Piccoli eroi/L'eroe dell'officina
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L’EROE DELL’OFFICINA.
Gigi e Pinella, figli d’operai, abitavano fuori di Porta Ticinese nella stessa casa in due stanze vicine. Erano nati nello stesso anno ed era sorta una specie di rivalità fra le loro mamme, dacchè ognuna voleva che il proprio figliuolo fosse più bello e più intelligente dell’altro; tanto che dopo la nascita dei figliuoli si guardavano in cagnesco, e si bisticciavano per cose da nulla.
— Rosa, mi pare che il vostro figlio sia piuttosto palliduccio, — diceva Filomena alla mamma di Pinella, — dovreste dargli l’olio di fegato di merluzzo.
— Gigi è più grasso, ma non vedete che ha sempre qualche cosa alla pelle? Ve lo dico io, non è un grasso sano, e preferisco il mio mingherlino, — rispondeva Filomena.
Quando poi i ragazzi cominciarono a frequentare la scuola, c’erano sempre nuove questioni.
Pinella studiava, era intelligente, e si faceva onore, e la Filomena moriva di rabbia e picchiava Gigi che invece d’andare a scuola si fermava per strada a giocare coi compagni.
— Di quel vostro figlio non ne farete mai nulla, — diceva la Rosa, — deve avere il cervello come quello d’un pulcino.
— Badate ai fatti vostri, e sarebbe assai meglio che non faceste studiar tanto il vostro figliuolo! Non vedete che ha la faccia gialla come un limone? Per conto mio preferisco un asino vivo a un dottore morto, — rispondeva Filomena.
Anche fra i ragazzi era un continuo bisticciarsi; andavano a scuola e giocavano assieme, parevano buoni amici, ma poi per una cosa da nulla attaccavano lite, ed erano busse d’inferno che fioccavano, tanto che spesso Pinella andava a casa o col naso rotto o con delle contusioni sulla faccia, e la Rosa si metteva a sbraitare che le ammazzavano il figliuolo, e che non era contenta se una volta o l’altra non faceva metter Gigi in prigione.
Quando Pinella ebbe terminato le scuole elementari, Rosa senza dir nulla a Filomena lo fece entrare nella tipografia dove lavorava il padre di Gigi, perchè imparasse il mestiere.
Era una tipografia che lavorava molto. Pinella fu destinato all’officina delle macchine, e gli diedero l’incarico di star dietro dietro la macchina tipografica a ritirare i fogli che uscivano stampati.
Egli era tutto orgoglioso del suo incarico, e quando incontrava Gigi che andava ancora a scuola colla cartella sotto il braccio, si dava delle arie e gli diceva:
— Buon divertimento alla scuola; io vado all’officina.
Gigi si sentiva a quelle parole soffocare dalla bile, e un giorno disse chiaro e tondo ai genitori che non voleva più andare alla scuola dove insegnavano cose inutili e che voleva far l’operaio come Pinella; che infine aveva la sua stessa età ed anzi l’altro era più mingherlino.
Il padre voleva che continuasse a studiare, dicendo che meritava quel castigo perchè non era passato agli esami ed era rimasto più indietro del compagno.
Ma la Filomena dava ragione al figliuolo, diceva al marito che egli era pure diventato un buon operaio senza bisogno di tanti anni di scuola che era tempo che Gigi guadagnasse, e doveva assolutamente trovargli un posto nella tipografia, come l’avea trovato la Rosa per Pinella.
Una volta che le entrò in capo questa idea, tormentò tanto il marito, che questi per aver un po’ di pace, fece accettare Gigi nella stessa tipografia dove egli era impiegato da tanti anni, e dove c’era Pinella, ma essendo occupati tutti i posti principali, nella tipografia tennero Gigi come galoppino.
Egli era incaricato di far le commissioni, di portare le bozze di stampa, spazzare la stamperia e far tanti altri piccoli servizi.
Si rassegnò a quegli umili uffici piuttosto che di tornare alla scuola, ma il suo sogno era di occupare il posto di Pinella, e dal momento che entrò in tipografia fece tutto il possibile per metterlo in cattiva vista dei compagni.
