Piccolo mondo moderno/Capitolo terzo. Eclissi/IV
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Eclissi
IV
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IV.
Jeanne, partito Maironi, mandò il domestico a letto, suonò per la cameriera, mandò a letto anche costei, uscì sulla terrazza candida nel lume della luna rediviva, ritornò all’angolo d’ombra tra i fogliami tiepidi delle rose, si riadagiò sulla poltrona da riposo e sorrise a sè stessa, beata. Mai non aveva amato prima d’incontrar Maironi e neppure desiderato di amare. Nessuno dei tanti adoratori suoi aveva saputo destarle nell’anima il senso della sua femminilità profonda. Questo senso non s’era ora destato che a mezzo. L’ardore dello spirito non le aveva ancora penetrato il corpo. I suoi desideri non andavano oltre la presenza continua e la tenerezza appassionata di lui, il possesso dell’anima sua, la libertà, nei momenti in cui si preferisce il silenzio alla parola, di cingergli con le braccia il collo, di posargli la fronte sopra una spalla. Oltre questo abbandono e carezze, e baci a fior di labbro, e il senso alle spalle del braccio diletto, incominciavano le sue ripugnanze. Ai suoi rapimenti non si mesceva un atomo di timore nè di rimorso. Figlia di genitori increduli e tuttavia rispettosi della religione, era passata per gli effimeri fervori ascetici del collegio. Quindi lo spirito infusole nel sangue, la coscienza della sua superiorità intellettuale sulle persone che l’avevano guidata alla pietà, la tendenza critica del suo intelletto, le letture, le conversazioni di uomini coltissimi e irreligiosi, la incredulità conosciuta dei genitori che pure la mandavano a messa, ai sacramenti, e le regalavano libri di preghiera, tutto questo insieme l’aveva condotta a una specie di sereno fatalismo, dall’alto del quale i dogmi cristiani, Iddio, la immortalità dello spirito le parevano illusioni gentili, nobili, anche utili a coloro che non possedessero come lei nella propria natura il senso della dignità morale, i suoi freni e i suoi stimoli. La sua fierezza, il suo affetto al rispetto altrui, le vaghe idealità morali che le tenevano luogo di fede le ispiravano il disgusto dell’adulterio ma non le facevano alcun rimprovero di un amore che, soddisfatto secondo il desiderio suo, le riempiva l’anima di bontà. Sapeva di non toglier niente alla moglie di Piero e il suo scetticismo circa le illusioni del sentimento, il forte, lucido intelletto della realtà non le consentivano rimorsi per un’offesa che, non potuta sentire, non era offesa.
L’immagine squallida della Demente non si affacciava mai alla sua coscienza. Aveva ben pensato, una volta, che la madre di lei soffrirebbe molto, se sapesse; ma vi era nella vita, secondo il suo vedere, un Ineluttabile e questi dolori ne facevan parte. Anche l’amore procedeva dall’Ineluttabile. Perchè si era ella innamorata di Maironi? Per i pregi del viso e dello spirito? No, per un che negli occhi suoi. Le avevano molto parlato, sì, di questo giovine intelligente, colto, generosissimo, pio, infelice; le avevano ispirata molta curiosità di conoscerlo, particolarmente di sapere se egli amasse ancora sua moglie; ma soltanto quel Che misterioso l’aveva presa. Era ella forse delle infinite cui basta venir guardate due volte da un uomo non vecchio, non brutto, non inelegante, per sentirsi attratte? Neppur questo; molti uomini le avevano ispirato simpatia conversando con lei, s’era compiaciuta di molte ammirazioni, non sempre aveva sdegnato le dolcezze d’una lieve civetteria, ma soltanto nel primo incontro con Maironi aveva sentito l’improvviso impero d’un destino. Era in quel punto divenuta schiava dell’Ineluttabile.
Ineluttabile l’amore, ineluttabili erano i dolori che esso avrebbe recato ad altre creature umane e che non le ispiravano, quindi, rimorso ma solamente pietà. Sotto l’ebbrezza di Maironi che scendeva col bacio di lei sulle labbra si veniva raccogliendo silenziosamente, non avvertito, un lievito amaro. Sotto l’ebbrezza di Jeanne vi era il recondito, freddo nucleo del suo scetticismo, la sua chiara visione del vortice eterno nel quale il suo amore e la sua coscienza, come tutti gli altri amori, come tutte le altre coscienze, si dissolverebbero in breve. Questo era l’Ineluttabile supremo e non la turbava, le rendeva più intenso il piacere dell’ora presente.
