Polinice (Alfieri, 1946)/Atto secondo

Atto secondo

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Giocasta, Creonte.

Creon. Deh! fine omai poni al lungo tuo pianto.

Questo dí stesso, che parea di stragi
apportatore, non fia spento forse,
che vedrem pace in Tebe. Un orror tale
seppi inspirar di cotant’empia guerra
d’Eteócle nel cor, che in mente quasi
di ristorar la víolata fede
fermo egli ha; dove il fratel suo pur cangi
minacce in preghi.
Gioc.   Oggi i fraterni sdegni
fine avran, sí; ma il fin qual fia? sta scritto
nei fati; e il ciel soltanto il sa. Deh! fosse,
qual men lusinghi tu! Null’altra speme
pria di morir m’avanza... A pace alquanto
d’Eteócle il superbo animo dunque
piegar potevi? Io ’l crederò. Ma, resta,
resta a placarsi inacerbito il core
dell’esul figlio. Io piangerò; che posso
poco altro omai: preghi, minacce, e preghi,
mescendo andrò; ma il sai, non sono io madre
pari all’altre; né vuol ragion, ch’io speri
quel, ch’io non merto, filíal rispetto.

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Creon. Io tel ridico, acquetati: fra tante

armi, desir di piú sincera pace
mai non si vide. Ecco Eteócle; ah! compi
l’impresa tu, cui buon principio io diedi.


SCENA SECONDA

Giocasta, Eteocle.

Gioc. Giunto è l’istante, o figlio, ove l’un l’altro,

senza rancore, al mio cospetto, esporre
sue ragioni dovrá. Giudice fammi
tra voi natura. Io, piú d’ogni altri, in core
io far ti posso risuonare addentro
quel sacro nome di fratel, che omai
piú non rammenti.
Eteoc.   E sel rammenta ei meglio?
fratello egli è, qual cittadin; fratello,
qual figlio egli è, qual suddito: del pari
ogni dovere ei compie.
Gioc.   Ogni dovere,
meno il dover di suddito, ti lice
annoverare. A lui tuo giuro espresso
te fa suddito; eppure, io re ti veggio. —
Nell’udirti appellar suddito, fremi?
Ma dimmi, di’; piú chiaro è il titol forse
di re spergiuro?
Eteoc.   E re sprezzato, or dimmi,
titol non è piú infame? Omai, chi sciolto
hammi dal giuro, se non l’armi sue?
Io libero giurai; libero voglio,
non a forza, attenere. Il mal difeso
trono ov’io mai per mia viltá lasciassi,
come ardirei ridomandarlo io poscia?
Gioc. Giá il tuo valor, giá la fierezza è nota;
fa, ch’or lo sia la fede. Ah! di feroci

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virtú non far contra un fratello pompa.

Uman ti mostra, e generoso, e pio;
madre non vuol dal figlio altra virtude:
forse a te par virtú di un re non degna?
Eteoc. Non degna, no, se di timore è figlia. —
Brevi udrai mie parole: al tuo cospetto
ragion, se il puote, ei del suo oprar darammi.
Madre, vedrai, ch’alma ho regal; ch’io tengo
l’onor piú in pregio, che la vita e il regno.


SCENA TERZA

Polinice, Giocasta, Eteocle.

Gioc. Oh da gran tempo invan bramato figlio!

Pur ti riveggo in Tebe!... Al fin ti stringo
al sen materno... Oh quanto per te piansi!...
Or di’: miglior fatto ti sei? chiedesti
la madre; eccola: in lei l’orrido incarco
di fraterna querela a depor vieni?
Deh! dimmi; a me, consolator ne vieni,
o troncator de’ miei giorni cadenti?
Polin. Cosí pur fossi al tuo pianto sollievo,
madre, com’io il vorrei! Ma, tale io sono,
che meco apporto, ovunque il passo io volga,
l’ira del cielo. Ancor, pur troppo! o madre,
lagrime assai dovrò fors’io costarti.
Gioc. Ah no! fra noi non di dolor si pianga;
di gioja, sí. Vieni; al fratel ti appressa;
mi è figlio, e caro, al par di te: se nulla
ami la madre, placido a lui parla;
porgigli amica destra; e al seno...
Eteoc.   Or, dove
t’innoltri tu? Guerrier, chi sei? quell’armi
io non ravviso. — Il mio fratel tu forse?
Ah! no; che spada, ed asta, ed elmo, e scudo,

