Patria Esercito Re/Parte prima/Eroismo e Sacrificio
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Eroismo e Sacrificio
I.
Dall’Esercito regolare, passiamo a quello dei Volontari. Ed eccoci, senza andar molto lontani, sul teatro della prima grande battaglia Garibaldina — a Varese — sostenuta contro le prevalenti forze dell’Urban, il 26 maggio 1859; cioè, soli sei giorni dopo la prima battaglia avvenuta a Montebello, fra le truppe del Feld-Maresciallo Stadion, noi e i nostri alleati.
L’epico combattimento di Varese, che diede il nome glorioso a molte contrade delle memori città d’Italia, è troppo noto perchè io ardisca ripeterne la storia!... Basterà dare un’occhiata a quel nuovo Calendario di Santi della patria, che sta scolpito nelle riconoscenti tavole del Municipio varesino, per sapere che fu il fior fiore dei figli di Varese quello che cadde nell’aspro cimento; per imparare che fu qui, che Adelaide Cairoli — la moderna madre dei Gracchi — dovette piangere il primo dei cinque fratelli che morisse sul campo: suo figlio Ernesto.
Ahimè! il giorno che seguì quello della battaglia di Varese — cioè il 27 maggio — eccoci al combattimento di S. Fermo!
Qui troviamo, morti sul terreno, Carlo De Cristoforis, il Cartellieri, il Pedotti e Giacomo Battaglia.
Permettete ch’io mi fermi un momento sui nomi di De Cristoforis e di Battaglia.
Il primo di essi, emigrato politico, e forte scienziato, vincolato come insegnante nell’Istituto Sambury, presso Londra, alle prime voci di guerra del 1859, scriveva al suo prode amico Sirtori, queste righe:
— “Ardo!... Ho offerto i miei servigi al Governo Piemontese. Se questi saranno accettati, partirò non appena tu mi scriva: — Vieni: c’è da farsi accoppare anche prima!„1
Più tardi — il 18 marzo — la sua impazienza diviene febbre acuta, e torna a scrivere:
— “Ardo!... Ardo!... Scrivimi subito di partire!... Mostro la lettera, e parto!... Fosse anche tamburino, voglio trovarmi al mio paese, e avervi la possibilità di subirvi il primo colpo di fucile!...„
E venne! — E giunto a Torino, Garibaldi lo destinò a Capitano della 3ª compagnia del II Reggimento Cacciatori delle Alpi, comandato dal vincitore del Vascello, allora colonnello Giacomo Medici.
E, il giorno 27 medesimo, là, a S. Fermo, il colpo di fucile da Carlo De Cristoforis dianzi invocato.... lo stendeva morto sul terreno!...
Giacomo Battaglia, geniale scrittore milanese, è quello stesso che, affetto da una forte miopia era rimasto alcun tempo addietro, ferito in duello, battendosi contro un ufficiale Austriaco ai tempi dell’Arciduca Massimiliano.
Sperava egli, forse, di prendersi una rivincita in campo aperto.... Ma anche qui — tradito dalla vista — non vide, o non volle vedere, la siepe di bajonette che gli venivano contro minacciose... e, spintosi impavido avanti alla testa del suo plotone, anch’esso come il giovane Onofrio Scassi a Montebello, cadde trafitto da cento punte mortali!
Presentiamo le armi davanti ai nomi di questi eroi, e rechiamoci sui monti Parioli, accanto ai due fratelli Giovanni e Enrico Cairoli.
Giovanni ed Enrico Cairoli — nella mente dei quali non sarebbe certo allora entrato mai il dubbio che pochi dissennati, senza patria e senza fede, dovessero un giorno attentare a quella unità per la quale essi offrivano l’olocausto della propria vita — Giovanni ed Enrico, là, sui monti Parioli, impegnata una lotta impari e disperata per la conquista di Roma, compresero subito la inanità del loro tentativo, dei loro sforzi. Sopraffatti dal numero, stretti intorno dal nemico, bersaglio alle palle dei Chassepots, essi avrebbero potuto ancora salvarsi colla fuga.....
