : c ∈ 1 . c ∈ [x ∈] (b ∈ ax). Ora, se α è una relazione contenente una lettera x, la proposizione c ∈ [x ∈] α, cioè c è uno di quegli enti x che soddisfano alla condizione α, è equivalente alla proposizione che si ottiene sostituendo in α, al posto di x, c; quindi c ∈ [x ∈] (b ∈ ax) . = . b ∈ ac. Tenendo conto di questa identità si ha la formola a dimostrarsi.
Viceversa, da questa proposizione si può dedurre la P1 del § precedente. Si faccia precedere ai due membri dell’eguaglianza tesi il segno [c ∈]; osservando che [c ∈] c ∈ a′b . = a′b, poichè i due segni [c ∈] e c ∈ si distruggono, e che [c ∈] (c ∈ 1 . b ∈ ac) vale 1. [c ∈] (b ∈ ac), in virtù dell’identità logica [c ∈] (α β) . = : [c ∈] α . [c ∈] β, si avrà la prop. 1 del §2, ove al posto di x si legge c.
Noi ci fermeremo in seguito pochissimo nell’esame della trasformazione delle proposizioni, il quale, per chi non ha presenti tutte le identità logiche, risulta troppo faticoso.
Il lettore può continuare ad adottare, onde riconoscere se un ragionamento sia esatto, o non, il comune criterio dell’evidenza. Qui basta notare che queste trasformazioni sono assoggettate a regole fisse, raccolte nell’opuscolo menzionato.
P2. «Dim. Dalla prop. 1 si deduce la 2».
Ecco la trasformazione: Si congiunga ai due membri dell’eguaglianza tesi nella 1 la proposizione c ∈ 1. Osservando che una proposizione ripetuta due volte equivale alla stessa scritta una volta sola (αα = α), si avrà la proposizione
Ricorrendo alla proprietà logica
ove α, β, γ, δ sono proposizioni (cioè dire che nell’ipotesi α, la condizione β γ è equivalente alla β δ, significa dire che dall’ipotesi α β si deduce γ = δ), si ha la proposizione 2.
P3. La 3 si ottiene dalla def. 2 come la prop. 2 si è dedotta dalla def. 1.
P12. «Se a è un punto, h e k sono figure, e se h è parte di k, si deduce che ah′ è parte di ak′. Dim. Dall’ipotesi e da P8 si deduce che la proposizione x ∈ ah′ vale: x è un punto, ed esistono dei punti comuni ad h e x′a; da questa si deduce che x è un punto, ed esistono dei punti comuni a k e a x′a; questa vale x ∈ ak′; adunque da x ∈ ah′ si deduce x ∈ ak′, ossia la tesi».
Le identità logiche cui si ricorre in questa dimostrazione sono: Se h, k, l sono classi (d’una stessa categoria), si ha
cioè se h è contenuto in k, anche la classe h ∩ l è contenuta in k ∩ l. Poi
cioè se h è contenuto in k, ed esistono degli h, esistono pure dei k. Infine alla
cioè dire che h è contenuta in k, vale dire che tutte le volte che x è un h, si possa dedurre che x è un k.
Le prop. 10 e 11 si enunciano e dimostrano come la 12.
P29. «Se a, b, c sono punti, non collineari, allora (a b c)" è un piano».
§ 4.
P1. «La classe punto non è nulla», ossia «esistono dei punti».
Di questo assioma non avremo mai occasione di fare uso, e si potrebbe sopprimere. Si è citato per analogia cogli assiomi II, IV, VII, XII, XV. Del resto questa proposizione fa parte dell’ipotesi di quasi tutte le proposizioni. Così nell’assioma seguente l’ipotesi è che a sia un punto, dalla quale ipotesi si deduce che esistono dei punti.
P2. «Se a è un punto, si deduce che l’essere x un punto diverso da a non è, rispetto ad x, assurdo», ossia «dato un punto, esistono dei punti non coincidenti in esso».
Di questo assioma si fa uso solo in §9P20, e precisamente per poter affermare «tre punti coincidenti sono collineari». Questo assioma è pure contenuto nelle ipotesi di alcune proposizioni, ad es. nell’ass. IV.
P3. «Se a è un punto, la classe aa è nulla».