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non son gli addobbi, onde vestito venga

al fratello il fratello.
Polin.   E chi di ferro
me veste, altri che tu? Dimmi; quel giorno,
che in queste soglie, di un fratello a nome,
venía chiedendo il mio regno Tidéo,
recava (dimmi) ei nella destra il brando,
o il pacifero ulivo? A lui si diero
parole il dí; ma, nella infida notte,
al suo partire, insidíosa morte
se gli apprestò di furto. Ei soggiacea,
misero! se men prode era, ed invitto.
Quanto accadde al mio messo, assai mi accenna,
che in questa reggia alta ragion fian l’arme.
Gioc. Deh! ciò non dir: non v’hai tu madre in questa
reggia? e, finché ve l’hai, ti estimi inerme?
Ecco il tuo scudo, miralo, il mio petto;
questo mio fianco, che ad un tempo entrambi
voi giá portò: deh! l’altro scaglia; ai nostri
caldi amplessi ei s’oppon; tacito dirne
par, che nemico infra nemici stai.
Eteoc. Né tu segno aspettar da me di pace,
se pria non apri il pensier tuo; se il dritto
pria non esponi, onde ti attenti in Tebe
suddito cittadin tornarne in armi.
Polin. Narrar mio dritto a chi sol forza è dritto,
mal potrei, se con me forza non fosse.
Grecia il sa tutta; e tu nol sai? tu il chiedi? —
Io dirtel vo’: regnasti; e or piú non regni.
Eteoc. Folle, il saprai, s’io regno.
Polin.   Hai scettro, e nome
finor di re; fama non n’hai, né fede.
Io che non son spergiuro, a te il mio trono,
volto l’anno, rendea: di’, non giurasti
tu pur lo stesso? Il mio giurar mantenni;
il tuo mantieni. — Il mio retaggio chieggo:

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fratel, se il rendi; aspro, implacabil, crudo

mi avrai nemico, ove tu il nieghi. — Espresso
eccoti, e chiaro il pensier mio. La terra
parla, ed il cielo, in mio favor; sí, il cielo,
giá testimon dei giuramenti alterni,
seconderá questo mio brando, io spero;
e lo spergiuro ei punirá.
Eteoc.   Gli Dei
che chiami or tu de’ tuoi delitti a parte?
L’armi fraterne hanno in orror: fia segno
a lor vendetta chi primier le strinse.
Polin. Perfido, il nome or di fratel rammenti?
Or, che mi sforzi alla fraterna guerra,
ne senti orror? Ma, non sei tu quel desso,
che orror di spergiurarti non sentivi?
Quest’armi inique, il mancator di fede
primo le stringe. È tua la guerra; è tuo,
di te solo è il delitto...
Gioc.   Alme feroci,
questa è la pace? — Uditemi, ven priego,
udite...
Eteoc.   In trono io seggo; io re, ti dico,
che fin che Adrasto e gli Argivi abborriti
stringon Tebe, di pace io no, non odo
proposta niuna; e te non soffro innanzi
al mio regio cospetto.
Polin.   Ed io, rispondo
a te, che il trono usurpi, e re ti nomi;
rispondo io quí, che rimarran gli Argivi,
ed io con lor, se non attieni pria
tuo giuramento tu.
Eteoc.   Madre, tu l’odi:
odi mercé, che a’ suoi delitti implora. —
Che fai tu in Tebe? Escine dunque.
Polin.   In Tebe
me rivedrai; ma in altro aspetto: agli empj

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apportator d’inevitabil morte.