Ma, tempre degne degli eroi di Plutarco, in quel momento supremo, i due fratelli, invece, si guardarono in viso..... si compresero!
— Ehi, Giovannino! — disse Enrico al fratello, sorridendo — qui bisogna morire, altrimenti ci daranno del buffone!
E caddero uno accanto all’altro, colpiti dalle palle di quei famosi Chassepots, di cui a Parigi i nostri fratelli Latini, decantavano le meraviglie!
Giovanni morì in seguito; ma Enrico rimase colpito mortalmente sul campo; e col nome della patria sulle labbra, morì ravvolto nelle pieghe del Tricolore italiano.
Perchè, allora, la gioventù conservava ancora, intatti nel cuore, gli alti ideali di patria, or pur troppo obliati. Con quelli e per quelli sapeva allora combattere, sapeva allegramente morire!
Oggidì non abbiamo più nulla!... Ed ecco il nostro male maggiore:
la mancanza di ideali. La gioventù, per sua natura rivoluzionaria, cui vengono a mancare quelli della patria, porge facile orecchio ai sobillatori, e s’industria e crearsene dei nuovi.
La gioventù ama le imprese ardite; e più queste sono difficili a raggiungere, e più da queste rimane attratta. La voluttà del pericolo la seduce; e, esuberante di vita, guarda da vicino la morte come una poesia.
Trascinato dall’argomento, lasciate che io qui dica liberamente il pensier mio. La mia parola non è sospetta. Non sono un rivoluzionario: sono uno dei vecchi impenitenti, fido soldato della patria e del Re; ma penso che forse facciamo male a voler spegnere del tutto nel cuore dei giovani quella specie di spiraglio, quella valvola, dirò così di sfogo, che si chiamava l’irredentismo.
Dobbiamo sorvegliarlo, dominarlo quel tanto che basti per metterci in regola.... colla diplomazia; ma spegnerlo del tutto — torno a ripeterlo — credo proprio che facciamo male.
Forse, quella parte di gioventù traviata, amante del nebuloso e delle cospirazioni, la quale ora che l’Italia è fatta, lavora a disfarla; si sfogherebbe a quando a quando con qualche grido d’irredentismo nelle piazze, ma non emetterebbe quelle grida parricide che le ombre dei nostri martiri, sorgendo dal sepolcro, maledirebbero!
II.
Fino dal 18 luglio 1848, l’Eduardo, tenente allora in Genova Cavalleria, era rimasto ferito a Governolo; e per questo fatto, e per quello poi di Borgovercelli, venne decorato di due medaglie al valor militare, la prima in vita, la seconda avuta dalla famiglia dopo la morte di lui.
Eduardo era il quarto dei sette fratelli Brunetta, che dal 1848 ad oggi — e anche oggi ne’ loro discendenti — consacrarono e consacrano alla patria, all’Esercito, ai suoi Re, e braccio, e sangue, e vita!
Il primo, Federico, nel 1848-49, era maggiore nella Brigata Acqui; fu ferito a Santa Lucia e decorato sul campo. Il secondo, Alessandro, era capitano nella Brigata Casale. Il terzo, Augusto, il 30 aprile 1848, a Pastrengo, difendeva vittoriosamente la vita del Re Carlo Alberto, essendo capitano di quel leggendario squadrone dei Carabinieri che passò alla storia, cantato dai poeti, e dai pittori illustrato. Veniva quarto l’Eduardo, pars magna del monumento. Quinto fratello, il Francesco, colui che a Governolo, nel 1848, accorso in ajuto del ferito Eduardo, se lo caricò in groppa, e, ferito egli pure, ebbe la medaglia al valore. Questi essendo colonnello nei Lanceri di Firenze, per un fatto d’arme, nel 1866, venne decorato della Croce di Savoja, e creato cittadino onorario di Vittorio Veneto. Anch’esso, come il fratello Augusto, morì generale. Sesto, Felice — detto S’cianca ferr, — nel 1848 tenente in Piemonte Reale, il quale a Gambaloita si meritò la Menzione onorevole; e poi, capitano in Monferrato, nel 1859, a S. Martino, la Medaglia d’argento. Felice comandò Nizza dal 1867 al 1877, e morì nel 1886, lasciando un figlio, Gino, ora ufficiale superiore nell’esercito.