Se al posto della relazione fondamentale c ∈ ab si sostituisce una relazione qualunque fra tre enti, questa proposizione non è in generale vera. Se 1 significa numero (finito), e si prende per relazione fondamentale un’equazione f(a, b, c) = 0, che supporremo algebrica e di primo grado in c, affinchè sia vera la prop. 3, che qui nel nostro caso significa: «l’equazione f(a, a, c) = 0 non può essere soddisfatta da alcun valore di a e di c», bisogna che il coefficiente di c in f(a, b, c) sia divisibile per a — b, e non lo sia il termine noto. Se il coefficiente di c è a — b, allora questa relazione soddisfa ai due assiomi III e IV.
P6. «Se a, b sono punti, e c è un punto di ab, saranno a e b distinti». Le P4 e 5 sono i passaggi intermediarii dalla P3 alla 6.
§5.
P1. L’assioma V dice che il segmento ab è funzione simmetrica di a e b. Non ogni relazione sostituita al posto di c ∈ ab, è simmetrica rispetto ad a e b. Se a, b, c sono numeri, e f(a,b) è una funzione simmetrica di a e b, la relazione (a — b)2 c = f(a,b) soddisfa a tutti gli assiomi finora enunciati.
P9. Se con ab si fosse inteso il sistema di punti giacenti sul segmento ab, compresi gli estremi, l’assioma VI non sarebbe verificato.
P16. L’assioma VII dice che un segmento non nullo si può prolungare da una qualunque delle sue parti.
Gli assiomi finora enunciati esprimono le proprietà primordiali dei segmenti; quelli che seguono sono alquanto più complicati.
Il sig. M. Pasch nel suo pregevole libro Vorlesungen über Geometrie (Leipzig 1882), onde studiare le proprietà della retta, parte pure dal concetto di segmento, enunciandone le proprietà fondamentali mediante Grundsätze (Assiomi) e quelle che se ne possono dedurre mediante Lehrsätze (Teoremi). Ecco i due primi assiomi del Pasch:
«I. Zwischen zwei Punkten kann man stets eine gerade Strecke ziehen, und zwar nur eine».
«II. Man kann stets einen Punkt angeben, der innerhalb einer gegebenen geraden Strecke liegt».
Si scorge l’equivalenza di questa seconda proposizione col mio Ass. IV.
Qual’è il significato della prima? L’espressione «due punti» presenta una prima ambiguità, indicando essa, nel linguaggio comune, ora «due punti qualunque» ora «due punti distinti». Nel primo significato la prima parte della prop. I si può tradurre
la quale è la P4 del §1. Nel secondo significato essa si traduce
ed allora si escludono i segmenti nulli. È nel secondo significato che vanno intese le parole dell’A., come si vede dalla prop. II.
La stessa espressione «due punti» si presta ancora ad un’altra ambiguità, poichè essa indica talvolta la successione (disposizione) di due punti, altra volta il gruppo (combinazione) dei punti. Nel primo caso, la seconda parte della prop. I si può interpretare
ovvero, brevemente,
ed allora essa comprende anche l’Ass. V del presente scritto. È la seconda interpretazione che bisogna dare alle parole dell’A.
Si vede da questa breve discussione quanto sia difficile in questioni così delicate, anche ad un accurato scrittore, evitare ogni pericolo di ambiguità, ove si proceda col linguaggio comune. Onde vincere questa difficoltà occorre analizzare ogni proposizione, e fissare completamente il valore dei termini di cui ci serviamo. Così facendo si arriva necessariamente o alle notazioni logiche, che qui uso, o a un sistema equivalente.
Il Grundsatz III del Pasch significa:
Esso è un gruppo di tre proposizioni. L’una è la P11 del §5, equivalente all’Ass. VI, l’altra è la P6 del §4, equivalente all’Ass. III; l’ultima è la P18 del §6, e questa è un teorema.
I Grundsätze IV, V, VI, VII, VIII del Pasch corrispondono ai miei Ass. VIII, IX, VII, X, XI.
In seguito, poichè il Pasch considera la porzione di piano come un nuovo ente non definito, cessa ogni analogia fra il suo studio e il mio.
§ 6.
Le proposizioni contenute in questo § e nei successivi, non hanno tutte eguale importanza; molte di esse costituiscono una successione di trasformazioni, colle quali, partendo da una proposizione se ne deduce un’altra.
Un procedimento notevole di trasformazione di proposizioni, e di cui facciamo uso qui ed in seguito, è l’eliminazione che sta nella seguente regola:
«Avendosi una proposizione, i cui due membri (Hp e Ts) contengano una stessa indeterminata x, si metta, ove sia possibile, la proposizione sotto la forma:
Allora la stessa proposizione si può scrivere:
nella quale non comparisce più la lettera x».