Gioc. Empj, voi soli; ed io, che a voi son madre.
Or via si ammendi il fallo mio: quel ferro
volgete in me; son vostro sangue anch’io.
Emuli al male oprar, d’Edippo figli,
nati al delitto, ed al delitto spinti
dalle furie implacabili, quí, quí
torcete i brandi; eccolo il ventre infame,
stanza d’infame nascimento. Ucciso
non il fratel, da voi la madre uccisa;
ben altro è il fallo; è ben di voi piú degno.
Eteoc. Strano a te par quanto a lui chieggo?
Polin.   E ingiusto
nomi il mio diffidare?
Gioc.   E ingiusto è forse
il mio furor? — Non del richiesto regno,
t’irriti tu; ma perché in armi è chiesto?
E tu, non stringi ad altro fin quell’armi,
che ad ottenere il regno tuo per l’anno? —
L’un dunque il brando, il non suo scettro l’altro
deponga quí: mallevador fra voi,
se giuro io ciò che giá voi pria giuraste,
chi smentirmi ardirá?
Eteoc.   Non io, per certo. —
Madre, tu il vuoi? perdonerogli io dunque
l’oltraggio, a Tebe, ed a me, fatto. Ei primo
ceda; ei fu primo ad assalirci. Appena
i nostri campi avrá dall’oste sgombri,
ed ei fia il re. Dargli ben voglio il trono,
non, ch’ei mel tolga. E mel potrebbe ei torre,
finché di sangue in me riman pur stilla? —
Scegli omai tu: me presto vedi a tutto:
ma, se tra noi rotta è la pace, il sappi,
che ria cagion sol ne sei tu: ricada
l’orrore in te d’iniqua guerra, e il danno.

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SCENA QUARTA

Giocasta, Polinice.

Polin. E il tuo voto si adempia: ira del cielo

piombi sul capo mio, se in me sincero
non è il desio di pace!...
Gioc.   Amato figlio,
creder tel deggio?
Polin.   Madre, altro non bramo,
che risparmiare il teban sangue; ed altro
non brama Adrasto. È ver, che ad Argo il piede,
bench’io il volessi, ei volger niegherebbe,
se pria tener non mi vedesse in Tebe
l’avíto scettro.
Gioc.   Oimè! Primier tu dunque
ceder non vuoi?
Polin.   Nol posso.
Gioc.   A te chi ’l vieta?
Polin. Prudenza.
Gioc.   In me non fidi?...
Polin.   In lui, non fido:
giá m’ingannò.
Gioc.   Se disgombrar tu nieghi
Tebe dall’armi, io crederò che fama
di te non mente; e che, a rovina nostra,
con Adrasto novelli empj legami
di sangue hai stretti; e che funesta dote
tu richiedesti al suocero, la guerra.
Polin. Duro mio stato! Il cor squarcianmi a gara
quindi la sposa, e il fanciul mio, piangenti,
che amaramente dolgonsi del loro
tolto retaggio; quinci alta pietade,
madre, di te mi stringe, e dell’afflitta
egra patria tremante... Eppur, deh! pensa;
ben tel vedi; che pro, s’io rimandassi

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i guerrier miei? giá non saria men vero,