Ma la lista dei Brunetta, soldati, non si ferma alla prima generazione! Appartiene alla seconda quel conte Enrico, figlio di Augusto, ufficiale nei Lanceri Novara nel 1859-60, e capitano di Stato Maggiore a Custoza nel 1866, ch’era decorato della Medaglia d’argento al valore, e morì tenente generale comandante, nel 1897, la Divisione militare di Perugia. Vi appartiene quel conte Carlo, tenente nei Lanceri di Firenze, che nella Campagna del 1866, si guadagnò a Monzambano, ufficiale d’ordinanza del generale Pianell, anch’esso la medaglia al valore. Di quel giovane ufficiale, il generale Pianell, nelle sue lettere intime alla moglie, scrive con ammirazione ed affetto. Carlo veste l’uniforme di Tenente Colonnello nei Cavalleggeri di Alessandria ed è nella Riserva.
Finalmente, Pietro, morto anch’egli da poco tempo, sul petto del quale brillava quella medaglia d’oro di cui ora facciamo la storia; e che lasciò nell’esercito un erede del suo buon sangue, un altro Eduardo, passato non è guari maggiore.
Era naturale che durante la festa di Borgovercelli, le cure e le attenzioni dei convenuti fossero specialmente rivolte verso il superstite dei sette, il tenente generale Pietro, ivi presente. La figura maschia dell’antico bersagliere non risentiva ancora, tranne nel candore del pizzo e de’ baffi, gl’insulti del tempo. Movimento, atteggiamento, parola, tutto era ancora in lui spiccatamente militare. Chi lo conobbe, sa ch’egli era tempra d’acciajo, che sdegnava le lagrime; ma che negli affetti della famiglia, e nei dolori della vita, aveva il cuore tenero di una fanciulla. Chi poi lo ebbe come commilitone o come superiore, rammenta anche oggi, con fierezza e con tenerezza, il bel tempo passato insieme con lui, o sotto di lui.
Quando S. A. il Conte di Torino, con vivace e felice improvvisazione, sotto il padiglione della piazza Brunetta, prima, e dalla tavola del banchetto poi, additando il petto del generale Pietro, coperto dei più fulgidi segni del valore, esclamava: — “Specchiamoci in Lui!„ — Una specie di corrente magnetica invase tutta quella massa di ufficiali e di cittadini, e gli applausi si levarono simultanei con un fragore prolungato come di tuono.
E gli applausi e i viva si ripeterono quando, più tardi, a banchetto finito, il generale Brunetta, commosso dalle parole a lui dirette dal giovane Principe, si alzò con uno scatto quasi leonino, e con l’antico entusiasmo dei bersaglieri di Palestro, rivolto verso Sua Altezza, che commosso lo guardava, lui pure esclamava:
— Sono vecchio, Altezza!... Ma se un giorno il Re, o la patria, richiedessero ancora il mio braccio, sappiate che un resto di sangue rigoglioso vibra ancora nelle mie vene. Quel giorno chiamatemi!... Eccomi qua!... Quel sangue è vostro!
Pietro Brunetta, come qualche altro ufficiale superiore, venuto prima della Unità d’Italia dal forte Piemonte, suppliva in campo alla moderna scienza, con un valore antico; ed era l’ideale di chi, avendo un supremo comando, non vuole scienziati che discutano gli ordini, ma soldati arditi che sappiano eseguirli.
