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188 | capitolo terzo. |
prire con ferro e vetro le due terrazze della villa, di ridurre l’una a vestibolo e l’altra a buffet. Carlino non voleva saperne dell’odiosissimo ferro, Fusarin pretendeva di poterlo dissimulare interamente con arazzi e stoffe, lo snobino Fanelli posava qua e là nella contesa il suo pizzico di sapienza mondana, sfoderava la sua conoscenza di sale illustri, di grandi poeti dell’arredamento. A Carlino piaceva solamente l’idea degli arazzi perchè ne aveva dei superbi, del Cinquecento, che a Villa Diedo non poteva collocare. Però i suoi arazzi avevano a esser diventati seminarii di batterii! C’era da prendere un malanno del secolo decimosesto! Come disinfettarli per bene? Potrebbe la loro sublime pelle sopportare il sublimato?
“Ciò!„ gridò il bizzarro Fusarin. “E quela barbassa de quel capussin de Calcante, e quela giaca onta de quel maledeto barbiero inzenocià col so caìn sporco in man per tor su el sangue de Ifigenia, e tuti quei tabaroni longhi de quel prinsipi greçi co quei musi da ciche e da cicheti, credistu, anima mia, che no i ghe n’abia dei batteri? E mi che me piasarave, vardè vualtri, crepar da la peste del mille e sinquessento! Saria belo, ciò! Saria novo!„
Seguì un torneo di sentenze pazze sulla morte e sulla vita. Berardini scherzava e rideva con la