Poesie varie (Clemente Bondi)/Giornata villereccia/Canto terzo
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canto terzo
1
O tu, del giorno condottier celeste,
cadente sol che, dall’eterea sfera
le ruote al mar piegando agili e preste,
cedi il cielo in governo all’ombra nera;
tu, che dal Gange estremo alto su queste
terre passando ai regni della sera,
giá il tuo corso compiesti, e tutto a fondo
misurasti con l’occhio il basso mondo;
2
fra gl’infiniti popoli e diversi
d’abito, di costume e di linguaggio,
che in borghi, in ville ed in cittá dispersi,
tutti a te scopre il tuo diurno raggio,
e in tante cure variamente immersi,
contemplasti dal ciel nel tuo passaggio,
dimmi, o sole, quai fúr che piú contenti
passar di questo di l’ore e i momenti?
3
Su l’orizzonte la serena faccia
alzasti appena dall’eoa marina,
e, quasi veltri che anelanti in caccia
seguono al noto odor preda vicina,
mille avrai visto de’ mortali in traccia
gir del diletto, ove il lor genio inchina:
ma quanta turba, oimè, per cicco errore,,
dove cerca il piacer trova il dolore?
4
So che di vario gioco al dubbio Marte
speme di lucro lusingando invita,
e al credulo Desio le pinte carte
e monti d’òr su i tavolieri addita.
Ma poi con la Fortuna il Piacer parte;
e su la faccia pallida e smarrita
del fosco giocator tacito spunta
il Furor bieco e l’Avarizia smunta.
5
So che ai teatri seducenti incanto
molli a pieghevol cor delizie spira;
e mille incauti da femmineo canto
pendono al suon d’armoniosa lira.
Per gli aurei palchi Amor profano intanto
con la Licenza e il Giubilo si aggira:
ma poi dallo spettacolo notturno
gli accompagna il Rimorso taciturno.
6
So che le adorne luminose sale
nobile stuolo danzator frequenta.
Ma qui l’Invidia critica t’assale;
la Gelosia gli sguardi tuoi commenta:
sonnacchiosa sbadiglia, e per le scale
or saghe or scende Sazietá scontenta;
e al falso Riso il loco ed alla Noia
cede, e chiamata invan fugge la Gioia.
7
Cede il loco la Gioia, e il presto volo
ritorce intanto a piú tranquilla sede;
e del Vizio nemica, alberga solo
dove Innocenza semplice risiede.
Quindi fra onesto giovinetto stuolo
scherzar compagna per lo piú si vede.
Ahi! seco porta ogni noiosa cura,
sempre innocente men, l’etá matura.
8
Tempo forse verrá, giovani eroi,
che a piú largo teatro il mondo aspetta;
tempo, dico, verrá, che alcun di voi,
cui troppo amor di libertade alletta,
se mai talvolta tra i piaceri suoi
questa chiami al pensier vita soggetta,
forse i diletti semplici e innocenti
di questo giorno con dolor rammenti.
9
Ma dove il non piacevole pensiero
per troppo caldo immaginar travia?
Dal fosco, ove inoltrò, non suo sentiero
torni la storia a piú fiorita via;
e, richiamando il vago stil primiero,
del riso amica, la gentil Talia
gli usati scherzi e il lieto suon di prima
renda di nuovo alla festevol rima.
10
Giá con le selle indosso i buon giumenti,
di fien satolli e saporoso grano,
fuor della stalla contro voglia e lenti
usciano, tratti per le briglie a mano;
ma poi sul prato di partir contenti
scotean le orecchie, e per l’erboso piano
saltellavan qua e lá, del lor soggiorno
l’orme lasciando e i monumenti intorno.
11
Quand’ecco il buon Filen, che l’ore conta,
e in mano attento l’orologio tiene,
la turba aduna, che vivace e pronta,
le lunghe sferze esercitando, viene.
Ecco ciascun su l’asino rimonta,
e il cammin piega alle felsinee arene;
ma, il piccol loco abbandonando, gira
il guardo addietro e nel partir sospira.