— “Con un reggimento di Bersaglieri comandato da Pietro Brunetta„ — ci disse Pianell un giorno — “io sarei sicuro di sfondare in campo più di un quadrato nemico!„
E Napoleone, dettando le sue memorie a S. Elena:
— “Se io ordinavo a Murat di attaccare e sbaragliare quattro o cinque mila uomini in una data direzione, era l’affare di un minuto. Occorreva sfondare tre o quattro quadrati inglesi? quello era il mestiere di Murat! L’impeto primo, lo portava sempre in mezzo al pericolo. I Cosacchi stessi lo ammiravano per la sua grande temerarietà!...„
E come Murat faceva pompa in campo delle ricche ed abbondanti piume del suo copricapo, e così il Brunetta faceva allegramente svolazzare le verdi piume del suo cappello, dove ferveva più accanita la lotta, dove era più grave il pericolo.
Immediatamente dopo la guerra del 1866, il 24° Battaglione Bersaglieri, comandato da Pietro Brunetta, veniva precipitosamente imbarcato, con altra truppa, per Palermo, dov’era scoppiata quel po’ po’ di rivoluzione, ch’è rimasta una dolorosa incognita per tutti!
A Palermo comandava allora il Corpo d’Esercito, il generale Calderina; la Divisione, il generale Righini di S. Giorgio.
I ribelli — chiamiamo così quell’amalgamana di maffiosi, di reazionari, di malviventi e di briganti — profittando che la città era sprovveduta di forze, alzarono barricate lungo tutta via Toledo e via Macqueda, accampandosi nella piazza del Palazzo Reale, dentro del quale i due generali sullodati erano lì lì per cadere nelle loro mani, destinati a un vero macello.
La bella città andava a sacco e a fuoco... Il palazzo del giovane sindaco, marchese di Rudini, divampava... Terrore e rovina dappertutto!... Guai se fosse tardato di un’ora sola il soccorso!
Ma eccolo, provvidenziale, colle truppe giunte in quel momento dal mare!
I primi salvatori sbarcati, sono i bersaglieri comandati dal maggiore Pietro Brunetta. Egli lascia a bordo la propria famiglia, la quale dal ponte della nave ancora fumante, lo vede a impegnare la lotta; e assiste, da lontano, all’assalto della prima barricata, seguendo passo passo il proprio caro!
Per giungere a Palazzo Reale, bisognava superare tutte le barricate, affrontando il fuoco dei ribelli, mascherati dietro di quelle, appostati agli angoli delle vie, o affacciati alle finestre delle case.
Giunto alla prima barricata, il maggiore Brunetta si guarda indietro, per assicurarsi se tutto il battaglione lo segua... Vede tutti gli ufficiali e i sott’ufficiali; e, insieme con loro, attaccato alle sue calcagna, vede il suo fido trombetta, e sorride.
Il momento era brusco. — “A fasìa caud!„ — direbbero i piemontesi!... Occorreva un atto temerario che s’imponesse ai nemici... e animasse i soldati!
Ed ecco che il fuoco micidiale cessa a un tratto... come per incanto.
Che cos’è?
Pietro Brunetta, salito arditamente il primo, solo, in cima alla prima barricata, si guarda intorno impavido, e pare che si gingilli a dominare la scena. Poi, mettendosi a piroettare su quella, come farebbe un ballerino sulla scena, alza le falde a pieghe della sua tunica gloriosa, e, mostrando ai briganti la parte meno nobile della sua robusta persona, sghignazzando loro in faccia, grida:
— Tiré si drinta, brigant, tiré si drinta!
— “Tiré si drinta!... brigant!„ — mirate qua dentro briganti!...
Ecco Cambronne, che con un apostrofe, sublime nella sua volgarità, risponde a Waterloo a colui che intima la resa alla sua Vecchia guardia; e, per ragione dei contrasti, ecco Murat, che davanti alle canne dei soldati borbonici, al Pizzo — geloso ancora della matura avvenenza del suo volto — segna il petto a’ suoi carnefici, gridando:
— Visez au cæur!
Invece:
— Tiré sì drinta, brigant! — grida il Brunetta, perchè gli sarebbe parso di fare ai briganti troppo onore, offrendo loro a bersaglio il proprio petto.
