Piccola morale/Parte seconda/VIII. La perseveranza

Parte seconda - VIII. La perseveranza.

../VII. La speranza ../IX. Noia e dolore IncludiIntestazione 20 aprile 2024 75% Da definire

Parte seconda - VII. La speranza Parte seconda - IX. Noia e dolore

[p. 101 modifica]

VIII.

LA PERSEVERANZA.

Bel cielo, ma non è per noi! So di aver letto che Lutero facesse una simile esclamazione, traversando notte tempo la campagna in compagnia della troppo celebre Catterina. Vi sarà forse chi voglia trovare in queste parole un embrione di quella credenza alla fatalità, che sembra dominasse tutti i pensieri del riformatore; noi contentiamoci di derivarne argomento a discorso sopra certi irragionevoli scoraggiamenti che ritardano gli uomini nelle loro intraprese, e molte volte li rendono inetti a ciò stesso a cui crano dalla propria natura avviati.

Non sarebbe facil problema a risolvere se negli uomini in generale sia maggiore l’ardire o la timidezza, sebbene il buon Venosino che gettava l’armi a Filippi, e se la dava a gambe per quella che gli parea la più corta, cantasse;

          Nil mortalibus arduum est:
               Coelum ipsum petimus stultitia...

Che tradurrebbesi con qualche libertà, consigliata dal buon umore,

          L’ardir dell’uom non ha misura alcuna;
          Invita il Cancro a far colazione,
          E favella all’orecchio della Luna.

[p. 102 modifica]Ma, quand’anche non ce lo avesse detto chi nei tempi moderni non conosce rivali, e pochi ne può contare ne’ passati, e ne potrà tra i futuri, sarebbe da tenere per irrepugnabile la sentenza ivi essere perfezione morale ove il coraggio e la virtù siano fra loro corrispondenti. La quale corrispondenza rarissima essendo, assai rari sono pur quelli che meritino il nome di grandi.

E tuttavia, chi sappia bene considerare le cose, non è tanto il coraggio che manchi quanto la perseveranza, e chi ha voluto, in certa prima impetuosità di gettarsi alle difficili prove, trovare un indizio di singolare vocazione è caduto, a mio credere, in gravissimo errore. Due specie di inspirazioni vi sono, se cosi posso esprimermi; una violentissima e subitana, che dà la prima spinta all’operare, e ne mette sott’occhi tutta in un punto la lunga via che dobbiamo tracciare, con essa pure la mercè che ne aspetta arrivati che saremo alla meta assegnata. Questa improvvisa illuminazione del nostro intelletto può essere paragonata al repentino chiarore del lampo, che, battendo sugli occhi del viaggiatore smarrito, è bastante a raddrizzare i suoi passi, dato che dilungandosi dal buon cammino si fosse lasciato andare sull’orlo del precipizio. Ma un’altra luce, meno viva se vuolsi, ma più eguale e continua, succede nella mente dell’uomo a quel primo bagliore, ed è luce pacata, come di luna, che accompagna tutto lungo la strada il [p. 103 modifica]viandante, e non gli fa metter passo inutilmente. È questa quella seconda guisa d’inspirazione che abbiamo accennata, e alla quale possiamo dar nome di perseveranza.

Quella prima alacrità con cui altri, a somiglianza di cavallo volonteroso che all’udir delle trombe scappa fuori del suo cancello, si lancia furiosamente nella carriera che dalla immaginazione è dipinta come la più conveniente; quella prima alacrità, dico, ella è propria di presso che tutti gli uomini, in presso che tutte le loro azioni. Ma al sorger loro del primo intoppo, alla prima cosa che loro vada di traverso, non foss’altro col volgere del tempo, divoratore delle umane volontà non meno che dell’opere tutte dell’arte, il desiderio si allenta, il proponimento vien meno, le forze non rispondono; e ciò ch’era entusiasmo, e poco men che furore, diventa in brev’ora lentezza, irresoluzione, fastidio e dimenticanza. Il cominciare in somma è da tutti, il perserverare è solo di quegli egregij, destinati a dominare i loro contemporanei, e ad improntare il loro secolo del proprio nome e delle proprie opinioni.