L’assioma VIII ha già la forma voluta per l’eliminazione di b (si osservi che b ∈ 1 . b ∈ ac : = : b ∈ ac). Eliminando b, si ha la P2; da questa con uno scambio di lettere, la 3. Dalla 3 e dalla 4, la quale si ottiene dalla 3 permutando a con b, si ha la proposizione 5 che comprende le precedenti.
Dalla 7, eliminando c, si ha la 8. Dalla 9 si deduce la 10 prima eliminando b, e poi sostituendo la lettera b a c.
Qui per brevità si è già tralasciato di enunciare la proposizione intermedia; e in generale, man mano che si progredisce, aumenta il numero delle proposizioni intermedie omesse. Dalla stessa proposizione 7, che si può mettere sotto la forma 9, eliminando c si ha la 10. E questo gruppo di proposizioni è compendiato nella 11.
Eliminando invece, dall’assioma da cui partiamo, il d, si ha la proposizione 12. Onde eseguire questa eliminazione occorre risolvere le proposizioni c ∈ ad e b ∈ ad, che contengono d, rispetto a questa lettera, scrivendo al posto di esse d ∈ a′c e d ∈ a′b; allora si applica la regola enunciata.
Le proposizioni 13-17 costituiscono un altro gruppo; l’ultima contiene tutte le precedenti.
La 18 non ha propriamente la forma Hp ⊃ Ts, che hanno le precedenti. Si può mettere sotto questa forma trasportando una delle proposizioni che costituiscono l’ipotesi nel secondo membro; essa si può per esempio leggere
Allora si può eseguire l’eliminazione d’una qualunque delle tre lettere che vi compaiono colla regola esposta. Ma volendo considerare la proposizione sotto la forma che essa ha, si può usare la regola seguente.
«Avendosi un proposizione, il cui secondo membro sia ∧, e il cui primo membro contenga un’indeterminata x, si risolvano, ove si possa, le proposizioni che contengono x, rispetto a questa lettera, e si riduca la proposizione alla forma
ove a è una proposizione non contenente x, e h, k, l sono delle classi. Allora la stessa proposizione si può scrivere
in cui non comparisce la x».
Eliminando con questa regola la c dalla 18 si ha la 19; eliminando invece la a si ha la 20, da cui, con una permutazione di lettere la 21. L’eliminazione di b condurrebbe di nuovo alla 19.
Per eliminare la lettera c dall’assioma VIII, si osservi che questa lettera comparisce nell’Hp. e non nella Ts.; quindi non siamo in nessuno dei due casi precedentemente trattati. Si può ridurre al secondo trasportando la Ts. nel primo membro. Del resto la regola ad applicarsi in questo caso è la seguente:
ove x è una indeterminata, a e b sono proposizioni non contenenti x, e h, k sono classi, la stessa proposizione si può scrivere, eliminando x,
Eliminando c dall’Ass. VIII con questa regola si ha la 22, da cui, con trasformazioni, le 24 e 26.
Dall’Ass. VIII si potrebbe pure eliminare a. Il risultato è la proposizione poco interessante:
§ 7.
Dall’Ass. IX eliminando b si ha la 2, o con scambio di lettere la 3, la quale unita con una del § precedente, dà luogo alla 4.
Eliminando c dalla 5 si ha la 6, da cui si ricavano in modo analogo al precedente le 7 e 8. Eliminando a dalla stessa proposizione si ha la 22; eliminando d si ha la 27. L’eliminazione di b darebbe nulla d’importante.
Le proposizioni più importanti di questo § sono le 4, 16, 19, 20, 21, 30, 31, 35, 43, 46.
Le altre, o sono trasformazioni intermediarie, oppure proposizioni che saranno completate dagli assiomi che seguono.
§ 8.
All’Assioma X si può sostituire la proposizione seguente:
a,b ∈ 1.c, d∈ a’b:⊃ .·.e∈ 1.c, d∈ae:— = e∧.
«Se a e b sono punti, e c,d sono punti del raggio a’b allora esiste un punto e tale che i punti c e d appartengano al segmento ae».
