Polinice (Alfieri, 1946)/Atto primo

Atto primo

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Personaggi Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Giocasta, Antigone.

Gioc. Tu sola omai della mia prole infausta,

Antigone, tu sola, alcun conforto
rechi al mortal mio duolo: e a te pur vita
l’incesto diè; ma il rio natal smentisci.
D’Edippo io moglie, e in un di Edippo madre,
inorridir di madre al nome io soglio:
eppur da te caro mi è quasi il nome
udir di madre... Oh! se appellar miei figli
i tuoi fratelli ardissi! oh! se ai superni
numi innalzar la mia colpevol voce!
Io pregherei, che in me volgesser sola,
in me, la giusta loro ira tremenda.
Antig. In ciel, per noi, pietá non resta, o madre;
noi tutti abborre il cielo. Edippo, è nome
tal, che a disfar suoi figli per se basta;
noi, figli rei giá dal materno fianco;
noi, dannati gran tempo anzi che nati...
Che piangi or, madre? il dí, che noi nascemmo,
era del pianto il dí. Nulla vedesti
(misera!) a quanto anco a veder ti avanza:
nuovi fratelli, e nuovi figli, appena
dato Eteócle e Polinice han saggio
finor di se...

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Gioc.   Poco finor pietosi

al padre, è ver; tra lor crudi fratelli;
deh! che non sono alla lor madre iniqua
nemici, a miglior dritto? In me null’altra
pena è che il duol, scarsa al mio orribil fallo.
In trono io seggo, e l’almo sole io veggio,
mentre infelice ed innocente Edippo,
privo del dí, carco d’infamia, giace
negletto; e lo abbandonano i suoi figli:
forza è, per lor, che doppio orrore ei senta
d’esser de’ proprj suoi fratelli il padre.
Antig. Lieve aver pena a paragon d’Edippo,
madre, a te par: ma da sue fere grotte
bench’or pel duolo, or pel furore, insano,
morte ogni dí ben mille volte ei chiami;
benché in eterne tenebre di pianto
sepolti abbia i suoi lumi; egli assai meno
di te infelice fia. Quel, che si appresta,
spettacol crudo in questa reggia, ascoso
gli sará forse; o almen co’ paterni occhi
ei non vedrá ciò che vedrai; gl’impuri
empj del vostro sangue avanzi feri
distruggersi fra loro. Al colmo giunti
giá son gli sdegni; e in lor qual sia piú sete,
se di regno, o di sangue, mal diresti.
Gioc. Io vederli... fra loro?... Oh cielo!... io spero,
nol vedrò mai. Viva mi tiene ancora
il desir caldo che nel core io porto,
e l’alta speme, di ammorzar col pianto
quella, che tra’ miei figli arde, funesta
discorde fiamma...
Antig.   E ten lusinghi?... Oh madre!
Uno è lo scettro, i regnator son duo:
che speri tu?
Gioc.   Che il giuramento alterno
si osservi.

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Antig.   Ambo giuraro: un sol l’attenne;

e fuor del trono ei sta. Tumido il preme
lo spergiuro Eteócle; e di tradita
fede ei raccoglie il frutto iniquo. Astretto
a mendicar dalle straniere genti
Polinice soccorsi, all’ire sue
qual fin, s’ei non ha regno? E a forza darlo
come vorrá chi può tenerlo a forza?
Gioc. Ed io, non sono? aver tra lor può loco
l’ira, se in mezzo io sto? Deh! non mi torre
la speme mia! — Per quanto or fama suoni,
che a sostener dell’esul Polinice
gl’infranti dritti, d’Argo il re si appresti;
per quanto altero, ed ostinato seggia
sul trono l’altro; in me, nel petto mio,
nel pianto mio, nel mio sdegno rimane
forza, che basti a raffrenarli. Udrammi
il re superbo rammentar sua fede
giurata invano; e Polinice udrammi
rammentar, ch’ei pur nacque in questa Tebe,
ch’or col ferro egli assal... Che piú? mi udranno,
se mi vi sforzan pur, lo infame loro
nascimento attestar: né l’empie spade
troveran via fra lor, se non pria tinte
entro al sangue materno.
Antig.   Omai, s’io spero,
spero in quel che non regna: era ei pur sempre
miglior, d’assai; né il cor da esiglio lungo
aver può guasto mai, quanto il fratello
dal regnar lungo...
Gioc.   Assai miglior tu estimi
l’esule? eppur dal filíal rispetto
finor non veggio al par di lui spogliarsi
Eteócle: ei non m’ha straniera nuora,
senza il mio assenso, data; egli di Tebe
non ricorre ai nemici...

