Piccolo mondo moderno/Capitolo quarto. Il caffè del commendatore/I
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Il caffè del commendatore
I
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CAPITOLO QUARTO
Il caffè del Commendatore.
La marchesa Nene, vestita di nero, curva, severa nel viso rugoso e cereo, entrò, seguita da Maironi, con la sua grossa Filotea in mano, nella cappella del Duomo dove aveva desiderato che si dicesse una messa in ringraziamento della nuova luce di speranza che spuntava sul triste innominato Asilo. La cappella era vuota, i ceri ancora spenti, l’altare coperto. Ma quando un chierichetto venne a scoprir l’altare e ad accendere i ceri, le poche figure nere sparse per i banchi della unica grande navata mossero verso la cappella. Due fra le amiche umili della marchesa, piccoline, vestite di scuro, due vecchi pretini femmine, le si accostarono: “se consolemo che gavemo sentìo„, e fatto a Piero un lieve, contegnoso cenno del capo, entrarono nel banco di faccia. C’era pure, per caso, l’uomo acido, uso ascoltar la messa ogni mattina. C’era la moglie del giornalista Soldini, una bella signora dai capelli bianchi e dagli occhi vivaci, che salutò la marchesa ma con discrezione, senza accostarlesi. C’erano finalmente due vecchie accattone. Ultimo entrò nella cappella con passo cascante e con viso modesto un omino grigio dal zimarrone vasto, l’omino potente sui destini di Zaneto Scremin e di molti altri, il Commendatore. Miope, non si avvide a prima giunta della marchesa nè di Maironi, nè della Soldini, nè dell’uomo acido, tutte persone a lui note. Si sarebbe umilmente inginocchiato sul gradino di un confessionale se la Soldini per un ossequio spontaneo e le accattone per un ossequio meditato non si fossero affrettate a fargli posto. La Soldini gli sussurrò che a messa finita gli avrebbe chiesto un minuto di udienza fuori della chiesa, ciò che fece rannuvolare la fronte e inasprire la guardatura del prossimo uomo acido il quale meditava pure di afferrare il Commendatore all’uscita della chiesa, per certi suoi fini profani. Il Commendatore s’inchinò alla signora con un mite sorriso di assenso. Soltanto a messa inoltrata gli venne il sospetto che l’uomo ritto in piedi presso la vecchia signora dal viso rugoso e cereo fosse Piero Maironi. Ne fu così durevolmente distratto che poi se ne giudicò reo di colpa veniale attenuata dalla bontà del movente; perchè l’ex-sindaco gl’ispirava molta simpatia, gli sarebbe piaciuto che s’avviasse per un cammino migliore, gli sorrideva di aiutare a porvelo e ora compiacevasi molto di vederlo in quel luogo e in quella compagnia, pensava qualche pretesto di parlargli dopo la messa, qualche modo di tenersi in comunicazione con lui.
Piero aveva cercato per tempissimo della suocera, volendo sapere che avesse veramente detto il medico dello Stabilimento. Arduo problema con una informatrice impacciata e tarda nella lingua come la marchesa; tanto più impacciata e tarda quanto più combattuta dal dovere di dire la verità e dal desiderio di non dirla intera. Ell’avrebbe voluto che Piero si accontentasse delle parole scritte dall’inferma, che ne godesse, che non curasse di sapere altro; e a tutte le sue domande rispondeva annaspando, annaspando, per metter poi fuori sempre da capo, sempre con rinnovato desiderio e sollievo, quel pezzetto di carta. Esperto di lei, delle sue vie mentali coperte e delle coperture caotiche, Piero comprese che il barlume di coscienza balenato nella parola dolorosa doveva essere svanito subito. Poi la suocera gli aveva detto con il suo apparente candore: “andemo che xe ora„ come se non sapesse delle nuove abitudini di Piero, il quale da Praglia in poi aveva rotto, per un sentimento di fiera lealtà, con tutte le pratiche. E la marchesa lo sapeva. Colto all’improvviso, Piero non seppe trovare lì per lì un pretesto di scusarsi, non osò ferire la vecchia signora che in cuor suo, malgrado tutto, venerava, e l’accompagnò in Duomo.
