Poesie varie (Clemente Bondi)/Giornata villereccia/Canto secondo
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canto secondo
1
Oh gran palagi d’allegrezza privi,
superbi invano di dorato tetto,
non è tra voi che i lieti pranzi avvivi
riso innocente, o semplice diletto;
che fuggon ratto timorosi e schivi
dalle noiose cure e dal dispetto,
che ognor con faccia nuvolosa intorno
fanno alle vostre mense il lor soggiorno.
2
Che importa a me che con esperta mano
gallico cuoco i cibi miei colori,
e alle vivande con ingegno strano
nuovi insegni a mentir dolci sapori?
Che importa che le mense a fasto insano
sassone argilla o sculto argento onori,
e che da mari e colli peregrini
mandi straniera vite eletti vini?
3
se poi nel pranzo e nella lauta cena
a stento gustar puoi quel che piú brami;
se poi, lasciando a parte ogni altra pena,
fa i convitati ognor miseri e grami,
e ogni gusto, ogni cibo ti avvelena
quel mostro, o furia o dea che tu la chiami,
quella che in guasta popolar favella
il buon lombardo «soggezione» appella?
4
Sta costei sol tra i grandi; e il collo dritto,
stretta la bocca tien, composto il viso:
tra gente ignota per lo piú sta zitto;
sol apre a mezzo labbro un piccol riso.
Un complimento meditato e scritto
suol fare a tutti in termine preciso:
talor col capo a’ detti altrui risponde;
spesso vien rossa in volto e si confonde.
5
A’ regal pranzi e tavole di Stato
per costume invitata assister suole:
fa cerimonie a chi le siede a lato,
e i moti suoi misura e le parole.
Se un le mette sul piatto un cibo ingrato,
per non dirgli di no, mangiar lo vuole;
€ poi, per non parer golosa o edace,
lascia star quel boccon che piú le piace.
6
Riceve i cibi, e non ne chiede mai,
e d’ampie lodi anco gl’ingrati onora:
va ripetendo che ha mangiato assai,
ma dopo il pranzo ha molta fame ancora:
del ciel piovoso e del seren l’udrai
parlar soltanto, e domandar dell’ora;
e alfin, noiata della compagnia,
il piú presto che può se ne va via.
7
Oh della villa libertá felice!
oh de’ lieti pastor mense gioconde!
le tavole imbandir almen qui lice
in chiuso albergo o sotto arboree fronde:
ognuno il suo parer mangiando dice,
né ciò che piace o che disgusta asconde:
non si ricusa per rossor vivanda,
né chi vorria del vino, acqua domanda.
8
Villa beata, a te, dalla nimica
reggia importuna e dai palagi loro,
i re noiati in lieta spiaggia aprica
fuggon cercando un libero ristoro;
e spesso a te nella stagione antica,
stanchi d’un troppo rigido decoro,
scendeano i numi sotto umane spoglie
a pastoral convito in rozze soglie.
9
Or voglio dir, per ritornar lo stile,
donde la storia mia commiato prese,
che, tra i piacer ch’ebbe lo stuol gentile,
uno fu il pranzo di non molte spese,
cui senza lusso e sotto albergo umile
si dolce e grato libertá lor rese,
poich’ebber visto passeggiando un poco
tutte le raritá del picciol loco.
10
Tornaron dunque; e al solito appetito
del cammin la stanchezza e la dimora
tale avean giunto di mangiar prurito,
che ognun giá i piatti in suo pensier divora.
Ma in cucina, cred’io, tutto è condito,
e giá del mezzodí trascorca è l’ora.
Non manca alcun: la tavola è imbandita,
e il buon Fileno al desinare invita.
11
Come al suono di tromba in un baleno
urta l’armata ostil guerresco stuolo,
che nella mischia ogni ordine vien meno,
e giá di sparse membra orrido è il suolo;
qui gambe e busti ingombrano il terreno,
lá vedi un braccio, e qui una testa a volo;
tal, fatto il segno della santa croce,
i piatti assalta quel drappel feroce.