Pinella era contento, e non si curava della malevolenza di Gigi; egli era sempre là sulla sua macchina, attento a tutti i movimenti, guardandola come un essere soprannaturale, cercando d’indovinare il mistero di quelle ruote e di quei congegni, che funzionavano con tanta precisione, da continuare per delle giornate a dargli stampati, e tutti uguali, i fogli ch’egli le porgeva bianchi.
Quel fatto che pure vedeva ripetersi cento volte all’ora, lo sorprendeva sempre.
— È un mostro — pensava — ecco, io gli dò della carta bianca da mangiare, ed egli me la rende scritta, e con tante belle cose che poi si spargono per il mondo a seminare il sapere; è come una magìa; — e avrebbe voluto legger tutto quello che stava scritto su quelle pagine, e il suo sogno era di veder smontare una di quelle macchine, e di poter riuscire a combinarla colle sue mani.
Quando il macchinista la faceva fermare per accomodar qualche congegno o per ungerla con un po’ d’olio, egli ne osservava tutti i movimenti, si chinava per vederne l’interno, e si arrischiava a domandare qualche spiegazione.
Quando era a casa, pensava sempre alla macchina, ed era felice la mattina di andare al suo posto; ci si divertiva e gli pareva quasi di trastullarsi con un balocco, e le voleva bene come se fosse una sua creatura.
Gigi soffriva nel vederlo lieto e contento sull’alto della macchina, che appena appena si degnava di guardarlo, e quando gli passava vicino gli faceva sempre delle boccacce, oppure cercava di sgualcire i fogli ch’egli teneva ammucchiati accanto a sè, pronti ad essere stampati.
Gigi aveva giurato in cuor suo di rubare il posto all’amico, e sperava di riuscirvi.
Il solo difetto di Pinella era di star qualche momento come incantato a guardare i movimenti della macchina, oppure di fermarsi a leggere qualche brano interessante sui fogli che uscivano stampati.
E Gigi non mancava di far osservare ai compagni quei momenti di distrazione.
— Guarda come è incantato, — diceva al padre accennando Pinella. — Se fossi io al suo posto!
E un giorno che Pinella rimase a casa ammalato, egli riuscì ad impadronirsi di quel posto e decise che non glielo avrebbe mai più lasciato.
Quando Pinella ritornò all’officina e trovò occupato il suo posto, sentì come un colpo al cuore, e soffocato dall’ira, avrebbe voluto salire sulla macchina e strappare di là il suo compagno, ma, di carattere dolce e non sentendosi forza di lottare con uno più forte di lui, si contentò di dire:
— È una cattiva azione.
E da quel giorno non parlò più a Gigi, e gli tolse il saluto; ma quando passava vicino alla sua macchina, si sentiva venir le lagrime agli occhi.
Eppure, quando non aveva altre faccende, era sempre là davanti alla sua macchina e sebbene vedesse Gigi tutto trionfante fargli gli sberleffi, egli restava là come affascinato, senza poter staccarsene.
A casa era sempre triste e avvilito, e la sua mamma quando seppe il tradimento di cui egli era stato vittima, giurò una guerra implacabile ai suoi vicini. Da quel giorno le due donne si fecero tutti i dispetti possibili; non parlarono più, si chiusero la porta in faccia, sparlarono l’una dell’altra, si gettarono addosso mucchi d’immondizie, e se non si presero per i capelli, fu perchè si sfuggivano per non farne qualcuna troppo grossa.
Era la vigilia di Natale, e nella stamperia dove si trovavano Gigi e Pinella, ferveva il lavoro; tutte le macchine erano in moto; si dovea far molto e presto, perchè c’era una quantità di lavori, che dovevano esser terminati prima di sera.
S’era aumentata la pressione al vapore, e le macchine andavano con una celerità vorticosa.
Tutti gli operai della tipografia erano allegri e loquaci, parlavano della festa che avrebbero passato in famiglia, il giorno dopo; dei cibi che avrebbero mangiati, dei divertimenti che avrebbero goduti; poi quella rapidità di lavoro, quel rumore delle macchine, dava a tutti un eccitamento febbrile, che si diffondeva per lo stabilimento, e gli animava, come se fossero tutti scossi da una corrente elettrica.
Gigi era al suo posto, ma distratto, pensando alle feste, ai dolci, ai giuochi, alle battaglie colle palle di neve cogli amici; si affrettava a mettere i fogli sotto la macchina sembrandogli colla fretta di terminar più presto la sua giornata di lavoro.