È così che a Palermo, nel settembre 1866, il maggiore Pietro Brunetta d’Usseaux aggiunse al suo stato di servizio, quella Medaglia d’oro che, a Genova, poco tempo addietro, brillò radiosa sul suo feretro.
III.
Luigi Bocconi. — Giannino Frigerio.
Pur troppo, alla storia militare del 1848-49-59 e 66, dobbiamo aggiungere altre tre pagine, altrettanto tristi quanto parzialmente gloriose: Custoza, Mentana, Adua!
Custoza? — che poteva, e doveva essere una nuova vittoria; ma sulla storia della quale, per carità di patria, è meglio sorvolare....
Mentana? — Una di quelle imprese temerarie, che fanno — ahimè! — troppo stridente contrasto colla indifferenza dell’oggi!... Mentana, di cui abbiamo dianzi parlato.
Adua? — Una follia, cambiata in un disastro militare, per insufficienza di mezzi, mancanza di preparazione, incoscenza di ministri e di capi supremi, impari al loro compito.... Un disastro militare, il quale, come prima Dogali, servì però a provare al mondo meravigliato e commosso, come non siano soltanto leggende, dovute ai tempi di Roma e di Sparta, le geste delle Termopili; e che i nomi del Toselli, del Dabormida, del Galliano, dell’Arimondi, e di tanti altri, a noi giunti sull’ali della fama, nulla abbiano a invidiare ai nomi dei Trecento soldati di Leonida.... a noi mandati dalla leggenda.
Ma quell’Adua fatale, ci richiama melanconicamente il pensiero su altri due nomi.... quelli di due generose e volontarie vittime del loro stesso coraggio: dei due giovani milanesi Bocconi e Frigerio!
Quel giovanetto Frigerio, che i verdi cedri di Masnago videro crescere sotto il sorriso materno — oggi cambiato in perpetuo e desolato pianto!
Quel Bocconi e quel Frigerio, che colla loro morte eroica, mostrarono alle nuove generazioni, la strada del valore e del sacrificio. Esempio fulgido il loro, che compensa — tragico compenso! — il dolore della sconfitta.
Oggi, che su quelle tenere ossa, sperdute nello sterminato campo dei morti di Adua, noi non possiamo far cadere nemmeno il tributo di un fiore, rivolgiamo almeno pietoso il pensiero verso chi, baciando la loro effigie adorata, sospira e piange!
Luigi Bocconi nacque a Milano il 3 novembre 1869; fece gli studi, prima, nel Collegio Longoni, poi nell’Istituto Boselli e nel Liceo Parini.
D’ingegno pronto, di forte carattere e tenace, fu, fino da giovanetto, efficace cooperatore della grande azienda paterna, soggiornando successivamente a Monaco, a Berlino, nell’Hannover, a Londra, a Bradford, a New-York; così che, non ancora ventenne, si poteva già dire un uomo fatto. Luigi amava teneramente i genitori; le sue lettere alla madre rivelano tuttaquanta la nobiltà del suo sentire.
Maggiore dei tre fratelli, compì l’anno di volontariato negli Alpini: poi, dati gli esami, fu promosso ufficiale di complemento.
“Come sai„ — egli in quel tempo scriveva ad un amico — “fui congedato sergente; ma l’idea di fare, per avventura, la guerra in simile condizione, e rimanere forse estraneo a operazioni guerresche di qualche conto, non mi poteva andare a genio. Egli è per questo che sto facendo gli esami per essere promosso ufficiale di complemento.„
È così ch’egli anticipava, col pensiero, quello che poi avrebbe più tardi compiuto sul fatale campo africano.
L’eco del disastro di Amba-Alagi, seguito dall’eroica difesa di Makallè, svegliò dentro il cuore del giovane Bocconi una smania indomata di accorrere in Africa.
Ahimè! era la voce del destino che ve lo chiamava!
Ma come?... Con qual pretesto partire, senza spaventare i propri parenti?
Escogita uno stratagemma: ottiene da Crispi la tessera di corrispondente della Riforma.