12
In un momento scompariscon ratti
i cibi, appena su la mensa apparsi.
Tra il riso e ’l suon dei detti allegri e matti
odi i cucchiai con le scodelle urtarsi:
qua e lá son vuoti e rovesciati piatti;
ed ossi di cappon spolpati e sparsi.
Tratti all’odor dei condimenti strani,
corron saltando intorno e gatti e cani.
13
Scherzan lá dentro e van gridando forte
la Gioia e il Riso che le vien del paro;
e l’Abbondanza fuori delle porte
caccia col corno il rio Digiuno avaro.
Non cappe nere o servi d’altra sorte
veggionsi qui; che a quello stuol preclaro
corser dal vicin bosco agile e destri
in tavola a servir gli dèi silvestri.
14
Cerere bionda di pan bianco e fresco
porta ricolmo un candido paniere;
empie la dea Pomona il largo desco
di buon fichi, mellon, persiche e pere;
con un gran fiasco in man, da buon tedesco
Bacco salta da matto e fa il coppiere:
ma, celando la faccia sua caprina,
piatti e tondi il dio Pan lava in cucina.
15
L’opera ferve; e giá del pranzo ornai
l’ultima parte a terminarsi è presta.
Di lesso e arrosto n’han mangiato assai,
e sol l’estremo e miglior cibo resta:
ognun l’aspetta, e volge avido i rai,
e con la man fa cenno e con la testa:
ma giá l’accusa il vivo odor fragrante,
giá l’aspettato vien piatto fumante.
16
Come talor, se rondine discende,
con l’esca usata in bocca al tetto fido,
lo stuol digiuno de’ pulcin che attende,
all’arrivo di lei solleva il grido;
ognuno a gara il collo allunga e stende,
e il rostro aperto mostra fuor del nido;
tale, al recarsi il cibo saporito,
ognun s’alza a veder dal proprio sito.
17
Cresce ne’ nostri campi un seme eletto,
che grosso e lungo ha il gambo, ampia la fronda;
dal paese natio «granturco» è detto,
e mette al maturar pannocchia bionda,
che curva piegar suol sul gambo eretto,
si numerosa di granelli abbonda;
ha lunga barba e conica figura,
ed è d’un palmo e piú la sua misura.
18
Ben macinata la farina e sciolta,
che gialla è di color, morbida al tatto,
dentro uno staccio s’agita e si volta,
e d’ogni crusca si rimonda adatto;
indi in bollente e cavo bronzo accolta,
si mesce all’onda, e poi per lungo tratto
sul focolar uom di robusta lena
con un grosso baston l’aggira e mena;
19
né cessa dal lavoro infin che cotta
in sodo impasto si restringe e addensa:
dal foco allor si toglie e, mentre scotta,
sopra si versa a ripulita mensa;
indi su lei, che in fette è giá ridotta,
e burro e cacio larga man dispensa;
e, condito cosi, grato diventa
il caldo cibo, e chiamasi «polenta».
20
Giacque lunga stagion ésca abborrita
sol tra’ villaggi inonorata e vile;
e, dalle mense nobili sbandita,
cibo fu sol di rozza gente umile;
ma poi nelle cittá, meglio condita,
ammessa fu tra ’l popolo civile,
e giunse alfin le delicate brame
a stuzzicar di cavalieri e dame.
21
Giunse il gran piatto adunque, e fece in fretta
aprir la bocca ed inarcar le ciglia;
né solo giunse giá, che seco eletta
venne d’augei moltiplice famiglia,
altri selvaggi ed altri da civetta,
ma buoni e cucinati a maraviglia:
chi gli assaggiò vi dica il lor sapore;
tocca il fumo a’ poeti e il solo odore.
22
Trenta vi sono, uccise in colli aprichi,
lòdole cérche dai palati ingordi;
dieci beccacce e ottanta beccafichi,
da far gli orbi veder, udire i sordi:
di que’ che piacquer anche ai padri antichi,
quarantacinque sono i grassi tordi;
poi messo ad arte sta diritto e solo
in cima al piatto un piccolo usignuolo.