Pinella era come al solito intento ad osservare la sua macchina prediletta e Gigi, che pareva esaltato e non sapesse quello che faceva.
E il lavoro continuava sempre, colla rapidità e la forza delle ultime ore.
Ad un tratto, Gigi lasciò cadere un foglio, e si chinò distratto fin sotto alla macchina per raccoglierlo, frettoloso, non sapendo quello che facesse, ma non fu più visto alzar la testa, e un grido straziante s’udì uscire di sotto alla macchina, al quale rispose un grido di tutti i presenti, che avevano capito che un loro compagno s’era impigliato fra le ruote d’una delle macchine.
Pinella non gridò, ma svelto come uno scoiattolo saltò sulla sua macchina e strinse il freno con tanta forza, che la fece fermare all’istante, poi si chinò e trasse fuori Gigi, col braccio sanguinante.
Tutto questo fu fatto in un secondo, mentre gli operai spaventati dal grido non s’erano mossi.
— Bravo, — gridarono.
— Evviva Pinella.
Intanto il padre di Gigi che aveva assistito alla scena, s’era avvicinato tutto ansioso al figlio che aveva le carni del braccio un po’ strappate, ma era vivo, e si capiva che la ferita non era pericolosa.
— Ringrazia Pinella — gli disse — se non sei tutto stritolato e ridotto una massa senza forma; che cosa hai fatto? Dove avevi la testa per metterti a quel rischio?
Egli non rispondeva; confuso, avvilito, si lagnava del suo braccio, quantunque il medico chiamato in fretta avesse dichiarato che la ferita non era pericolosa.
Passato quel primo momento di confusione, tutti ammirarono la prontezza e la bravura di Pinella, e prima di uscir dallo stabilimento gli fecero una ovazione, e quasi lo portarono in trionfo.
Egli si schermì; era timido e tutto quel chiasso gli dava noia; chiese solo di ritornare a riprendere il suo posto preferito accanto alla macchina.
— Ti daremo un posto migliore, — gli disse il capo-macchinista. — Ti prendo sotto la mia protezione, e guai chi oserà farti del male!
Quando andò a casa e raccontò alla mamma il fatto, essa disse:
— Quella gente proprio non meritava che tu lo salvassi; ti vogliono tanto male!
Più tardi terminata la cena sentì picchiare timidamente all’uscio, entrò la Filomena conducendo Gigi col braccio al collo.
— Rosa, permettete, — disse tutta confusa, — voglio dare un bacio al vostro figliuolo, sono stata ingiusta, lo riconosco.
— Fate pure, — rispose la Rosa voltandosi dall’altra parte e sentendosi commossa.
— Hai un bel cuore; — disse Filomena a Pinella, e lo gettò nelle braccia di Gigi dicendo:
— Dovete essere amici, e anche noi, non è vero, Rosa? dobbiamo dimenticar il passato, e se non vi rincresce domani che è Natale si potrebbe suggellare la pace pranzando assieme.
Rosa non poteva rispondere, aveva le lagrime agli occhi, e quando potè parlare disse:
— Io non ho mai avuto nulla con voi, era tutto per amore del mio figliuolo.
— E lo merita, è proprio un buon figliolo, potete andarne superba. E tu devi chiedergli scusa d’avergli preso il posto — disse rivolta al figlio.
I ragazzi erano confusi di trovarsi ancora amici, ma erano contenti, si guardavano in faccia e sorridevano.
Un applauso salutò la fine di questo racconto.
Era venuta a proposito la descrizione di un’officina; e quell’aver tutta la settimana pensato e discorso di lavori e di operai l’aveva reso più interessante.
— È proprio bello, — disse il signor Guerini, — e ve ne faccio i miei complimenti.
— Lo lessi, perchè in questo momento mi parve fosse opportuno; — disse Maria; — vi ringrazio d’avermi prestata attenzione.
Mario, come al solito, si era sfogato a far disegni uno più buffo dell’altro, che tutti si passarono di mano in mano.
Rappresentavano nientemeno che un ragazzo che usciva dalla macchina tipografica colla faccia stampata, poi Gigi che faceva le boccacce a Pinella, e questi che dava un abbraccio alla macchina, ed altre simili stramberie.