Ella non credeva di poter più dormire, quella notte; e le gradiva di godersi il tramonto della luna, la fragranza delle rose, pensando a lui. Come mai l’aveva lasciato partire senza domandargli quando sarebbe ritornato? Non poteva, non poteva stare in questa incertezza! Vide i suoi guanti, dimenticati sopra una sedia. Oh se ora venisse a riprenderli! Si rizzò sulla persona, stette in ascolto. Che follia! Si propose di rimandar i guanti l’indomani mattina, con una lettera. E li prese, contenta. Si struggeva di baciarli, sorrise di sè stessa. Non li baciò, mise la mano in uno di essi, sorrise ancora, sorrise di sentirsi mortificata che fossero così grandi mentre avrebbe giurato che le mani di Piero fossero piccole. Uno stridere del cancello! Lui?
Non era Maironi, era Carlino arrivato in carrozza con quattro amici, l’elegante deputato Berardini, il grande violoncellista Lazzaro Chieco, l’allegro pittore veneziano Fusarin e un tal Fanelli, senese, critico d’arte e di letteratura, giovanissimo, libertino, sfacciato come un monello di Firenze. Eran partiti da Venezia col treno e l’avean lasciato per fare una scarrozzata di trenta chilometri godendosi appieno la calda notte di maggio e l’eclissi. Seguiva il vetturale portando il violoncello di Chieco. Furono meravigliatissimi di trovare Jeanne, a quell’ora, sulla terrazza. Ella non conosceva che Fusarin, il suo adoratore pazzo di una volta. Chi si fece avanti il primo con il cappello in mano e a braccia aperte fu Chieco. “Divina signora, non badate a questi grattaformaggi che non sono degni della vostra attenzione. Io solo, Lazzaro Chieco, violoncellista di camera, anzi di anticamera del Padre Eterno, lo sono!„
“Carlino!„ esclamò Jeanne ridendo mentre gli altri la supplicavano comicamente di compatire il maestro rimbambito. “Non presenti? Che fai?„ Carlino saliva lo scalone della terrazza a ritroso, pian piano. “Scusate, scusate!„ diss’egli. “Aspettate! Mi hanno insegnato a Venezia questa cosa magnifica, che fa bene ai polmoni di salire le scale così. È delizioso!„
Fusarin e Fanelli lo afferrarono, lo portarono su di peso, strillando egli: “Meglio! Meglio!„ Intanto Berardini pregava Jeanne di non confonderlo con quei farabutti: egli non aveva bevuto, a cena, che acqua; essi...! E fece il gesto ipocrita della simulata ignoranza. Intanto Carlino, rassettatisi i solini, la cravatta e il bavero della giacca, si accinse alle presentazioni.
“Lasciamo queste volgarità, per amor del cielo!„ esclamò l’onorevole deputato. “Signora, io La ho veduta nei miei sogni e confido che anche Lei abbia veduto me. Lasciamo che costoro mi chiamino Berardini. Suo fratello che mi disprezza, dice — il deputato Berardini — Fusarin che mi odia, dice — il commendatore Berardini.
“Fiol d’un can!„ brontolò Fusarin. “Intanto el ghe le ga spiferae tute„.
“Non ce ne curiamo„, proseguì l’onorevole. “Lei è Lei e io sono io„.
“Signora„, disse Fanelli, “io, come il più educato di questi quattro amici di suo fratello, che non è gran lode! mi lascierò presentare„. Ma poi Jeanne guardò Carlino, imbarazzata. Aveva carissima questa visita, ma... Chieco precorse le parole che venivano.
“Niente, signora mia! Noi non siamo genterella come questi grattaformaggi di questa vostra cittaduzza, che russano laggiù nei pantani. Voi non avete a incaricarvi di farci dormire. Siete voi, bella mia, che dormite e noi siamo il vostro sogno di stanotte. Io sono venuto perchè vostro fratello mi ha detto che tiene un clavecin antico, bonissimo; e perchè voglio vedere se io posso innamorarmi di Voi e se Voi potete non innamorarvi di me. Questi altri straccioni sono del mio seguito. Ebbene, adesso si fa musica, si prendono, bella mia, se è possibile, tre o quattro tazze di thè, non tanto forte, con latte, Fusarin e Vostro fratello si consigliano sul ballo tiepolesco che darete, il mio compaesano Berardini dice un altro sacco di asinate, io faccio un poco il grazioso e sull’aurora tutto il sogno sfuma in landau verso l’oriente„.