Stanco della lunga veglia, delle angoscie patite nella immaginazione, aveva pieno il capo di sonno, di stupore e di tedio, il cuore intorpidito. Anche la passione vincitrice taceva in lui, come spossata. Non sentiva che uggia di sè, del luogo sacro, di doverci stare a forza. Gli davan fastidio le occhiate bieche dell’uomo acido, le faccie compunte dei devoti stupidamente prostrati, come a lui pareva, ciascuno davanti a un piccolo specchio, guardandovi un piccolo Iddio della propria mente. Gli dava fastidio l’idea che quelle vecchiette e la signora Soldini e il Commendatore facessero in cuor loro, secondo era probabile, commenti alla sua presenza nella chiesa. Persino il devoto pregare della suocera gli pareva un eccessivo sdilinquimento. Mentre s’inacerbiva così contro tutto e contro tutti, cedendo a un soffio demoniaco di perversità, entrò nella cappella, a passo lento, preceduto dal chierico, il celebrante. Piero riconobbe don Giuseppe Flores. A questo incontro non si attendeva e ne fu seccato. Avrebbe preferito un pretoccolo antipatico. Non gli era possibile di riversare anche su don Giuseppe il fastidio, il disprezzo di cui era tutto amaro; e guardare quel viso con desiderio di luce e di pace come l’aveva guardato un giorno là nella villa solitaria, non voleva, non poteva più. Nemmanco poteva, però, chiuder gli orecchi alla voce grave e dolce che gli riconduceva le memorie della solitudine pastorale intorno alla villa silenziosa, dello stanzino, del colloquio sul canapè rosso, delle parole sante, delle sante labbra posateglisi un momento sui capelli. Se durante le tentazioni antiche la sua volontà si annientava per non consentirvi nè perderne la dolcezza, adesso gli avveniva di non poter cacciare da sè, per una simile paralisi della volontà, quelle imperiose memorie moleste. Non poteva non aderire col senso alla voce dolce e grave, non poteva non aderire colla mente alla visione di don Giuseppe seduto accanto a lui sul canapè rosso, pieno la gran fronte, gli occhi accesi e calda la parola di Spirito Santo. Così, udendo la voce del celebrante, contemplando le immagini della propria mente, incominciò a sentirsi in fondo alla gola e più giù verso il cuore un dolor sordo simile al dolore che sotto una pressione fissa lentamente si genera, dilata e profonda. Era un dolore anche muto, non diceva la propria origine, la propria natura, si dilatava e si sprofondava, era tormento, e anche spossatezza amara, impazienza della Forza fissa e premente.
Quando il celebrante incominciò la lettura del Vangelo, Piero, avvinto al suono e non al senso delle parole, sentì un mutamento del suono. Nel dir le parole di Gesù, il celebrante si congiungeva in ispirito a Gesù con amore e tremore. Il sentimento del suo alto ministero, il sentimento della sua indegnità, il soverchiar del divino, nel suo petto, sulle forze umane; tutto diceva quella voce non colorita nell’esterno ma penetrata d’anima e quasi ansante. Piero non potè a meno di volgere il capo a guardar la solennità umile del noto viso antico, sentì che il suo malessere interno si trasformava in un cupo ribollimento, in una commozione violenta, n’ebbe terrore, s’irrigidì contro sè stesso con tutto il nerbo della ridesta volontà, si rifece dentro il silenzio. E per non ricadere pensò a Jeanne, pensò che forse in quel momento ella usciva dal letto, riuscì ad accendersi la mente di un fuoco piuttosto lascivo che amoroso, quale non lo aveva bruciato ancora stando egli con Jeanne o pensando a lei; quale un esperto medico di anime avrebbe giudicato indizio di passione declinante. In quella cupida fiamma il tedio, il malessere e insieme anche le immagini suscitate dalla voce di don Giuseppe, tutti i germi vitali dell’anima, subito arsero. Uscirono di chiesa in un gruppo, la Scremin tutta sorridente e pacifica, Maironi accigliato, la vivace signora Soldini pronta nel viso a parole che già le sfuggivano dagli occhi, il Commendatore modesto e mansueto. Quest’ultimo, riverite ossequiosamente le signore, disse a Maironi con un sorriso tra benevolo e scherzoso, con un’artificiosa peritanza nel metter fuori la facezia come se fosse arrischiata molto:
“Adesso che Lei è in disponibilità... in disponibilità... si lasci vedere, si ricordi degli umili e dei derelitti. Ho a dirle qualche cosa ma con tutto il Suo comodo. Oggi vado a Roma. Ritorno lunedì, non della settimana ventura, della successiva; lunedì fra le quattro e le quattro e mezzo, se crede, mi trova certo„.