Ciò vuole intendersi di tutte quante sono le prove che possono essere tentate dall’ingeguo dell’uomo. La debolezza principale di lui è da conchiudere francamente che derivi principalmente dalla instabilità de’ suoi desiderij. Nulla, dice Montaigne, può avervi tanto mutabile quan[p. 104 modifica]to l’uomo. E per altra parte coloro che mai non torcono l’occhio da un fine, e a quello sospirano con tutti i pensieri quanto loro basta la vita, è raro che non ottengano fama di pazzi. Tanto le estremità in ogni cosa si toccano, tanto il vizio è prossimo alla virtù, e alla follia la saggezza!

Badando a quanto si è detto finora, mi parve di poter conchiudere, che molte volte quella che sembra negli uomini timidezza, ed ottiene anche il titolo onorevole di modestia, altro non sia che leggerezza e volubilità, che immagina ed ingrandisce gli ostacoli a colorire per qualche guisa la propria vergogna. Eh! perché sei tu rimasto a mezzo di quella pratica, che pur era si bene incamminata? - Ho stimato prudenza il ritrarmene, dacchè m’accorsi esser tempo e parole gettate. — Ed io ti dico che i tuoi pensieri si appresero ad altro oggetto, e ti credo volubile e non prudente, come pure vorresti rimanere stimato. Andiamo a quest’altro. Oh non vedete! I tempi e gli uomini non sono più quei medesimi, e conviene a me pure di cangiare con essi. — E a te pure rispondo: non gli uomini e i tempi, ma tu sei cangiato, e non sei più l’uomo di un tempo. Oltrechè, quando ti sei posto all’impresa non pensavi come gli uomini e le cose non possono andar sempre ad un modo, e ogni giorno, o a meglio dire ogni ora essere apportatrice d’innumerabili mutamenti? Ti [p. 105 modifica]sembrò sulle prime che saresti stato scoglio inconcusso ad ogni gran batter di fiotti; spirò un poco di vento, si levò un poco di suboglio nell’acque, ed eccoti peggio che aliga a secondar ripiegandoti ogni più lieve percossa.

La potenza dell’uomo, che non fa mai di sè stesso la debita stima, è grandissima. Occhio al noto proverbio: la goccia perenne scavare la pietra. Ecco l’emblema della perseveranza. Gettate la sementa, quanto è da voi coltivate il terreno, e lasciate fare il tempo. Darà esso abilità al chiuso germe di svolgersi in fiore, e tutta metter fuori la sua bellezza. Pochi uomini ho veduto, tranne i pazzi, che con intensa volontà non giugnessero a nobile meta. Di que’ imbratta carte, a’ quali basta menare la penna da un capo all’altro del foglio per credersi un gran che a questo mondo, ha detto il principale de’ nostri scrittori di sermoni

          Breve fu la fatica, e breve dura;

dite il somigliante anche del resto che non fosse scrittura. Molte meteore di terrena grandezza abbiamo veduto passare sul nostro cielo, e taluna che sarebbesi facilmente scambiata pel sole; tanto era luminosa, tauto calore per essa si diffondeva su tutta la terra! È passata. L’edifizio costrutto di corto, di corto precipitò. È rimasta la maraviglia, e l’occhio ha dove spaziare per tante mostruose rovine: ma è un nulla della fabbrica in[p. 106 modifica]tera a cui mai non fu posto il cocuzzolo. Il nuovo Nembrotte non ha saputo trovare la parola che potesse essere intesa da tutti, e le diverse favelle interruppero l’unità del lavoro. Il cemento per esso adoprato non ebbe virtù di congiugnere: altra è l’arte del cacciatore, altra dell’architetto! E fu pur grande lezione, e degna che ogni uomo ne faccia specchio a sè stesso. Nembrotti presso che tutti, badiamo a non metter mattoni sopra mattoni, senza prima aver bene certato di gettar fondamenta profonde e robuste. La giustizia sia base d’ogni nostro lavoro, e facciamo gran caso della nostra concordia. Ove manchino queste due condizioni, ivi senz’altro è Babele.