I domestici vi perdettero il sonno ma parve un sogno veramente. Le fiamme della luce elettrica brillarono nella sala grande e nelle quattro minori che la inquadrano, pure dipinte a buon fresco dal Tiepolo in onore di Omero, di Virgilio, dell’Ariosto e del Tasso. Apparvero per le pareti i grandi corpi viventi degli eroi, superbi nelle armonie del moto e del riposo; apparvero facce plebee di principi dai manti pomposi, nudità carnose e calde di principesse villane, i colonnati di Aulide, le logge di Cartagine, le tende achee, gli scogli dell’isola di Calipso e delle Ebude, sfondi nebulosi di cielo e di mare. Successe uno strepito perchè Berardini e Chieco erano pazzi di ammirazione per gli affreschi mentre Fanelli sentenziava freddo e sarcastico dietro la caramella, faceva il difficile, notava le scorrezioni scandalose del disegno, tanto che Chieco gli diede del “brutto macaco„ e Fusarin gli saltò addosso con furore. “Cossa galo, el diga, sior piavolo? El me lassa star sto poro vecio che a fato sti spegassi, sala! El se contenta de scriver settessento articoli a la setimana, co quele game sugestive, in malora, co quel maledeto color che canta e co sete oto “vibrante di modernità„ el diga! Ti ti la gà co Tiepolo perchè el fasea i zenoci grossi e mi la go co Domenedio che te ga fato el muso roto!„
Trlin! Trlin! Trlin! Carlino chiama col clavecin alla sala di Omero, Jeanne richiama colla voce: “Musica, musica!„ Si risponde: musica, musica! Basta, basta! — Tutti corrono alla sala di Omero meno Chieco che cava il violoncello dalla cassa. Poichè stanno per entrare un certo signor Bach, un certo signor Haydn, un certo signor Marcello e altri personaggi in parrucca, spadino, calze di seta e fibbie di brillanti, sia l’accoglienza gaia! Champagne! Fanelli brinda spiritosamente alla più vibrante di modernità fra le dee di villa Diedo. Berardini improvvisa una tirata barocca sulla dea Diana e beve al fratello suo divino, ad Apollo Dessalle. Chieco, alzando il bicchiere verso l’affresco di Ulisse pensoso in riva al mare, si offre consolatore alla dolce, triste, bellissima Calipso che vi emerge dall’onda con le spalle e col seno ignudi, brinda a lei e alla sua sarta. Fusarin brinda “ai veci Diedo, poarini, che a fato su sto casoto!„ E Carlino, perchè Jeanne vorrebbe proibirgli di aprire troppe bottiglie di Champagne, brinda a lei come gendarme: “Pas à Jeanne d’Arc mais à Jeanne d’armes!„
Ed entra Bach, il dio Bach, dice Chieco, che dà dello straccione a Carlino perchè in una tale villa, con tali affreschi, con un tale clavecin, regnando insieme Tiepolo e Bach, non tiene parrucche, spadini, giubbe ricamate, calzoni corti, calze di seta per tutti i suoi ospiti. “Giuriamo„, grida Berardini, “di venire al vostro ballo così!„ Si giura e Bach incomincia il suo discorsino sereno. A una cristallina, tintinnante vocina puerile s’intreccia una voce di vecchio nonno scherzoso, tenero e nasuto. Chieco suona il violoncello come un semidio e Carlino fa meraviglie sul clavecin tanto che il collega gli dice spesso: bravo! Il delizioso profumo del Settecento ammollisce i cuori. Jeanne sospira, Fusarin ritrova in sè veteris vestigia flammae, si attenta di accarezzarle, di soppiatto, una mano, onde Jeanne si alza e va, con un lievissimo sorriso traditore, a voltar le pagine a suo fratello. Fanelli indovina e guarda maliziosamente Fusarin che si butta sul davanzale di una finestra e incensa le stelle con il suo manilla. Berardini fiuta un intrigo, incontra due volte, per caso, i begli occhi di Jeanne, palpita, sogna un’avventura casanoviana. Jeanne sente il proprio fascino, ne gode per lui al quale idealmente appartiene. E il cortigiano Bach va intorno lusingando ciascuno con parolette dolci, con risolini blandi, s’inchina grazioso con un colpo di tricorno al vento e si ritira. Berardini applaude forte e subito trova modo di sussurrare a Jeanne, in francese, che non ha udito niente, che ha veduto lei sola, che bisogna riprodurre nel ballo i personaggi degli affreschi, ch’ella sarà Calipso e lui il mare. “L’amer?„ dice Fanelli, ficcando il naso nel dialogo. “Il l’est toujours. N’en goûtez pas!„ E una risatina. Zitto, perchè adesso entra So Ecelenza el nobilomo Marcello e Chieco richiama Jeanne.