La marchesa e il genero si allontanarono subito. La Soldini, infocandosi a un tratto di commozione, domandò al Commendatore se avesse notato il pallore cadaverico di Maironi. E la marchesa, invece, che aria serena! Era un vero enigma, quella marchesa! Gli amici di casa Scremin dicevano “virtù„. Santo cielo, una virtù troppo simile al gelo! Siccome al Commendatore, il quale non aveva poi notato nè pallori nè arie serene, questo non necessario giudicar veemente di sentimenti altrui non pareva andar troppo a genio, e non gli uscivano di bocca che monosillabi stentati, così la signora mutò discorso e gli disse ridendo che le rimordeva di esser venuta in Duomo quasi più per incontrar lui che per udirvi la messa. Suo marito desiderava di parlargli e gli faceva chiedere quando avrebbe potuto riceverlo. Il Commendatore rispose, forse non tanto cordialmente, “con piacere, con piacere„, si fermò sui due piedi, aggrottò le ciglia per un soliloquio in parte mentale, in parte espresso, per un calcolo di giorni, di ore, di sedute, di convegni, di elementi certi, di elementi probabili, di elementi possibili, dal quale ricavò, dopo qualche tentennamento, che avrebbe ricevuto il signor Soldini alle tre e tre quarti dello stesso lunedì indicato a Maironi, ossia venticinque minuti dopo il suo arrivo da Roma. Detto ciò, fece un inchino umile, piantò in asso la signora che non se l’aspettava e ne rimase un po’ male. L’uomo acido il quale aveva gironzato al largo non senza rabbiosi moti di sopracciglia e di mandibole, gli si fece subito incontro.
“Son qua„, gli disse il Commendatore. Ma intanto qualcuno gli sbucò alle spalle dall’imboscata di un chiassuolo, gemendo: “Comendatore, me raccomando! son Bisata, Comendatore; quelo che sona el pelittone in mi. Sperava tanto in tel sindaco Maironi, per la banda. Adesso i dise che lo farà sindaco i liberali. Me racomando una so paroleta, Comendatore!„ L’uomo acido gli intimò così bruscamente di levarsi loro dai piedi che il buon Commendatore, tutto turbato al veder Bisata volgersi fosco verso l’interruttore, gli cacciò in mano dei soldi e lo congedò più benignamente che potè: “va là, caro, va là!„. Ma ecco un’accattona flebile. “Lo go spetà tuta la messa, benedeto! S’el gavesse delle scarpe vecie!„ Nuove escandescenze dell’uomo acido: “A sì una dona e ghe dimandè le scarpe a lu?„ Nuovi allarmi, nuovi soldi e miti consigli dell’ottimo Commendatore. “Va là, cara, va là!„ Finalmente l’uomo acido potè avere il suo colloquio promessogli in chiesa, nell’uscire dalla cappella. Era un accattone anche lui, chiedeva una rivendita di sali e tabacchi per certa sua parente a corto di quattrini. E chiedeva per sè aiuto in una questione col Ricevitore del Registro. “La lo fazza far cavalier quel fiol d’un can! Chi sa ch’el diventa più molesin!„ Il Commendatore ascoltò tutto con santissima pazienza, chiese notizie, diede consigli, riprese sorridendo le escandescenze, scusò il R. Ufficio del Registro e venne finalmente a un quia che certo gli premeva. Domandò in tono scherzoso a che punto fosse la crisi municipale. Che stava per succedere dopo le dimissioni del sindaco? L’uomo acido si meravigliò delle domande. Non aveva il Commendatore udito le rivelazioni strepitose dell’illustrissimo sior Bisata? “Ah ta ta ta!„ fece il Commendatore come un altro marchese Zaneto. “Mi dica Lei, sul serio!„ Qui l’uomo acido, fiutato un pericolo nello scandagliare del Commendatore e visto il marchese Scremin mover loro incontro, come evocato da quel “ta ta ta„, con una faccia pregna di parole pronte, esclamò che adesso il Commendatore aveva faccende e “servitor suo, servitor suo„ lo piantò malgrado i richiami ufficiosi dello Scremin.