Riferendo il discorso più particolarmente agli studij, è assai contraria alla verità l’opinione di alcuni i quali deridono la pertinacia con cui altri si tiene sempre dietro al proprio concetto e lo esplora, se così posso dire, col ferro e col fuoco in tutte le parti. Si crede che là dove si trova lima e fatica non possa avervi genio ed inspirazione. L’errore, a quello che io penso, deriva dall’attribuire alla parola fatica un significato che non le è conveniente. L’aquila affatica l’ali a volare, e il giumento la schiena e portar sacchi al mulino. E per questo? Non tutti faticano a un modo. Anche la Sibilla, quando il Dio le parlava, ed ella scontorcevasi tutta e ruggiva nel suo delirio, tollerava molto duro travaglio: ed [p. 107 modifica]era il travaglio dell’inspirazione. Dico questo perché a molti sembra oltraggio alla dignità dei grandi uomini, e degli artisti in particolare, l’attribuir loro la necessità di vincere col sudore e col tempo alcune malagevolezze. Chi poteva ad una rivolta d’occhi creare ogni cosa, ha voluto impiegarvi sei giorni.

Non vorrei per altro che si ritorcesse questo discorso a ferire in parte ove non ho sicuramente mirato, e fosse creduto falso e contradditorio quanto e da altri e da me medesimo fu detto più volte, aversi cioè a tenere in gran conto quell’opere che uscirono, come a dire, di getto da una mente ispirata. Il proverbio cosa fatta di getto, per dir cosa eccellente, parla molto chiaro a favore della subitaneità di alcuni lavori. Prima di tutto quel proverbio vuol tanto significare cosa fatta di colpo, quanto cosa le di cui parti sieno intimamente connesse fra loro. E oltre a ciò è da distinguere molto diligentemente arte da arte, e non confondere, per esempio, come taluno, pittura e poesia. E a questa prima distinzione molte altre devono essere aggiunte, le quali sarebbe inopportuno annoverare presentemente, e basterà che sieno state per via generale accennate. Ma poichè il discorso ci ha condotti alla poesia e la subitaneità del lavoro fa subito pensare agl’improvvisatori, dirò solamente di volo e per digressione, che l’errore di chi li accusa consiste nel non voler intendere come possono avervi alcu[p. 108 modifica]ne bellezze tutte proprie di questo genere di comporre, e alcune altre che il genere stesso rende impossibili. All’incontro l’errore di chi è appassionato per essi consiste nel voler assoggettare al lento giudizio della lettura, ciò che è fatto per solo guadagnare l’approvazione di un repentino commovimento. Devono andar del pari poeta ed nditori; cose impensatamente composte si giudicano all’impensata. Oh il bel giudicare, odo dire più d’uno, così avventatamente! — Signori, vi prego a non desiderare che altri scriva la storia di que’ torti giudizij che furono pronunziati dopo serie meditazioni. La nostra specie, con poca istruzione, ne ritrarrebbe assai di vergogna. Oh la sapienza dei fanciulli quante volte farebbe arrossire i gran savij dal pelo bianco! Quanto maggior sodezza in certi balocchi della prima età, che in certe ponderate deliberaz ioni della natura! Non è delle sole donne che si possa dire

                                   molti consigli... sono
          Meglio improvviso che a pensarvi usciti.

Non scrivo questo per consigliarvi a pensare e a vivere alla carlona; ma a dispensare con maggior riserbo il bel titolo di pazzo a qualunque non cammina coi piedi del piombo, e non spicca un salto se prima non ha misurato la larghezza del fosso che deve passare.

Tra i molti vantaggi che porta con sè la perseveranza non voglio tacer quello che mi sembra [p. 109 modifica]poco meno che principale. Rassoda l’intelletto ed il cuore di chi la possiede. Chi all’opposto va sempre a balzi, ed oggi indossa il sacco del penitente, domani le ricche vesti del sibarita, diverrà, quando ancora non voglia, diffidente delle proprie intenzioni per modo da non arrischiarsi di condurre ad atto cosa nessuna. Non vi ha condizione più infelice di quella dell’uomo costretto a non prestare più fede a se medesimo. Il sospetto, schifosissima fra le malattie dell’anima, diventa mortale quando è giunto a ritorcersi sopra sè stesso. E così accade di chi troppo facilmente cangia d’avviso, e facendo alla propria coscienza questa interrogazione: chi sono? non sa che rispondere. Non dirò, com’altri, che la coerenza renda rispettabile anche la colpa; questo è trascorrere oltre il termine d’ogni ragione: dirò che la perseveranza è per sè alcun che di decoroso, che aggiugne nobiltà ed importanza ai coucetti e alle azioni degli uomini.