23
Fu tua preda il meschino, e tuo fu il dardo,
amabil Tirsi, che di vita il tolse;
che mentre l’infelice al voi fu tardo,
piombo scagliato di tua mano il colse.
Cadde dall’alto sanguinoso, e il guardo
a te nel suo morir misero volse;
ma, veggendo la man che gli die’ morte,
parve men tristo di sua dura sorte.
24
Or segui pur, germe d’eroi sovrano:
usa in selve al ferir la man maestra,
e nella finta pugna non invano
a maggior opre il tuo coraggio addestra;
ché un di poi contro al barbaro Ottomano,
terror dell’Asia, volgerai la destra,
e rinascere in te dei di vetusti
vedrá l’adriaca donna i prenci augusti.
25
Ma dalla mensa omai ciascun si è tolto,
sazia giá appieno del mangiar la brama;
e da cure e pensier l’animo sciolto
con versi e suon’ di rallegrare or ama.
Silvio, che tardi? A te lo stuol rivolto
l’arco e la musa tua stimola e chiama.
Oh qual dal volto estro novel gli spira!
Su via, l’arco recate e l’aurea lira.
26
Ecco giá in man la prende, e lento pria
ricerca e tempra le discordi note;
indi ai facili versi apre la via,
e l’auree corde libero percote.
Alla beante angelica armonia
fermano il voi le stupid’aure immote;
satiri arditi e naiadi ritrose
stanno ad udir dietro la porta ascose.
27
Non si soave il cigno, allor che muore,
desta sul patrio Mincio il suo lamento;
e non del tracio vedovo cantore
suonò si dolce il flebile concento,
quando la sposa dallo stigio orrore
trasse, di nuovo duol lungo argomento;
come Silvio gentil con doppio vanto
sparge dall’arco il suon, dal labbro il canto.
28
Tu pur l’udisti, Apollo, e al garzon degno
ceder dovesti, e il contrastar fu vano.
Marsia uscí, credo, dall’elisio regno,
la scorticata pelle avendo in mano,
di tua vittoria antica ahi! troppo indegno
trionfo e crudo monumento insano;
e, te veggendo mutolo da un canto,
l’ombra sanguigna consolossi alquanto.
29
Or mentre questi con dolcezza rara
del gentil Silvio l’armonia diletta,
la turba degli dèi silvestri a gara
nella cucina si affaccenda in fretta;
e, com’è l’uso, agli ospiti prepara
l’egiziana pozione eletta
che, sdraiati sui morbidi sofá,
bevon pipando i barbari bassá.
30
Chi di lor nel fornello, atto a tal uso,
fa foco e soffia nel carbone ardente;
e chi nel cavo rame il caffé chiuso
volge intorno abbrostendo, in fin che sente
misto col fumo il grato odor diffuso,
e de’ granelli il crepitar frequente:
dal foco allora il toglie, e il gitta fuore
vestito a bruno di novel colore.
31
Altri in ordigno addentellato il trita,
e polvere ne trae minuta e molle;
altri l’occhio e la man pronta e spedita
sul vaso tien, che gorgogliando bolle:
fin sopra l’orlo in un momento uscita
l’occhiuta spuma pel calor s’estolle;
ma poi lascia il liquor purgato e mondo
l’impura feccia che ricade al fondo.
32
L’opra è compiuta; e su la mensa è presta
giá la bevanda in porcellana fina.
Silvio il zuccaro infonde, e destro appresta
le colorate tazze della Cina;
indi colma e fumante or quella, or questa
con gentil atto a ognun porge e destina:
gustanla a sorsi; e la bevanda amara
poscia corregge il rosolin di Zara.
33
Ma impazienti di maggior dimora
i giovanetti omai balzano in piedi;
e, com’è il genio lor, tutti ad un’ora
chi fuor, chi dentro dissiparsi vedi.
Questo saghe le scale, e tutte esplora
dell’alto albergo le scerete sedi;
quello corre sul prato, e in ogni loco
ognun sfida compagni a qualche gioco.
