Poesie varie (Clemente Bondi)/Giornata villereccia/Canto primo

Clemente Bondi

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Giornata villereccia Giornata villereccia - Canto secondo
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canto primo

1
Non io del vago Ulisse il corso ondoso,
cui per sí lunghi error trasse il destino;
non io de’ greci eroi lo stuol famoso
che in Colco al vello d’òr volse il cammino;
non io per l’aria di seguir son oso
il cocchio di Triptolemo divino;
ma cantar voglio di gentil brigata
il breve corso e l’umile asinata.
2
Silvio gentil, questi del plettro mio
versi di rozzo stil sacri a te sono:
tu li chiedesti, e tu cortese e pio,
l’umile accogli ancor povero dono.
Non io mi volgo all’apollineo dio,
perché oggi tempri di mia cetra il suono:
tu di buon occhio il tuo poeta mira,
e miglior Febo il facil estro ispira.
3
Non lungi alla cittá che il picciol Reno
tacito lambe con pieghevol onda,
appiè del colle che decresce, e in seno
manca di valle florida e feconda,
sorge albergo gentil cui cerchio ameno
di frondifere piante orna e circonda,
secreta stanza ad autunnal dimora
d’illustre gioventú che Italia onora.

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4
Or’ mentre, a cacce d’augelletti e a mille
diversi giuochi villerecci intenti,
quivi passando stan l’ore tranquille,
scevri da cure, i giovani contenti,
una a veder delle vicine ville
mossero un di sovra umili giumenti,
dove a godervi una giornata lieta,
di cammin breve stabilir la mèta.
5
Giá rosseggiava in oriente appena
l’alba foriera del felice giorno;
né piú vivace mai, né piú serena
spiegò l’aurora la sua luce intorno:
ed ecco omai con lunga verga mena
lo stuol villano dal vicin contorno
la somaresca nobile famiglia
di sella adorna e d’infiorata briglia.
6
Lungo sarebbe il dir di tutti loro
l’indole varia, il pel, la patria, il nome.
Venne Saltamartino da Pianoro,
celebre portator di gravi some.
È suo padre con lui, benché al lavoro
piagò giá il tergo ed imbiancò le chiome;
e, con un suo cugin paffuto e grosso,
venne da Caldarara Stoppafosso.
7
V’è Scappuccia dai Gessi; e ben ti sembra
lento, ma teme del baston le offese;
Sdrucciola è seco di leggiadre membra,
idolo universal del suo paese.
Nel galoppare un fulmine rassembra
Gambacorta, che vien dal Ferrarese.
Testa-bassa ed Orecchio-di-lasagna
vennero con Zampin dalla Romagna.

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8
Ed ecco al primo entrar dentro il cortile,
che d’alte mura d’ogni intorno è chiuso,
seguendo ognun di lor l’usato stile,
si odoraron l’un l’altro alzando il muso.
Tacquer quel giorno i bronzi in campanile,
ché stranamente e fuor del solit’uso
con una solennissima ragliata
suonarono i somari la svegliata.
9
Non cosi grato a un’indole guerriera
è il suon di tromba che a pugnare appella;
né dolce lira, o cetra lusinghiera
che al ballo inviti, a tenera donzella;
come alla calda, impaziente schiera
de’ giovanetti cavalier fu quella
d’almi cigni cantor voce diletta,
al cui rimbombo si svegliâro in fretta.
10
Immantinente ognun dal letto balza
pronto, e gli arnesi a viaggiar provvede;
quel cerca i sproni, e gli stivali calza;
questi la sferza e il pungolo richiede;
chi corre giú con una gamba scalza,
chi per piú presto far si torce un piede;
chi falla strada, e chi cade allo scuro
dalla scala, o col capo urta nel muro.
11
Cosí affollati al suon dei campanelli
corrono i gatti alle scodelle piene;
al casotto cosi de’ pulcinelli
al primo udir la piva il popol viene;
cosi dal chiuso e pecore ed agnelli
saltano al suon di pastorali avene;
e al gracidar cosí della gallina,
con presto piede ogni pulcin cammina.