12
Addio, Stanza felice, almo soggiorno,
si nobil turba ad albergare eletto:
superbo meno pel gran Giove un giorno
di Bauci e Filemon fu l’umil tetto.
Ben de’ giovani eroi, che lieto e adorno
oggi ti fér del lor sovrano aspetto,
al passeggier potrai per tuo decoro
scritti i nomi mostrar in marmi ed oro.
13
De’ cibi intanto il natural calore,
che in bianco chilo li trasforma e affina,
nuovi spirti spremea, nuovo vigore
dalla cocente stomacal fucina;
e il fumoso di Bacco almo liquore,
di tosca figlio e gallica collina,
dolce serpendo, i giovanetti empia
di non intesa insolita allegria.
14
Un certo a tutti lor foco improvviso
brilla negli occhi tremoli e sereni,
che d’estro accende il colorito viso,
e gli atti avviva d’allegrezza pieni.
Mille, sveglianti un innocente riso,
nascon sul labbro arguti scherzi ameni,
e d’un confuso cicalio festivo
fan, passando, echeggiar l’aere giulivo.
15
Cosí, quando maggior dai monti cade
l’ombra che al sonno gli augelletti guida,
presso i rustici alberghi e per le strade
stuol di loquaci passeri si annida,
e degli acquosi salci in su le rade
frasche e sui faggi svolazzando grida,
e al nido usato tra le amiche fronde
con infinito pispilar s’asconde:
16
non altramente tripudiare udreste
dovunque passa il giovinetto coro.
Su la porta a veder corrono preste
le villanelle, e lasciano il lavoro;
e dei garzoni la dorata veste
mostran col dito ai figlioletti loro,
che il rozzo feltro rispettosi e chini
traggon dagl’irti, polverosi crini.
17
Passa la turba, e dietro lei su l’orme
passa seguace l’allegrezza e il gioco.
Varie nascon vicende, e multiforme
serie di strani casi in ogni loco.
Il sempre ameno Titiro non dorme,
che nelle vene giovanili ha il foco;
astuto insidia, ed il sentiero impaccia,
e tra questo e tra quel l’asino caccia.
18
Caccia l’asino in mezzo, ed uno afferra
pel braccio si, che su l’arcion traballa:
un altro quasi fa cader per terra,
urtandolo al passar con una spalla;
poi torna indietro, e a rinnovar la guerra
tenta nuovo disegno, e non gli falla;
poiché ogni volta che un somaro giunge,
con verga il batte, o di soppiatto il punge.
19
S’adombrano le bestie, e tutte in frotta
corrono a salti ove il timor le porta.
Questo perde una staffa, e quello ha rotta
la briglia, e grida con la faccia smorta.
Tutti qua e lá su l’asino che trotta,
con la persona vacillante e storta
ora da questa parte ora da quella,
piegano alterni e mal sicuri in sella.
20
Come allor che sui torbidi e spumanti
flutti s’accheta il procelloso fiato,
non però posan l’onde, e come avanti
dura l’impeto ancor del mar turbato,
e delle navi instabili e ondeggianti
or al sinistro ed or al destro lato
vedi gli altissimi alberi lontano
gir dondolando su l’ondoso piano.
21
Ma non però finor Titiro ottiene
che alcun giú balzi e nella polve cada;
che, quantunque vacilli, ognun si tiene
però sul basto e a rassodarsi bada.
Ma troppo è ver che in un sol punto avviene
ciò che fia appena che in un anno accada:
ah! Mopso mio, dunque a te sol la rea
sorte un tal colpo riserbar dovea?
22
Or tu, musa gentil, la cetra aurata
a piú vivace e lieto suono desta;
e in questa parte, non a Silvio ingrata,
che del canto leggiadro ultima resta,
l’innocente caduta e l’onorata
pugna di Mopso a celebrar t’appresta,
onde del fatto illustre eterna storia
serbi ai futuri secoli memoria.
23
Distinto in quello stuol Mopso appariva
in ben composto ed elegante arnese;
ma, come incerto e timido veniva,
stretto il ginocchio avea, le gambe stese;
e, ogni sasso schivando ed ogni riva,
ben fermo si tenea su le difese;
che, rotondetto di persona e grosso,
avea paura di stoppare un fosso.