“Bella mia, non date retta alle asinate di costoro. A posto! E non voltate troppo presto come avete fatto prima! E voi altri atei porci, attenti! Perchè io, quando suono Marcello, credo in Dio! Avanti! Andiamo!„
Era la quarta sonata per violoncello e piano. Dopo un trillo del violoncello, il credente Chieco, menando certe potenti arcate, gridò: “Questo mondo non si può sopportare!„ E su e su verso l’alto con l’onde accavallantisi delle arcate veementi. “Senza Calipso„ sussurrò Fanelli. Infatti Fusarin, preso dalla violenza della musica, teneva su Jeanne gli occhi ardenti, la scongiurava con gli slanci del violoncello. Il clavecin parve disadatto a tanta passione. Come poteva Beethoven concepire le sonate senza concepire insieme il pianoforte moderno? Carlino sostenne che la musica di Beethoven aveva creato il pianoforte moderno come negli organismi non è l’organo che si crea la potenza, è la potenza che si crea l’organo. Si passò a Corelli, ma Carlino era stanco, alla seconda pagina sbagliò il tempo, si prese del ladro e dell’assassino da Chieco, il quale, dopo due “a capo„, smarrito ancora il compagno, saltò in piedi gridando: “ci troveremo al caffè! Ci troveremo al caffè!„ Mentre gli altri amici ridevano col reo Carlino, egli prese Jeanne a parte, le disse qualche cosa di tanto arrischiato che Jeanne fece un atto di vivo sdegno. “Niente, niente, niente!„ si mise a gridare buffonescamente lo sfrontato uomo. “Dirò come il mio barcaiuolo — de Venessia — quando gli domando se vuol piovere: — gnente, gnente! La montagna vorave ma el mar no la intende!„. E tutta la brigata passò ridendo nella sala d’Ifigenia.
Al suono del clavecin e del violoncello il giardiniere Çeóla, l’ortolano, sua moglie, un paio di braccianti erano sbucati all’aperto presso che in camicia. Si era quindi aggiunto al gruppo, sotto le finestre di Calipso, uno straccione in tuba, un vecchio mattoide nottambulo, che tutti chiamavano el sior Piereto Pignolo.
“Ciò, ti, colo storto„, disse il giardiniere all’ortolano, finita la gavotta di Bach, “ti che te frui i banchi de le ciese e che te ghe credi a l’inferno, sti siori che gode el bon tempo tuto el dì e tuta la note, disito che i ghe vada o che no i ghe vada, a l’inferno?„
“Va là, mato! Cossa vètu a tirar fora?„ rispose l’ortolano, e sua moglie soggiunse: “Lassèlo stare el me omo che l’è un bon omo. Vardè de no andarghe vu, a l’inferno„.
“Mi? Ghe andaria volentiera, vardè vu, per vederli andar a rosto lori. I fa compagno de le mosche, sti maledeti, che co xe qua novembre, le fa el demonio sui veri quando che ghe bate el sole. I sa che i la ga curta e i ghe dà dentro a più non posso„.
Zitto, musica in alto, Marcello.
“Che musica da gati! Mi torno a cuccio„, brontola l’ortolana quando il pezzo è finito. “Tasi, bestia„, le dice il marito, placido. “E mi„ ripiglia lei, “che voria saver se i ghe crede, i siori, a l’inferno! Mi digo che i ghe crede tanto cofà vu, giardiniero. E lora, capìo, mi digo che chi sa che el Signore no li manda in malora lori e anca vualtri che no volì saverghene de ciesa e che el ne fassa diventar siori nualtri che se tien da Elo. Cossa diselo lu, sior Piereto, ch’el ga studià?„
Zitto, musica nell’alto, Corelli.