34
Altri sovra disteso e verde panno,
che una tavola egual copre e nasconde,
con lunghi magli percotendo vanno
palle d’avorio candide e rotonde.
L’un l’altro incalza; e nei fóri, che stanno
con ordin posti agli angoli e alle sponde,
mentre la palla ostil cacciar procura,
con l’occhio il colpo e con la man misura.
35
Altri, con altro gioco, in altra parte
sette vedi gittar globi di legno.
Il settimo minor tratto senz’arte
ai seguaci precorre, e nota il segno.
In due la turba si divide, e parte
contrarie schiere con ostil disegno.
Chi al primo globo appressa, ha maggior gloria,
e al duodecimo punto è la vittoria.
36
Ma Silvio e Tirsi a piú gentil battaglia
arman la destra d’inarcato arnese:
«racchetta» è detto, e d’intrecciate a maglia
corde è tessuto elastiche e ben tese;
con quello un lieve severo qual paglia
van percotendo con alterne offese:
pennuto è il legno, e con sicuro volo
s’aggira in aria, e mai non tocca il suolo.
37
Essi fermi col piè, coll’occhio intenti,
movonsi ad arte insidiosi assalti;
e avvicendano i colpi or presti or lenti,
or a destra or a manca, or bassi or alti.
Bacco e Pan, tra gli dèi che son presenti,
van matti dal piacere e spiccan salti:
gli altri stan cheti; e il lor favor, diviso
tra la coppia gentile, han pinto in viso.
38
Par l’inquieto severo egli stesso
volar tra i due garzon con proprio moto;
e or a questo or a quel non per impressa
colpo piegar, ma per istinto ignoto.
Da ognun di lor parte e ritorna; e spesso,
per incanto, cred’io, stupido e immoto
in aria il volo tremolo sospende,
e a qual dei due si volga incerto pende.
39
Tal cagnolin vid’io la nota voce
dubbio seguir di due padron ch’egli ama;
che mentre all’un di lor corre veloce,
ode il fischio dell’altro che lo chiama.
Fermasi allor; ambo rimira, e il cuoce
di dividersi a ognun contraria brama:
latra pietoso a quella parte e a questa;
corre ad entrambi, e presso alcun non resta.
40
Ma tregua ai giochi omai. Concorde istinto
altrove invita il nobile drappello;
e il vicin lago, onde l’albergo è cinto,
offre ai lieti garzon piacer novello:
su l’onda algosa, a una catena avvinto,
mobil galleggia un piccolo battello;
al margin giace, e con sicuro passo
per marmorei gradin si scende al basso.
41
Non si affollata al pallido Acheronte,
dal desio tratta dell’opposta riva,
entro la nera barca di Caronte
correr la turba suol di vita priva,
come con voglie impazienti e pronte,
l’un l’altro urtando, al margine si stiva
lo stuol de’ giovanetti disioso
di gir vagando per lo stagno ondoso.
42
Giá pieno è il legno; e’ può capirli a stento,
e sotto il peso cigolando geme.
Lo schifo Aminta timoroso e lento
col remo avanza, e contro al fondo preme;
gli altri con esca lo squamoso armento
chiamano a galla, e d’afferrarlo han speme.
Ma che vegg’io? Qual mano ascosa il legno
piega con urto, e tenta rio disegno?
43
Ah! fuggi presto, e le sospette sponde
lascia, che tu sei cerco, o Silvio mio.
Forse, chi sa? l’algoso flutto asconde
qualche rapace anch’egli o mostro o dio.
D’Ercol delizia. Ila garzon nell’onde
trasser le ascose deitá d’un rio.
— Ila! — gridava Ercol dolente, e ai gridi:
— Ila! — pietosi rispondeano i lidi.
44
Or vieni: obliqui del volubil giorno,
troppo ahi! presti al desio, piegano i rai;
e Fileno, qua e lá scorrendo intorno,
grida che tempo è di partire ornai.
Non io lento sarò: teco al ritorno
me pur compagno ne’ miei versi avrai;
ma, perché possa galoppar con brio,
do alla mia musa un po’ di biada anch’io.