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Antig.   Ei, l’aspra sorte,

e il lungo esiglio, ed i negati patti,
a sopportar non ebbe. Ah! madre; in breve,
qual piú tra loro abbia virtú, il vedrai.


SCENA SECONDA

Eteocle, Giocasta, Antigone.

Eteoc. Eccolo, ei vien quel Polinice al fine;

ei vien colui, che tua pietá materna
primo si usurpa. Il rivedrai, non quale
di Tebe uscia: ramingo, esule, solo;
non qual mi vide ei ritornar nel giorno,
ch’io a lui chiedeva il pattúito trono:
torna egli a noi con la orgogliosa pompa
di possente nimico: in armi ei chiede
l’avíto seggio al proprio suo fratello:
bramoso e presto a incenerir si mostra
le patrie mura, i sacri templi, i lari,
la reggia, in cui le prime aure di vita
pur bevve; questa, che fratelli, e madre,
e genitor racchiude; e quanto egli abbia
di sacro, e caro. — Ogni ragion riposta,
ogni legge, ogni speme, egli ha nel ferro.
Gioc. Vera è la fama dunque? Oh cielo! in armi
al suol natío...
Eteoc.   Non è, non è costui
tebano omai; si è fatto Argivo: Adrasto
diè lui la figlia, ed ei daragli or Tebe.
Come ei calpesti il suol natio, dall’alte
torri, se ciò mirar ti piace, il mira:
vedi ondeggiar ne’ nostri campi all’aure
di un tuo figlio le insegne; ampio torrente
vedi il piano inondar d’armi straniere.
Gioc. Non tel diss’io piú volte? a ciò lo traggi

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a viva forza tu.

Eteoc.   Del mio fratello
assalitor me non vedrai: di Tebe
ben la difesa io piglierò.
Antig.   Da Tebe
credo che nulla ei chiegga. A te con l’armi
chied’egli or ciò, che giá negasti ai preghi.
Eteoc. Preghi non fur, comandi furo; e ad arte
ingiuríosi, onde obbedir negassi.
Ed io, per certo, all’obbedir non uso,
in trono io sto. Ma sia che vuol, mi assolve
ei stesso omai dalla giurata fede:
l’abbominevol nodo che lui stringe
ai nemici di Tebe, omai disciolto
l’ha dai piú antichi vincoli.
Gioc.   M’è figlio,
m’è figlio ancor; tal io l’estimo: e forse
farò, ch’ei te fratello ancora estimi.
Affrontar voglio il suo furore io prima:
io scendo al pian; tu resta...


SCENA TERZA

Creonte, Eteocle, Giocasta, Antigone.

Creon.   Ove rivolgi,

dove, o sorella, il piè? Giá chiuso è il passo;
giá le tebane porte argine al ferro
d’Argo si fanno; e da ogni parte cinte
son d’armati le mura: orrida vista! —
Solo, a tutti davanti un buon trar d’arco,
presso alle porte Polinice giunge:
in alto ha la visiera; inerme stende
l’una mano ver noi; dell’altra abbassa
al suol la punta dello ignudo brando.
Cotale in atto, audacemente ei chiede