Anche il marchese accattava un colloquio per accattare altre gravissime cose, ma il Commendatore non lo potè accordare lì per lì e lo rimandò alle cinque di quel famoso lunedì. Colui parve un po’ seccato dell’indugio, avrebbe voluto parlare all’omino prima ch’egli partisse per Roma e non dopo. Intanto i due, passo passo, erano giunti al palazzo del Commendatore. Un vecchio domestico stava sull’entrata confabulando con un fattorino postale che subito mosse incontro all’umile onnipotente e gli porse, sberrettandosi, una carta. “Il promemoria per mio figlio, Commendatore. Mille grazie„. Mentre il Commendatore pigliava la carta col solito sorriso benigno, il domestico gli annunciò che lo aspettava nell’anticamera del suo studio il signor Ricciotti Çeòla; e perchè il padrone, non conoscendo il soprannome del Pomato, pareva non raccapezzarsi, soggiunse: “Pomato, quel de la Biblioteca, ghe dirò„.
All’udire il minaccioso nome, il Commendatore ritirò il capo fra le spalle, chiuse gli occhi, arricciò il naso e soffiò “pff!„ come se avesse immaginato la puntura di un ago rovente nella parte più delicata del proprio individuo. Pensò un poco e poi commise al domestico di riferire al signor Pomato che adesso il padrone doveva recarsi in Biblioteca e poi partire per Roma. “E se il signor Çeòla„, insistette il domestico, “volesse sapere...„. Ma intanto il padrone trottò via senz’altro verso la Biblioteca.
Trottò via con la segreta speranza di liberarsi anche dal marchese al quale non poteva promettere alcun balsamo per il suo ulcus senatorium. Lo Scremin, tagliato presso a poco sulla misura del Commendatore, però alquanto più vecchio, allegando di aversi a recare in Biblioteca egli pure, pigliò lo stesso trotto e parve una pariglia sconnessa mostrata in fiera.
“Avrei tante cose a dirti„, cominciò il ronzino arrembato di sinistra, ansando, sulla scala della Biblioteca. “Sarà per lunedì. Intanto ti raccomando...„. Qui, usando il linguaggio insolitamente elittico e rotto cui lo costringevano la trottata e la scala faticosa, nominò il ministro formidabile al quale avrebbe voluto invece venire raccomandato lui.
“Anche l’affare Dessalle„, soggiunse prima di entrare nella stanza del bibliotecario. Il Commendatore fece un impercettibile atto di sorpresa. I Dessalle avevano ereditato dal padre certa lite con un piccolo Stato americano e ottenuto due sentenze favorevoli, ma non erano ancora riusciti a farsi liquidare il credito. La faccenda era entrata nelle vie diplomatiche e occorreva che alla Consulta non dormissero. Tempo addietro, prima dell’incontro di Praglia, Carlino ne aveva fatto parlare al Commendatore dal marchese Scremin, e il Commendatore s’era adoperato a favore dei Dessalle in Roma con il solito caritatevole zelo a cui ogni specie di prossimo più lontano traeva limosinando. Divulgatesi poi le voci scandalose su Maironi e la signora Dessalle, la marchesa Nene, pur tacendo con tutti le proprie angosce, aveva opposto un tale contegno alle effusioni affettuose, alle pressanti cortesie di Jeanne, che Jeanne non aveva osato insistervi; e il Commendatore, un grande silenzioso cinto d’informatori minuti, sapeva tutto ciò. Adesso, all’udire la nuova raccomandazione del marchese per l’affare Dessalle, ebbe un sorriso interno di spettatore savio delle debolezze umane; perchè sapeva pure che a favore di Zaneto erano in giuoco presso il Ministero influenze mosse da casa Dessalle. Zaneto divinò e parò la frecciata invisibile.