che se il fratello cede, al timor cede,
non al mio dritto. Or, qual v’avria guadagno
pel suo superbo onore? Ei lunge (il credi)
la forza vuol, perché sol forza il doma.
Gioc. E tu adoprarla vuoi, perché ti assolve
la forza poi da ogni altro patto.
Polin.   O madre,
sí mal conosci i figli tuoi? — Ben sai;
nasceamo appena, e mi abborria ’l fratello:
nell’odio ei crebbe; e in lui dentro ogni vena
l’odio col sangue scorre. È ver, non l’amo;
che amar chi t’odia, ell’è impossibil cosa;
ma nuocergli non vo’; pur ch’io non paja
soffrir suoi scherni, e Grecia non mi vegga
vil sostener tacendo oltraggi tanti.
Gioc. Odi virtú! Pregiar Grecia ti debbe,
perché al fratel di te peggior non cedi? —
Sublime fin d’ogni tuo voto è dunque
di Tebe il trono? Oh! non sai tu, che in Tebe
sommo infortunio è il trono? Il pensier volgi
agli avi tuoi: qual ebbe in Tebe scettro,
e non delitti? Illustre certo è il seggio,
dove Edippo sedea. Temi tu forse,
non sappia il mondo ch’ebbe figli Edippo? —
Virtude hai tu? lascia a’ spergiuri il trono.
Vuoi tu vendetta del fratel? ch’ei venga
in odio a Tebe, a Grecia, al mondo, ai Numi?
Lascia ch’ei regni. — Anch’io, sul soglio nata,
miseri giorni infra sue pompe vane,
giorni di pianto, ogni piú oscuro stato
invidíando, io trassi. — Oh fero trono!
Ch’altro sei tu, che un’ingiustizia antica,
ognor sofferta, e piú abborrita ognora?
Mai non t’avess’io avuto, onor funesto!
Ch’io non sarei madre or d’Edippo, e moglie;

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ch’io non sarei di voi, perfidi, madre.

Polin. Mortalmente mi offendi. E che? del regno
minor mi tieni? Ah! non è, no, il mio fine
il crear legge ogni mia voglia, il farmi
con finto insano orgoglio ai Numi pari;
non è il mio fin, benché regnar si appelli.
Se in me virtú nei lieti dí non vana
parola ell’era; or, negli avversi, sappi
ch’io piú cara la tengo. Adrasto in Argo
scettro m’offre: se regno io sol volessi,
giá regnerei.
Gioc.   Piú che ottenere il regno,
dunque abbi caro il meritarlo, o figlio.
Spero l’avrai; ma pur, s’ambo c’inganna
il tuo fratel, di chi è l’infamia, dimmi;
di chi la gloria? A mie ragioni, ai preghi,
al pianto mio, deh! cedi; al pianto cedi
della infelice patria tua; vorresti,
pria che in Tebe regnar, distrugger Tebe?
Polin. Tel dissi io giá: guerra non vo’; ma giova,
piú certa pace ad ottener, la forza.
Gioc. Ami la madre tu?
Polin.   Piú di me l’amo.
Gioc. Sta la mia vita in te...


SCENA QUINTA

Creonte, Giocasta, Polinice.

Gioc.   Creonte, ah! vieni;

compi di vincer questo; all’altro io corro.
Qual cederá di voi? tu; se rammenti,
che da te sol pendon la madre, e Tebe.

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SCENA SESTA

Polinice, Creonte.

Creon. Misera madre! oh quanto io la compiango!...

Mal suoi figli conosce. Oh! sol da questo
pendesse pur! lieta ella fora. — Or, dimmi;
tu dunque cedi: al tuo fratel ti affidi...
Polin. Nulla per anco è in me di fermo: assai
mi spiace, è ver, l’udir nomarmi in Tebe
nemico; e duolmi di fraterna rissa
l’eccitator parervi: eppur, che deggio,
che farmi omai?
Creon.   Regnare.
Polin.   E aver poss’io
quí, senza sangue, regno?
Creon.   — Io te solea
fin da bambino tener quasi figlio:
ben vidi io sempre in te l’indol migliore;
e alla fra voi pendente madre, oh quante
volte osservar la fea! — Cor non mi basta
or d’ingannarti, no. — Non avrai regno
quí, senza sangue.
Polin.   Oh ciel!...
Creon.   Ma sceglier puoi:
sta in te; poco versarne, o assai...
Polin.   Che ascolto?
Ben era questo il mio timor da prima.
Soltanto io dunque ho dell’error la scelta?...
No, mai non fia, no mai: tanti, e sí sacri
dritti coll’armi (ah!) víolar non voglio;
e sia che può: mezzo non voglio iniquo
a ragion giusta. In Argo torni Adrasto;
solo, ed inerme, io rimarrommi in Tebe.
Creon. Ottimo sei, qual ti credea; tuoi detti
io ben commendo: ma, poss’io lasciarti

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sceglier tuo danno, e il nostro?

