Piccola morale/Parte seconda/IX. Noia e dolore

Parte seconda - IX. Noia e dolore.

../VIII. La perseveranza ../X. Abitudine e maraviglia IncludiIntestazione 20 aprile 2024 75% Da definire

Parte seconda - VIII. La perseveranza Parte seconda - X. Abitudine e maraviglia
[p. 110 modifica]

IX.

NOIA E DOLORE.

Piuttosto dolore che noia, dice taluno: come se la noia fosse esclusion di dolore, quando invece tutti i dolori potrebbero dirsi in essa compresi. A chi ben considera noia è sazietà. I fanciulli si veggono raramente noiati; e deve riputarsi mostruoso più ancora che singolare il suicidio di un ragazzo, di cui parlavano i giornali pochi anni sono.

          Nessun maggior dolore...
               Che ricordarsi del tempo felice,
               Nella miseria..!

Dunque, soggiungo io, nessun maggior dolore di quello che viene dall’esser noiato. La conseguenza è pianissima posti i principij anzidetti. Chi stimasse potervi aver noia scompagnata da sazietà vegga di non scambiare per noia la timidità, la accidia, la debolezza e altre tali possono queste appaiarsi alla noia, prolungarla, nutrirla, ma non sono ad essa essenziali, molto meno è da dire che sian propria dessa.

Veggiamo moltissimi i quali fanno mostra di essere assai miseramente noiati di ciò che non hanno per anco saggiato, ma che per questo? Altro è dire: oh, questo mi secca! ne sono pro[p. 111 modifica]priamente ristucco! Altro è sentire nell’anima quel tacito e penosissimo tarlo che, senza mai annichilarla, la rode. La pena dell’antico Titano, condannato al morso continuo dell’avoltoio, è simbolo efficacissimo a rappresentare il fastidio intollerabile di cui parliamo. Se questa favola nobilissima non fosse stata adoprata a significare importantissime verità, io ne avrei fatto uso assai volentieri in questo proposito della noia. Quanto opportunemente sarebbero concorse nel mio disegno le altre avventure che la mitologia ne racconta di quell’infelice benefattore del genere umano! E quell’Io sempre misera e gemebonda, che viene a cercare conforti da chi è legato al macigno e non può che cianciare? Messe di fronte due infelicità tanto simili nella loro discrepanza; dell’ardito profeta, alla cui animosa necessità d’operare non è conceduto staccarsi nè anco di un passo dalla sua rupe; dell’innamorata fanciulla, a cui bisognando il riposo è forza di errare senza termine di luogo e di tempo! E ambidue incessantemente cruciati dal tafano e dall’avoltoio!

Ma perchè mai molti affettano l’annoiato? Per quelle stesse ragioni, nè più nè meno, che molti affettano il malinconico, lo stravagante, il collerico e via discorrendo. Appunto perchè non s’annoia chi prima non abbia nuotato nell’abbondanza, con questa mostra della noia presente intendono far presumibile, a chi si contenta delle [p. 112 modifica]apparenze, la loro passata operosità. Ora dobbiamo credere in fatto moltissimi quelli che siano veramente noiati? Se ho a dire il vero non parmi ch’esser debbano molti. È però da distinguere tempo da tempo che s’io mi fermo a considerar quello in cui vivo mi sembra potersene trovare in maggior numero che nel passato. Non vi vedete un’impronta di noia molto profonda anche in quello che potrebbe sembrare a prima giunta progresso, e ne porta il nome? I secoli addossati l’uno all’altro si premono: guai all’ultimo, cui non rimane altra lena fuor quella che basta a portare il carico delle memorie! Sofferire? ciò è pur contenuto nella formula dell’editto onde fummo banditi dall’Eden: ma noiarsi? questo ancora peggio che bagnare col sudore della nostra fronte il pane dell’esilio.