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12
E con Titiro giá Mopso ed Alcone
s’erano e Melibeo raccolti insieme,
e il serio Aminta e il lepido Damone,
che cavalcando di cader non teme.
Ciascuno il proprio somarel dispone,
e d’avere il miglior a tutti preme;
ma nella scelta intanto ire e contese
l’emula gara giovanile accese.
13
Un asino gentil misto era in quella
turba, ma non confuso e vii giumento,
«a cui non anco la stagion novella
spargea de’ primi fiori il vago mento»:
non è somaro che di lui piú bella
faccia dimostri e nobil portamento,
o mova al corso i piedi, o a suon diversi
il labbro sciolga in amorosi versi.
14
Mobili son le orecchie, asciutto il fianco,
e in ogni movimento agile e snello;
su la schiena dal destro al lato manco
fascia lo cinge di color morello,
in tutto il resto è piú che neve bianco;
sella ha distinta e serico mantello:
insomma egli non par di quello stuolo,
e d’asino non ha che il nome solo.
15
Come talor, se dentro stagno ondoso
piccol di pane bocconcin si getta,
ogni pesce, che sta nel fondo ascoso,
fuor esce a galla, e sí v’accorre in fretta,
e salta e guizza, e cerca pur goloso
rapir agli altri la vivanda eletta;
tal, visto un si leggiadro somarello,
avido corre il giovane drappello.

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16
Ognun per sé lo vuol; ma incauta appena
l’impaziente turba a lui si accosta,
ei ratto in un balen volge la schiena,
e lungo tratto da ciascun si scosta.
Alza le groppe, e delle gambe mena,
e fa di calci e morsi a ognun risposta:
scorre sbuffando per l’erboso piano,
e per fermarlo ogni ripiego è vano.
17
Ma, mentre dietro a lui tempo e sudore
pèrdono questi invan, Silvio giú scende,
a cui nel volto un liberal candore
misto a contegno nobile risplende;
lento ei si avanza, che noi punge in core
giovanil voglia, o ad affrettar l’accende:
e nella maestá de’ moti suoi
tutto annunzia il valor degli avi eroi.
18
Leggiadramente un verde ammanto il cinge,
cui l’orlo estremo un filo d’or circonda;
in vaghe anella egli compone e finge,
emula al crin febeo, la chioma bionda.
Morbido cuoio l’agil gamba stringe;
e asconde il guanto la man bianca e monda;
un anglico cappel sugli occhi sciolto
coprendo ombreggia, e dal sol guarda il volto.
19
All’apparir del giovane sovrano,
Frontin, che cosí l’asino si noma,
quasi intelletto avesse e senso umano,
corregli incontro con la fronte doma;
e volontario dalla nobil mano
il fren riceve, ed alla dolce soma
soppone il tergo mansueto e chino,
lieto e superbo di si gran destino.

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20
Tal l’aureo ramo, che in gran selva ascoso
sacro dono a Proserpina crescea,
a ogni altra forza, a ogni altra man ritroso,
facile secondò la man d’Enea;
e tal del mago Atlante il sí famoso
Ippogrifo, che a volo il ciel scorrea,
sdegnando il fren d’ogni altro cavaliere,
spontaneo scese all’inclito Ruggiero.
21
Asino avventuroso! a cui tra tanti
concesse il tuo destin si raro onore,
a te per l’avvenir cedano quanti
crebbero in fama d’immortal valore;
tu ogni altro oscuri; e si gran pregio vanti,
che d’Achille il destrier sará minore,
e invidieranno a te la tua fortuna
fino i cavai del sole e della luna!
22
Vanne pur lieto, e di si nobil uso,
a cui ti scelse il ciel, contento appieno:
non avvilirti con profano abuso
a portar soma che sia nobil meno;
ma in un ozio onorato e in stalla chiuso
ti pasca il tuo padron di biada e fieno,
finché, disciolto dal corporeo velo,
nuova costellazion tu cresca al cielo.
23
Ma giá pronto è ciascuno, e su l’arcione
co’ piedi in staffa ben composto siede.
Par che ogni somarel senta lo sprone:
non può star fermo, e balte il suol col piede.
Ecco giá s’apre il rustico portone;
giá in ordine disposto ognun si vede;
giá con trombetta piccola di legno,
quel che precede, di partir dá segno.