24
Lento dunque affrettava il suo viaggia
alla discrezion dei buon ronzino;
e senza guardar mai olmo né faggio,
stava raccolto in sé col capo chino:
or volle il caso che nel suo passaggio
da un campo il vide un satiro vicino,
che un grappol d’uva non maturo ancora
stava spiccando da una vite allora.
25
Visto il garzon, non potè stare a segno,
e gli fe’ dietro motteggiando un ghigno;
e, meditando in cor nuovo disegno,
corse a una siepe il satiro maligno;
indi scomposto con sagace ingegno
di spine unite insiem pungente ordigno,
sotto la coda al somarello il mise;
poi, fatto il colpo, ritirossi e rise.
26
Punta in si viva e delicata parte,
spiccò la bestia si terribil salto,
ch’io non ricordo averne letto in carte,
o visto o udito alcun piú lungo ed alto;
ma pur fortuna, o fosse ingegno ed arte,
Mopso non cesse nel primiero assalto,
e con le mani e con le gambe strette
cosi ben s’aiutò, che in sella stette.
27
Ma, come avesse il povero giumento
i diavoli nel corpo tutti quanti,
non cessa; e pien di smania e di spavento’
volgesi intorno, e non vuol gire avanti.
Alza di dietro, e tira calci al vento,
spessi sparando crepiti sonanti;
e, mettendo la testa fra le gambe,
fa mille scherzi e capriole strambe.
28
Fermasi ognuno a riguardar la zuffa,
né bocca v’è che non esclami e rida.
L’asino ed il garzon si torce e sbuffa,
e si fa calda la piace voi sfida.
L’un sconcia i ricci, e l’altro il pelo arruffa;
l’asino raglia, e il cavaliero grida;
questi star sodo, e quel gittar pretende:
Marte è dubbioso, e la vittoria pende.
29
Ma come quercia, onor del bosco ombroso,
se scure assalga le radici immote,
ai numerosi colpi il tronco annoso
trema da prima, e l’alta cima scuote;
poi dopo lungo vacillar dubbioso
alfín ruina, e il duro suol percuote;
la cupa valle, il vicin colle e il piano
ai gridi echeggian dello stuol villano;
30
tal, non reggendo all’impeto ohe il caccia,
usata Mopso invan l’estrema possa,
d’animo cadde, e impallidito in faccia
all’urto cesse alfin di fiera scossa.
Con gambe alzate e con aperte braccia,
nell’estremo periglio il capo e l’ossa
raccomandando a qualche amica stella,
«non scese no, precipitò di sella».
31
Cadde, e sul duro polveroso piano
lo stampo impresse della sua caduta.
Un lieto grido all’accidente strano
alzò la turba de’ compagni arguta.
L’asino anch’esso, a cui con pronta mano
tolse il satiro allor la punta acuta,
il muso torse di pietade acceso,
e guardò fiso il cavalier disteso.
32
Damone intanto dal somaro scende,
e a dargli aiuto prestamente vola;
e a lui, che il volto per vergogna accende,
e sta confuso senza dir parola:
— Or via! — diss’egli — qual pazzia ti prende?
Piglia coraggio, e il tuo dolor consola:
«cadono le cittá, cadono i regni,
e l’uomo di cader par che si sdegni». —
33
Disse; e di nuovo a rimontar l’aita,
ed al breve cammin pur lo conforta.
Ma giá la notte, fuor del mare uscita,
il mondo copre d’ombra umida e smorta.
Ecco giá presso il termine si addita;
eccoli salvi omai giunti alla porta.
Smontano i garzon lieti e dai Crociari
mezzo morti si partono i somari.
34
Io pur fo fin, che dall’estranio canto
giá mi richiama la notturna scena,
e a me il pietoso Melesindo intanto
mostra del padre la servii catena.
Addio, Silvio gentil. Paga del vanto,
che ha dal tuo nome, la silvestre avena
a un salce appendo ed a maggior concento
sveglio sul plettro il tragico lamento.