Considerata leggiermente la noia potrebbe avere alcun che di allettante; inspirare, a così dire, una spezie di riverenza, o almeno di nobile compassione per chi n’è afflitto. Noiato degli studij? Costui dunque vi ha logorato l’ingegno. Delle ricchezze? Ne ha dunque conosciuto il poco pregio. Dei piaceri? Ne comprese dunque la vanità. Chi voglia per altro esaminare la cosa con alquanto di diligenza, troverà ad ultimo assai raramente derivarsi la noia da queste cagioni. Egli è perchè dagli studij non si ricavano que’ profitti a cui miravasi professandoli, che ce ne disgustiamo. A disamar le ricchezze, anzichè un [p. 113 modifica]giusto concetto del loro valore, ne induce l’abuso che ne abbiam fatto, ei grami risultamenti che in forza di questo abuso ce ne son derivati. Dicasi il somigliante de’ piaceri, e di ogn’altra cosa che abbia, o aver possa, relazione colla nostra felicità. Perchè non piuttosto guardarci dallo scambiare i mezzi per fini, gli effetti per cagioni, e da altri tali errori ne’ quali siamo soliti cadere, assai di sovente? Amiamo la scienza per essa, e non per quei beni che essendo in gran parte soggetti all’arbitrio della fortuna, possono no dallo studio essere procacciati. All’incontro non amiamo le ricchezze per ciò ch’esse sono, che nulla esse sono per sè, nè possono essere altro che nulla, ma come stromenti ad ottenere altri beni più reali e meglio rispondenti alla dignità della nostra natura. Il piacere, chi vuole considerarlo con animo tranquillo, è parola capace d’infiniti significati, ossia non è possibile ad alcuno il trovare fra tutti gli oggetti sensibili quello che possa compiutamente ed universalmente rappresentarlo. Pongasi dunque ogni nostro studio a conoscere qual sia l’oggetto, rispetto alla nostra individuale inclinazione, meritevole di essere da noi chiamato piacere; anzichè a quel primo oggetto, che per qualunque guisa solletica la nostra cupidigia, concedere troppo liberalmente, e senza veruno esame quel nome. Queste cautele, sommamente importanti alla buona regola della vita, ci torranno il bi[p. 114 modifica]sogno, e la voglia di affettare quella trista condizione dell’animo che chiamasi noia.

Fin qui s’è parlato della falsa o apparente, ma v’è pur troppo una noia vera, profonda, inviscerata in alcuni individui, la quale, anziché domarsi coll’opera dell’ingegno, si alimenta e si accresce, ed è da riporre, fra le malattie più funeste dell’anima, e contro la quale, come quella ch’è estremo male, sono da adoperare estremi rimedij. Non foss’altro il dolore. In questo senso savissimo è il detto: piuttosto dolore che noia. Difatti non potrebbe considerarsi la noia come il più terribile de’ flagelli, ond’è punita la creatura ribelle che vorrebbe sottrarsi alla propria destinazione? Certo chi ha provato la noia di cui parlo, e se l’ha sentita pesare sul cuore in tutta la sua spaventosa enormezza, torrebbe, credo, di rimanere tormentato da ogni altro supplizio, anziché da questo. Nulla io trovo di simile a questa terribile noia se non forse la disperazione, che assai facilmente potrebbe esser presa per essa. A chi coll’assaggio del pomo voleva guadagnar la sapienza fu dato in gastigo l’ignoranza; a chi getta lontano da se il carico del dolore, che tutti dobbiamo, qual più qual meno, portare, piomba in collo la noia, che, senza ischiacciarlo d’un tratto, se lo fa mancar sotto passo passo.

Conchiudasi: a cansare la noia, quando ne sia conceduto di averne sentore, è da tenersi [p. 115 modifica]abbracciati al dolore assai strettamente. Non sarà picciolo il nostro guadagno; il dolore è pur vita. Chi dicesse, una vita tribolata non esser punto desiderabile, risponderemo, l’annoiarsi non essere nemmeno morire. Posti fra il letamaio di Giobbe, e la porpora di Salomone, łasceremmo l’alabastro ridondante d’unguenti del voluttuoso monarca, pel ciocco sprezzato dell’Idumeo. Dopo il dolore c’è la speranza, ma dopo la noia?... Neppure la rassegnazione.