— “Andrò in Africa portando meco una buona macchina fotografica... metterò insieme una collezione di vedute per farne omaggio al Sovrano...„
Era un pretesto. Venne creduto.... ed egli s’imbarcò.
L’Italia del popolo, in data del 3 febbraio, pubblicava:
“Ho saputo che sul Florio, partito per Massaua mercoledì sera 29 Gennaio, s’imbarcò un elegante giovane signore dell’Alta Italia, il quale dichiarava di recarsi al campo del generale Baratieri. Non volle dire il suo vero nome; anzi dichiarò che ne dava uno falso: quello di Bernacchi. Prese il biglietto d’imbarco anche per alcuni servi, e caricò sulla nave varie casse con armi, attrezzi da campo, e per cavalcatura. Non ho potuto sapere di più, ma cercherò scoprir qualche cosa...„
Era Luigi Bocconi.
Il giorno prima della battaglia di Abba-Carima — 29 febbraio 1896 — scrivendo da Entisciò al padre, egli si dice occupatissimo nei preparativi fotografici; e nella lettera, c’è questo passo: “Quanto a me, sta col cuore tranquillo. La vita che qui si conduce non è tale da ispirare timori. Appena ultimata la collezione destinata a S. M. il Re, prenderò la via del ritorno„.
Il pretesto — meglio — la bugia pietosa, continuava!
Chè, nemmeno confessandolo a sè stesso, ben altra era la ispirazione del suo cuore! Egli voleva, in qualche modo, prender parte al primo combattimento; voleva provare la sua carabina americana contro le orde nemiche; voleva, insomma, illustrare, in ben altra maniera, il proprio nome. Una specie di febbre di combattimento l’aveva invaso.
Il principe Chigi — un’altra delle vittime illustri di Adua, col quale Luigi aveva stretta amicizia — il dì 29 febbraio, gli confidava: che qualche cosa di grosso stava preparandosi.
Altro che via del ritorno!.... Bastò quell’accenno perchè ogni idea di partenza svanisse come nebbia al vento!... Luigi, deposta la macchina fotografica, impugnò la carabina!
Quello che aveva predetto Chigi, avvenne!
Nella notte fra il 29 e il primo marzo, le truppe italiane iniziarono il movimento avanti. Luigi consegnò la carovana al suo compagno fotografo — signor Ledrù — e si portò dritto alla testa di un battaglione....
Il sole del primo di marzo illuminò la strage!
Che ne fu di Luigi Bocconi?.... Il fotografo Ledrù, miracolosamente scampato, fu quello che diede alla famiglia la prima notizia. Da Milano piovvero dispacci su dispacci; ma nè Baldissera nè Lamberti seppero dare nuove dello scomparso!.... I giorni si succedono ai giorni. Arrivano a Napoli i feriti. Vi si corre febbrili, palpitanti. Dio!... quali ansie!... Si cerca Luigi.... Luigi non c’è!.... Dal capitano Manassero, uno dei feriti, si sa soltanto, che Luigi si battè come un leone; che da tutti venne ammirato il suo slancio, il suo valore; che, mortogli sotto il cavallo, continuò a combattere in catena, coi soldati; che nella ritirata, egli il Manassero, aveva chiesto di lui, ma che nessuno seppe dargliene notizie.
Il sottotenente La Villa, della Brigata Da Bormida, disse d’aver visto Luigi nelle prime ore del mattino, e che ebbe anzi da lui alcune sigarette. Il maggior Salsa disse, addirittura, che il giovane Bocconi era morto! Però non seppe darne ulteriori ragguagli. Il generale Lamberti, il quale, in unione al capitano Angherà, diresse il seppellimento dei caduti, rispose ai telegrammi: “ch’era impossibile fare delle ricerche utili fra più di 3000 cadaveri di bianchi ivi giacenti; anche in causa del loro stato di putrefazione e dell’essere alcuni di questi divorati in parte dalle jene„. Non seppe dunque dire con certezza se il giovane Bocconi fosse morto. Anch’egli disse però che questi si era battuto da eroe; ciò che confermò anche il tenente colonnello Arimondi.