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24
Come dall’arco d’un esperto scita
esce stridendo rapida saetta,
che pel libero ciel va si spedita,
che lo sguardo seguace appena aspetta;
o come scender suol dal tuon seguita
folgor che scocca su d’alpestre vetta;
tali... ma tali no, ché un po’ piú lenti
uscirono i garzon sui lor giumenti.
25
Ma pur, siccome al cavaliero aggrada,
a suo potere ogni asino galoppa;
e ben gli fanno digerir la biada
le punte che si sente su la groppa.
Infelice colui che per istrada
in qualche sasso camminando intoppa!
Ognun di lento il suo ronzino accusa,
e ad esser primo ogni arte impiega ed usa.
26
Chi con acuto stimolo di sopra
l’asino punge, e con gli spron di sotto;
chi le fibbie da scarpe mette in opra,
perché la bestia sua corra di trotto.
L’un del maestro lo staffile adopra,
un altro giá piú di un baston vi ha rotto,
e con la punta alcun del calamaro
va tormentando il povero somaro.
27
Non lungi al fiume d’Idice diritto
il facile cammin volgono a manca.
A Budrio mena, termine prescritto
al lor viaggio, la via breve e franca.
D’arida polve un denso nembo e fitto
destasi in aria, che gli asconde e imbianca.
Alzar la voce or questo or quel si sente,
e de’ somari il calpestío frequente.

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28
Al lor passaggio escono fuor dell’onde
sciolte le ninfe gli umidi capelli,
e seguendo i garzon lungo le sponde,
versi alternando van leggiadri e belli;
col canto anch’essi dalle verdi fronde
l’eletto stuol salutano gli augelli;
e d’ogni villa e d’ogni casolaro
escon latrando i cani da pagliaro.
29
Ma giá i cavalli del solar pianeta
giano affrettando il luminoso piede;
ed ecco omai la desiata mèta
infra il confuso torreggiar si vede.
Volgesi indietro con sembianza lieta
quel che il seguace amico stuol precede,
e prestamente con allegro viso
dá del felice arrivo agli altri avviso.
30
Con alto grido il termine saluta
lo stuol per dolce di piacer prurito,
e ognun, con voce grave o con acuta
«Budrio» esclamando, lo dimostra a dito;
«Budrio» ripete non confusa o muta
l’eco dal colle e dal riposto lito;
e in chiare d’alto stil voci rotonde
«o Budrio, o Budrio», ogni asino risponde.
31
È Budrio un buon castel del Bolognese,
distante al nord quarantacinque gradi:
ben fabbricato è il picciolo paese,
ma pur vi sono gli abitanti radi.
Mostra un bel campanile e quattro chiese,
e il suo caffé, dove si gioca ai dadi;
ha la piazza, il mercato e lo spedale,
un mercante di panni e uno speziale.

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32
Per la porta maggior di quel castello
entrano al suon del romoroso corno,
e vanno dritto al preparato ostello
tra il popol che a veder si affolla intorno,
entro gli accoglie non adorno o bello,
ma pur gradito l’umile soggiorno:
smontan d’un salto, e chi le vesti solve,
chi si pulisce e scuotesi la polve.
33
Gli asini, anch’essi sotto al basto tolti,
dal cammin stanchi e dal sofferto affanno,
parte alla stalla liberi e disciolti
a mangiar biada e a dissetarsi vanno,
parte in mezzo alla strada insiem raccolti
sdraiati al sol senza creanza stanno,
e con le gambe in su, le acute schiene
van voltolando per le secche arene.
34
Al pranzo intanto da ciascun si pensa,
e acceso è giá nella cucina il fuoco;
nettansi i piatti e s’apre la dispensa:
tutto in faccende è con la serva il cuoco.
Orsú, sediam noi pur con gli altri a mensa,
ch’egli è ben tempo, e riposiamo un poco;
e quando avremo poi la pancia piena,
al fin v’aspetto della storia amena.