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per se l’ingresso, e non per altri, in Tebe:

la madre noma, e di abbracciarla ei mostra
impazíente brama.
Eteoc.   Oh! nuova brama!...
Col ferro in man, chiede i materni amplessi?
Gioc. Ma tu, Creonte, di depor quell’armi
non gl’imponevi? I sensi miei piú interni
noti a te sono; il sai, s’io pur la vista
soffrir potrei, non che abbracciare un figlio,
che minacciar col brando osa il fratello.
Creon. Sono le sue parole tutte pace;
né i prodi suoi con militar licenza
scorron pe’ nostri campi: arco non s’ode
suonar finora di scoccato strale;
ed ogni argivo acciar digiuno ancora
del teban sangue sta. Posan sul brando
le immobili lor destre; ogni guerriero
da Polinice pende; e alzarsi udresti
dal campo un misto mormorío, che grida
«pace ai Tebani, e a Tebe.»
Eteoc.   Orrevol pace
questa a voi fia, per certo. A me soltanto,
dunque a me sol reca il german la guerra?
Sta ben: l’accetto io solo.
Antig.   Ma, s’ei parla
di pace pure?... Udiamlo pria...
Gioc.   Solo entri
in Tebe; udire il vo’; né tu vietarlo
a me il potrai.
Creon.   Pur ch’ei l’inganno in Tebe
con se non porti.
Antig.   Ah! nol conobbe ei mai.
Eteoc. Certo, il sai tu. — Parmi, che a te sian noti
gl’intimi sensi suoi; simíli forse
siete fra voi...
Gioc.   Figlio, (ahi me lassa!) oh quanto,

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quanto mal chiuso fiele entro a’ tuoi detti

aspri traluce!... Ah! venga, ei venga in Tebe,
tra le mie braccia; e quí deponga ei l’armi. —
Ad impetrar pace dai Numi, o figlia,
al tempio intanto andiamo... Ei di me chiede?
Figlio amato! gran tempo è ch’io nol vidi!...
Forse in me sola, e nel materno immenso
imparzíal mio amore egli ha riposto,
piú che ne’ suoi guerrieri, ogni sua speme.
Mi è figlio al fine; ei t’è fratello: io sola
arbitra son fra voi. Quale ei ritorni,
prego, dona all’oblio per brevi istanti;
rammenta sol, quale ei n’uscia di Tebe;
quanti anni andò per tutta Grecia errante,
contro tua data fede: in lui ravvisa
un infelice, un prence, un fratel tuo.


SCENA QUARTA

Eteocle, Creonte.

Eteoc. Con minacce avvilirmi, e a me far forza,

quel Polinice temerario spera? —
Vedi ardire! in mia reggia ei solo adunque
verrá, quasi in mio scherno? E che? fors’egli,
sol col mostrarsi, or di aver vinto estima?
Creon. Tutto previdi io giá, dal dí che venne
di Polinice a nome il baldanzoso
Tidéo, chiedendo il pattúito regno.
L’aspre minacce, i dispettosi modi,
che alla richiesta univa, assai mi fero
di Polinice il rio pensier palese.
Pretesti ei mendicava, onde rapirti
per sempre il comun trono. Or, chiaro il vedi,
il vuol, per non piú renderlo giammai:
e ad ogni costo il vuole; anco dovesse

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l’infame via sgombrarsen col tuo sangue.