“In verità„, diss’egli, “nell’interesse della città non dovrei farti questa raccomandazione, perchè se i Dessalle ottengono quello che domandano, si tratta di milioni, non mi pare possibile che abbiano a restare qui e per la città sarebbe una perdita„.
Pareva un capolavoro di finezza, questa risposta, e lo era, ma sincero; era il capolavoro di una coscienza industriosa e non d’industriose labbra. A furia di ragionare col marchese scrupoloso del lobo cerebrale destro, il marchese dottor sottile del lobo cerebrale sinistro lo aveva persuaso che facendo al Commendatore la raccomandazione Dessalle in ordine al meditato fine principale di allontanare Jeanne da suo genero, si potevano accettare in pace i benefizî accessorî che ne venissero naturalmente, come l’appoggio dei Dessalle per ottenere al modesto panino Zaneto un posto sulla pala ministeriale delle infornate.
“Bene bene, addio addio„, fece il Commendatore, lottando asceticamente dentro di sè con il proprio buon giudizio, non riconoscendolo, scambiandolo, causa l’andatura affrettata, per un giudizio temerario.
Egli si recava in Biblioteca per sollecitarvi certe ricerche nell’interesse di certe persone pratiche e di altre persone poetiche: di persone che gli avevano chiesto aiuto per comprovare il possesso legittimo di qualche decima e di persone che gli avevano chiesto aiuto per comprovare il possesso legittimo di qualche titolo nobiliare.
“Mi dica la santa verità„, esclamò il Bibliotecario mezzo infastidito, “vengono anche le balie a spasso da Lei, per raccomandarsi?„
“Anche anche anche! Sissignore sissignore sissignore!„
E il Commendatore raccontò che proprio allora era venuto a casa sua il signor Ricciotti Pomato.
“Lei vuol dire Çeòla?„ fece il Bibliotecario. No, il Commendatore non chiamava mai la gente con nomignoli, specie se ridicoli. Pomato usque ad finem. Come andava quella faccenda di Pomato, dunque?
“Uh, l’affare si fa grosso„, rispose il Bibliotecario„. “Finiremo prima noi di rimettere in piedi un esercito di decime cadute in deliquio e di fabbricare un altro esercito di conti e di contesse, che il Municipio di allestire un paio di brache miracolose che vadano egualmente bene a un Prefetto, a un deputato, a un senatore, a Quaiotto e a Ciotti Çeòla.„
E proseguì narrando che quella stessa mattina, molto per tempo, gli era pervenuta in casa una Nota municipale, sottoscritta dal dottor Záupa, con l’ordine di non ammettere il Pomato all’esercizio delle sue funzioni fino a che non si presentasse in uniforme. Çeòla era venuto all’ora solita, aveva fatto una scenata e annunciato che si sarebbe immediatamente rivolto al Prefetto per far mettere a Záupa e Comp. il capo a partito. La Giunta si doveva riunire alle tre per deliberare ufficialmente circa le dimissioni del Sindaco. Qualcuno andava dicendo che la crisi municipale sarebbe terminata come la crisi della luna, ma il Bibliotecario, considerato l’ordine draconiano “o brache o morte„ che tagliava i ponti fra sindaco e colleghi, non lo credeva. Del resto alcuni pezzi grossi della maggioranza, alcuni Cai, come venezianamente diceva il Bibliotecario, si erano raccolti la sera prima, forse per contemplare l’eclissi, forse per altre ragioni, e avevano chiamato a sè il giornalista Soldini. Siccome il Soldini è temperatissimo e in relazione col Sindaco, si è creduto da taluno che i Cai volessero aprire trattative di pace.