“Me par che i vada a torzio„, brontola il giardiniere, udendo le interruzioni della musica e il tempestare di Chieco.
“Mi digo„, incomincia solennemente il mattoide in tuba quando non si ode più nè chiasso nè musica, “che sì tuti una manega de aseni. Aseni i to paroni perchè i te paga ti, giardinier. Aseno ti, perchè se te ghe comandavi a quel bambozzo de quel to fiolo de ciapar le braghe dela biblioteca, lu el becava el posto istesso e ti te podevi darme le so braghe vecie a mi. Asena vu, ortolana, perchè no capì che sì nata con un muso da brocoli e che gavì da crepar in mezo ai brocoli; e aseno anca ti, ortolan, che te vè in ciesa e te robi poco!„
E il sior Piereto Pignolo volta le spalle, se ne va lento e solenne verso il cancello, fendendo le ghiaie argentee con la sperticata ombra della tuba.
Nell’uscire dalla sala di musica, Berardini trattenne un momento Jeanne.
“Lei s’interessa per un aspirante senatore?„ diss’egli con gli occhi accesi. “Non troppo, non troppo!„ rispose Jeanne ridendo. Infatti ella s’era adoperata per il marchese Zaneto quando le premeva il favore degli Scremin che avrebbero potuto insospettirsi dell’assiduità del Maironi e allontanarlo, tuttora indeciso com’era, da lei. Adesso, sicura del fatto suo, lasciava fare a Carlino che ci aveva preso gusto.
“Non troppo ma però abbastanza, insomma„, replicò Berardini. “La riuscita è possibile. Occorrono però alcune cose. Prima, che il genero del marchese si dimetta da sindaco e abbandoni il suo partito; o almeno, se il disertare gli ripugna troppo, che non militi più„.
“Questo è fatto„, interruppe Jeanne.
“Ah! Bene. Poi, che nel collegio del Bresciano dove il signor Maironi ha possedimenti grandi e dove i suoi agenti, finora, hanno raccomandato sempre l’astensione, questi agenti facciano invece votare, nell’elezione prossima, per il candidato del Governo. Poi, che si trovi modo di far cessare certe dicerie sulle condizioni economiche del marchese. Finalmente, e questo preme assai perchè il Governo non vuole compromettersi troppo, che non gli sia contrario un uomo politico influente di cui ho detto il nome a Carlino e che sarà senza dubbio fatto interpellare, con prudenza, dal Presidente del Consiglio. Credo che a queste condizioni la cosa si possa considerare decisa. È contenta? Posso sperare un piccolo premio?„ Qui Berardini abbassò la voce, e con un sorrisetto stupido cercò prender le mani di Jeanne che, pronta, gli volse le spalle. Quando Chieco, nella sala d’Ifigenia, vide l’uomo comparire alquanto mogio dietro la dama accigliata, si mise a gridare da capo: “Paron benedeto, gnente gnente, la montagna vorave, ma el mar no la intende!„ Ella raggiunse gli altri e si dispose a fare il thè. Carlino e Fusarin parlarono del futuro ballo, discussero l’idea di prescrivere agli invitati i costumi degli affreschi, di confondere nelle sale lucenti le Ifigenie ai Rinaldi, gli Agamennoni alle Armide, i Medori alle Didoni. Parlarono del progetto di coprire con ferro e vetro le due terrazze della villa, di ridurre l’una a vestibolo e l’altra a buffet. Carlino non voleva saperne dell’odiosissimo ferro, Fusarin pretendeva di poterlo dissimulare interamente con arazzi e stoffe, lo snobino Fanelli posava qua e là nella contesa il suo pizzico di sapienza mondana, sfoderava la sua conoscenza di sale illustri, di grandi poeti dell’arredamento. A Carlino piaceva solamente l’idea degli arazzi perchè ne aveva dei superbi, del Cinquecento, che a Villa Diedo non poteva collocare. Però i suoi arazzi avevano a esser diventati seminarii di batterii! C’era da prendere un malanno del secolo decimosesto! Come disinfettarli per bene? Potrebbe la loro sublime pelle sopportare il sublimato?