Polin.   E certo è il danno?
Creon. Di’: conosci Eteócle?
Polin.   Il so; mi abborre,
quanto ama il trono, e piú; ma parmi, o forse
lusinga ell’è, che mal suo grado io trarlo
a generoso oprar con generosi
modi potrò: vergogna anco può molto;
Tebe avremo, e la madre, e Adrasto, e il mondo
quí testimonj oggi fra noi...
Creon.   Ma, i Numi
nol fur giá pria? Che parli? e madre, e Numi
schernisce l’empio, e Adrasto, e Tebe, e il mondo.
Mi è forza omai chiaro parlarti. — Stringe
spergiuro re con ferrea man lo scettro
di Tebe: orror di tutti, e vita e regno
avria perduto ei giá, se in sua difesa
non vegliasse il terrore. Ultima speme
eri ai Tebani tu: l’oppresso volgo
termine a’ mali suoi quel dí credea,
che te piú mite risalir vedrebbe
sul soglio avíto... Or, che sperar?... Quel giorno
mai non verrá.
Polin.   Mai non verrá? Fia questo,
fia questo il dí.
Creon.   Forse, fia questo... Ahi giorno!...
Prence infelice!... Altri ti usurpa il seggio;
né il riavrai, finch’egli ha vita. — Ah! credi;
giá ti si ascrive il chiederlo, a delitto:
giá...
Polin.   Qual raccendi in me furor novello,
quando a gran pena a mitigar l’antico
io cominciava?
Creon.   Il re giurò poc’anzi,
ed io l’udii, ch’ei non morria che in trono.
Polin. Ma spergiurar suol egli; e fia spergiuro

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questa fíata; io tel prometto. — Iniquo,

vivrai, ma non sul trono.
Creon.   Invan lo speri:
via non ti resta a risalirvi omai,
se non calcando il tuo fratello estinto.
Polin. D’orror tu m’empi: io nel fraterno sangue
bagnarmi? Agghiaccio al rio pensier... Funesta
corona infame, oh! sei tu grande tanto,
che a comprar t’abbia cosí gran misfatto?
Creon. Se il regno solo toglierti ei volesse,
poco sarebbe: ma tant’oltre è scorso
l’odio, e lo sdegno snaturato in lui,
che all’un di voi, vita per vita è forza
pigliarsi, o dar...
Polin.   Non la sua vita io voglio...
Creon. La tua darai.
Polin.   S’anco quí solo io resto,
il cielo, il brando, e il mio valor, son meco;
né a lui facile impresa aver mia vita
fora...
Creon.   Il valor contro all’iniqua fraude
che può? Quí aspetti generoso sdegno?
Polin. Insidie a me si tendon dunque? Oh! parla;
svelami...
Creon.   Oh ciel!... Che fo?... Ma pur... S’io il dico,
e nol previeni tu, vittima cado
io del tiranno, e te non salvo.
Polin.   A farmi
vil traditore il rio terror non basta
d’un tradimento. Parla: o mezzi avravvi
onde salvarmi; o ch’io cadrò; ma solo,
io sol cadrò.
Creon.   ... Tu spergiurar non sai... —
Osi tu sacra a me giurar tua fede
d’orrido arcano, ch’io mi appresto a dirti?
Polin. Sí; per la vita della madre io ’l giuro;

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mi è sacra, il sai: parla.

Creon.   ... Ma, questa è reggia,
e a noi nemica reggia;... a lungo forse
quí troppo io giá ti favellai... Me siegui.
Altrove andianne...
Polin.   E dal tiranno in Tebe
havvi loco securo?
Creon.   I tanti suoi
accorgimenti con molt’arte è forza
deluder. Quinci esce segreto un calle,
che al tempio giva, or disusato: andiamvi.
Tutto colá saprai: vieni.
Polin.   Ti seguo.