“Ma se il sindaco torna pregato„, ragionò l’acuto Bibliotecario, “vuole che ceda sull’affare delle brache? E se non cede, che figura ci fa il buon Záupa? Mo!„
Qui il Bibliotecario sorrise, fissò il suo interlocutore con un reiterato sobbalzare della persona che significava il complicato garbuglio di problemi da sciogliere, e conchiuse: “Vedrà che Soldini verrà da Lei„.
Il Commendatore osservò ch’egli non c’entrava. Pensò in pari tempo, con un visibile malumore, al colloquio chiestogli dalla signora Soldini per suo marito. Aveva sperato, sulle prime, che il Soldini desiderasse parlargli per interessi suoi personali. Lo conosceva per un logico acuto, per un politico fine, per un carattere rigido, dissimulato sotto maniere squisite e sotto molta tolleranza non delle opinioni avverse, ma delle persone che le professavano. Gli avrebbe reso assai volentieri un servigio personale che sarebbe stato il primo; trattare con lui di cose pubbliche gli garbava meno, alieno com’era dall’affrontare certe rigidezze inflessibili anche fuori di quei convincimenti sostanziali nei quali era egli pure inflessibilmente rigido.
“Vado poi anche a Roma oggi„, diss’egli rasserenandosi nella speranza che una lunga necessaria dilazione del colloquio lo facesse sfumare. Allora il Bibliotecario lo pregò di non partire senz’aver parlato con uno degli assistenti distributori; suonò il campanello per farlo venire e sussurrò, ridendo, fregandosi le mani: “una balia!„ mentre l’assistente s’inoltrava timidetto, rispettosetto. “Scusi, signor Commendatore, Lei è presidente della Giunta di vigilanza dell’Istituto tecnico„.
“Sì„.
“Ho udito dire che viene un professore nuovo„.
“Sì„.
“Ecco, perchè avrei una camera da affittare, se volesse dirgli una parolina!...„.
Il Commendatore se la cavò come potè e l’altro annunciò al Bibliotecario che il marchese Scremin chiedeva di parlargli quando fosse libero.
“Parlarmi! Non vorrà mica soldi, spero!„ Il Commendatore trasalì. Quattrini? Perchè? Andavano male gli affari di casa Scremin? Male, male; proprio adesso che sua figlia guarisce. Guarisce? Ma! La notizia del giorno, nella sagrestia del Duomo, era questa. Guarisce, viene a casa fra pochi dì.
Il povero Commendatore che aveva, nella sua grande bontà, viscere particolarmente affettuose per tutti i nati dentro la cerchia delle mura cittadine e anche nei borghi e anche oltre il selciato, in quelle terre suburbane del Comune dove non era giunto l’affetto di antichi pubblici benefattori, se ne andò tutto rannuvolato per l’intravvista rovina di una illustre famiglia della sua patria e crucciato nella coscienza di rattristarsi troppo della rovina e di rallegrarsi troppo poco della guarigione annunciata. Forse non era vero, ma se fosse vero, altro che Senato, altro che Senato! Presso a casa lo raggiunse arrancando un ometto in occhiali, un acuto e onesto dottor di leggi, sempre febbricitante per nobili emozioni politiche o amministrative, del tutto platoniche.
“Dunque, Commendatore, il Prefetto se ne va?„
“Non lo so„.
“Ma se la gente dice che lo fa traslocare Lei?„
“Io?„
“Sissignore, perchè il Prefetto vorrebbe arrivare allo scioglimento del Consiglio comunale e Lei no„.
E l’ometto rise d’un grosso riso per dare all’aspetto del proprio dire quel gaio e quel morbido che serve a far inghiottire altrui parole piuttosto durette e amarognole nella midolla.
“Sa cosa?„ replicò il Commendatore, molto seccato. “Io faccio come la luna; mi eclisso!„
E sparì nel suo atrio.