“Ciò!„ gridò il bizzarro Fusarin. “E quela barbassa de quel capussin de Calcante, e quela giaca onta de quel maledeto barbiero inzenocià col so caìn sporco in man per tor su el sangue de Ifigenia, e tuti quei tabaroni longhi de quel prinsipi greçi co quei musi da ciche e da cicheti, credistu, anima mia, che no i ghe n’abia dei batteri? E mi che me piasarave, vardè vualtri, crepar da la peste del mille e sinquessento! Saria belo, ciò! Saria novo!„
Seguì un torneo di sentenze pazze sulla morte e sulla vita. Berardini scherzava e rideva con la più bronzea delle faccie e Jeanne durava fatica a ricordarsi ch’era in dovere di trattarlo un po’ male, tanto poco si curava di lui e tante simili audacie di sciocchi e d’intelligenti aveva conosciute. Egli sostenne che non aveva la coscienza di esistere, ma soltanto di parere esistente e che questo era il balsamo di tutti i mali, di tutte le paure e non gli diminuiva niente la facoltà di godere, anzi gliel’accresceva, toglieva di mezzo o almeno riduceva a una semplice apparenza quella diversità fra la vita e la morte che spaventa il comune degli uomini. Fanelli prese le sue parti contro gli artisti, soli a difendere l’assoluto con una mitraglia punto metafisica d’improperii. Jeanne ascoltava in silenzio, attendendo al thè, ma gli occhi, le sopracciglia, la fronte, persino talvolta le spalle, dicevano consensi e dissensi vivaci, a vicenda; più vivaci i dissensi da Chieco e Fusarin, come se la infastidisse che proprio quei due fossero nel torto. Fusarin se ne avvide il primo e disse sdegnosamente:
“Eh, za se sa, ciò! Go torto mi„.
“Ma certo„, esclamò Jeanne accesa in volto. “Pare impossibile! È una cosa tanto evidente che ogni nostra certezza è una certezza solamente per noi, è una certezza relativa, e che il pretendere di possedere qualsiasi certezza assoluta è una illusione!„ Fanelli e Berardini batterono le mani.
“Forse ci sono„, disse Carlino, “e forse non ci sono„. Questa è la mia gioia, di non saperlo. Ma bada, Jeanne, tu mi hai l’aria di riscaldarti non tanto contro Chieco e Fusarin, quanto contro un’opposizione segreta di mia sorella, non so se m’intendi„.
Ella crollò le spalle, “sciocchezze!„ E sorrise a Chieco che domandava una illusione di thè, mezza illusione di latte, tre illusioni di zucchero e sei o sette illusioni di gauffrettes perchè forse aveva cenato e forse non aveva cenato alle dieci e mezzo. Fusarin, più innamorato che loico, inghiottì rassegnatamente col thè la certezza che non vi ha certezza e si accontentò di brontolare a Jeanne:
“Se no la ghe xe ela, no ghe son gnanca mi, ciò, intendemose!„
Partirono all’alba, con grande sollievo di Jeanne che si pose a letto mortalmente stanca ma beata di pensare lui, lui solo, in pace. Si domandò: sogna egli di me, adesso? E rise di sè stessa, del romanticismo convenzionale che si assorbe nei libri e ci passa nel sangue. No, egli sognava forse il Municipio o qualche altro sogno stupido. A lei sarebbe piaciuto di sognare l’ignoto lago di Valsolda nel chiaro di luna, una gita in barchetta con lui. Chiuse gli occhi, cercò disporsi al sonno e a questo sogno: vedersi nella mente il lago e le montagne di cui non aveva un’idea. Non seppe immaginare che la barchetta, le carezze, la voce amorosa di lui; ma così non le riusciva di dormire. Allora si mise a pensare alla fama che qualche vendicativo, forse uno dei tanti libertini respinti, forse suo marito stesso, doveva averle fatta perchè gli uomini che non la conoscevano, fossero tanto audaci con lei. E pensò pure al discorso di Berardini, al marchese Zaneto, all’uomo politico influente che le sarebbe piaciuto di conoscere per farlo amico di Maironi, perchè gli combattesse le tendenze socialiste che a lei dispiacevano, che le parevano pericolose, non convenienti alla sua natura delicata e mistica, frutto di fantasia. Non un brivido, non una lieve inquietudine le diedero segno che in quell’ora stessa il suo amante vegliava immobile e cupo, fissando uno spettro.