Eteoc. Certo, e mestier gli fia berselo tutto;
che la mia vita, e il mio regnar, son uno.
Suddito farmi, io, d’un fratel che abborro,
e vie piú sprezzo? io, che l’ugual non veggio
Sarei pur vil, se allontanar dal soglio
potessi anco il pensiero. Un re, dal trono
cader non debbe, che col trono istesso:
sotto l’alte rovine, ivi sol, trova
morte onorata, ed onorata tomba.
Creon. In te, signor, riviver veggo intero
l’alto valor de’ tuoi magnanimi avi.
Per te fia il nome di figliuol d’Edippo
tornato in pregio, e da ogni macchia terso.
Re vincitor, fama null’altra ei lascia
di se, che il vincer suo.
Eteoc.   Ma, ancor non vinsi.
Creon. T’inganni assai; giá, non temendo, hai vinto.
Eteoc. Che val lusinga? A tal mi veggio omai,
che fra i dubbi di guerra a me non resta
altro di certo, che il coraggio mio;
né a sperar altro, che vendetta, resta.
Creon. Re sei finora: invíolabil fede
per me, per tutti, io quí primier ti giuro.
Pria che a colui servir, cadrem noi tutti
vuoti di sangue e d’alma. Ove fortuna
empia arridesse al traditor, sul solo
cener di Tebe ei regnerá. — Ma, forse
tu il pensier ritrarrai da aperta guerra,
se dei fidi tuoi sudditi pietade
te stringe. Ah! solo, chi t’insidia, pera.
Tua sicurezza il vuole; e il vuol piú ancora,
ragion di stato. Ad un fratello cruda
parrá pur troppo d’un fratel la morte;
ma, parer men crudele, o ingiusta meno,
lunga feroce guerra a un re potrebbe?

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Eteoc. E ch’altro bramo, e ch’altro spero, e ch’altro

sospiro io piú, che col fratel venirne
all’arme io stesso? In me quest’odio è antico
quanto mia vita; e assai piú ch’essa io ’l curo.
Creon. Tua vita? oh! nol sai tu? nostra è tua vita.
Non ha il valore, è ver, piú nobil seggio,
che il cor d’un re: ma, ai tradimenti opporre
schietto valor dovrai? non è costui
traditor forse? in Tebe oggi che il mena?
Col brando in pugno, a che parlar di pace?
A che nomar la madre? egli a sedurla
vien forse; e giá l’empia sorella è sua...
gran macchinar vegg’io. — Deh! tante fraudi
non preverrai?
Eteoc.   Non dubitare: a danno
di lui l’indugio tornerá. S’ei vive,
grado ne sappia al fuggir suo: non volli
fidar sua morte ad altro braccio; al mio
dovuta ell’è. Qual ira, entro quel petto
ferir può addentro, quanto l’ira mia?
Creon. L’odio tuo immenso alla certezza or ceda
di piú intera vendetta.
Eteoc.   I piú palesi,
i piú feroci, i piú funesti mezzi,
piacciono soli a me.
Creon.   Ti è forza pure
i piú ascosi adoprar. Possente in armi
sta Polinice...
Eteoc.   Ha i suoi guerrier pur Tebe.
Creon. Hanne Adrasto piú assai. Giunge la guerra
ratta, pur troppo: ah! noi morir, non altro,
possiam per te.
Eteoc.   Ma, di guerrier che parlo?
Uno è il fratello, ed un son io.
Creon.   Lusinga
hai di sfidarlo? A lui la madre intorno,

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e la sorella, e tutti...

Eteoc.   E aprirmi strada
non saprá il brando infino a lui?
Creon.   La fama
perderesti coll’opra. Un tanto eccesso
biasmato fora anche da Tebe.
Eteoc.   E Tebe
non biasmeria la fraude?
Creon.   O non saprassi,
o mal saprassi. A un re, pur ch’ei non paja
colpevol, basta. Il reo fratello, il primo
assalitor, fu Polinice; e tale
l’arte il mantenga.
Eteoc.   Arte? ma quale?...
Creon.   Io tutto
ne assumo il carco: in me riposa; e ascolta
soltanto me: tutto saprai. Noi pria
il dobbiam trarre a simulata pace:
mentila tu sí ben, ch’ei quí s’affidi
restar, senza gli Argivi. Allor fia lieve,
che il traditor di tradimento pera.
Eteoc. Sí, pur ch’ei pera; — e pur ch’io regni; ancora
breve stagion, l’odio e il furor nel petto
racchiuder vo’.
Creon.   Dunque di pace io ’l grido
spargo ad arte: di pace alle proposte
non cederai, che a stento: al par gli amici,
e i nemici ingannare oggi t’è d’uopo.
Ma, piú che a nullo, alla tremante madre,
d’ogni sospetto sia tolta anco l’ombra.