Si immagini una porzione di superficie qualunque, e dicansi 1 i punti interni ad essa. Si supponga che esista sempre uno ed un solo arco di geodetica congiungente due punti qualunque della superficie data, e che esso sia sempre interno alla porzione considerata. Indicando con ab l’arco di geodetica che unisce i due punti a e b, interni a quella porzione di superficie, sussisteranno tutti gli assiomi precedenti il X; questo, a seconda dei casi, potrà essere vero, o non; quindi esso non è conseguenza dei precedenti.
Le proposizioni più importanti di questo § sono le 4, 12, 15, 19.
§ 9.
Gli assiomi X e XI si possono sostituire con questa sola proposizione:
a,b,c,d∈ 1.p,q∈ab. p,q∈cd.p— =q:⊃.·.x,y∈ 1.a,b,c,d∈x,y:— = xy∧.
«Se a,b,c,d sono punti ed i segmenti ab e cd hanno comuni due punti distinti, quei quattro punti appartengono ad uno stesso segmento».
Sono a notarsi le P. 3, 5, 8, 15, ecc.
Molte altre proposizioni si possono dedurre dagli assiomi finora enunciati. Si lascia al lettore la cura di esaminare da quali di questi assiomi dipendano le proposizioni seguenti, ed altre analoghe:
a, b, c e 1. o: ac o ab: =. c e a u ab u &.
» ac = afr. =. e ~ &.
» a r c = a r b. =. c~ b.
» a f coa’&. =.ceflu&u a’&.
» bc o a’&. =. e e b <-> a’&.
» c’a = b’a. =. c e a’ab.
§ 10.
P1. «Esistono dei punti non contenuti in una data retta». Questo Ass. occorre solo in §11 P28, onde poter dedurre che quattro punti collineari sono anche complanari.
Nelle P22, 31 i punti (...) stanno per brevità al posto di termini, scritti nella P32.
Si notino le P. 6, 9, 13-15, 27, 32, ecc.
§ 11.
Si notino le P. 4, 6, 7, 10, 15, 16, ecc.
La dimostrazione della P17, benché lunga, è per concetto semplice. Si fa vedere che le varie parti della figura (abc) r diversamente raggruppate, formano la figura (abd) tr. Da essa si deduce una successione di altre, di cui le ultime, più importanti, sono le 24 e 25.
§ 12.
L’assioma XV dice «dato un piano, esistono dei punti non contenuti in esso».
Di questa proposizione non avremo occasione di fare uso nelle poche proposizioni seguenti. Essa però è necessaria in altre ricerche.
L’assioma XVI dice: «dato un piano, e due punti da bande opposte del piano, allora ogni punto dello spazio o sta sul piano dato, ovvero uno dei segmenti che lo uniscono ai punti dati incontra il piano». Questa proposizione dice in sostanza che lo spazio che noi consideriamo è a tre dimensioni. Questo assioma serve per dimostrare la proposizione che segue «due piani aventi un punto comune, hanno comune una retta».
Si osservi però che si può dimostrare, senza bisogno degli assiomi del presente paragrafo, la proposizione:
p ∈ 3.a,b,c,d ∈ p.a — = b.c — = d.e ∈ 1.e — ∈ p : ⊃ .·. r ⊃ (eab)’’ .r ⊃(ecd)’’:— = r∧.
«I piani che uniscono un punto e con due rette ab e cd d’uno stesso piano non passante per e s’incontrano secondo una retta».
Di questo solo caso particolare si fa uso nella Geometria di posizione. Di qui (e dall’Ass. XV) si deduce il noto teorema sui triangoli omologici, e le innumerevoli conseguenze. Quindi la Geometria di posizione non ha bisogno dell’Assioma XVI.
APPENDICE
Delle parallele.
Le parallele si possono definire, coi concetti finora introdotti, o secondo Euclide, o secondo la Pangeometria; quindi si può svilupparne la teoria.
Che il postulato di Euclide sulle parallele non sia contenuto negli Assiomi qui enunciati, risulta da ciò, che, se col segno 1 si intendono i punti interni ad una data sfera, o ad un dato solido convesso, e ad a’b si attribuisce il comune significato, allora sussistono tutti gli assiomi finora enunciati; ma non è verificato il postulato di Euclide.
Attenendoci quindi ai metodi della Pangeometria, daremo della relazione «il raggio a’b è parallelo al raggio c’d, e che indicheremo con a’b||c’d, la seguente
Definizione.
a,b,c,d ∈ 1.⊃:a’||c’d.=bc’d=da’b.