Il Generale Baldissera, il quale molto interessamento dimostrò per la sorte toccata al povero Luigi Bocconi, informava d’aver ricevuto ad Adi-Ugri un telegramma da Keren, del tenente Maggiani, che diceva: “Vidi Bocconi alle ore 16. Sparava tra gli ascari miei e la compagnia del capitano Marchisio, del 10° Bersaglieri. Era incolume. Iniziata poco dopo la ritirata, non lo vidi più„. Anche il colonnello Ragni, vide Luigi fino alle dieci, circa, che tirava a fuoco accelerato; e, siccome questo poteva compromettere l’azione, l’aveva invitato a tirare a fuoco lento. Aggiunse di averlo poi veduto ripulire, poco lontano, con molta calma la sua carabina, e rimettersi a tirare a fuoco lento come egli aveva ordinato.
Intanto gli angosciati genitori si chiedevano:
— “È dunque vivo Luigi?.... È morto?.... È prigioniero?....„
Prigioniero!!.... Ecco l’ultimo raggio di speme!....
“Mi auguro, con tutta l’anima„ — scriveva il maggiore Nerazzini al desolato padre — “che suo figlio sia prigioniero; e se avrò la fortuna di poter salire all’Harrar, allo Scioa, sarò felice di poter dare, io pel primo, la consolante notizia!„
Se non che, a togliere l’ultimo filo di speranza, ecco un telegramma da Massaua del capitano medico d’Albenzio, così concepito:
“Addolorato dirle visto cadere uno che sembrommi suo Luigi. Vidi sella perforata campo Scioano. Difficile precisare località. Situazione non permetteva sepoltura. Auguro essermi ingannato.„
No, il buon capitano non s’era ingannato!
Le ansiose e replicate ricerche, fatte poi da un amico — Fulvio Raboni mandato sul posto — confermarono la cruda realtà!
Non più speranze. Luigi era morto!!
“Appena ultimata la collezione fotografica per S. M. il Re, prenderò la via del ritorno... — esso, come abbiamo veduto, scriveva a tranquillità del padre....
Ahimè! venne in Italia la collezione.... ne fu fatto omaggio a S. M. il Re — Ma il povero Luigi Bocconi non poteva tornare più, nè vivo... nè ferito... nè cadavere, dentro una bara!!
Onore alla sua memoria!
Ed eccoci a Giannino Frigerio.
Questi nacque a Milano il 28 novembre 1873, dal nobile Giovanni Frigerio e dalla contessa Ippolita Bethlen, vedova principessa Gonzaga di Vescovado.
Chiamato nei primi giorni del novembre 1893 a prestare servizio militare, venne assegnato, come volontario, al reggimento di cavalleria di guarnigione a Milano; e, nominato sottotenente di complemento, entrò nei Lancieri di Montebello, dove volle rimanere, anche dopo fatti i suoi mesi d’obbligo, rinunciando a qualunque assegno.
La divisa militare ch’egli portava con orgoglio gli aveva svegliato nell’animo un grande amore per le armi.
Bello, e forte, e generoso ufficiale, preferì alla vita pacifica, e inutile, di una guarnigione, per quanto bella, la vita attiva del campo; e, sedotto dal sole africano — tetro sole! — lasciò lì per lì Milano, e partì per Massaua il 16 novembre 1895. Codesta improvvisa partenza, se fu causa di grande dolore per gli affettuosi suoi genitori, non andò scompagnata da una mesta pagina romantica. Pagina che toccò la tragedia colla morte del povero Giannino e che, sprofondando nella desolazione i parenti, tornò di grandissimo onore a una nobile e soave creatura, la quale, piangendo quella morte, ne portò per due lunghi anni il lutto profondo.
La sera che Giannino lasciò Milano, per muovere verso quella terra che doveva bevere il suo sangue, fu accompagnato alla stazione dal suo fratello Carlo. Carlo, ch’egli adorava, e dal quale era svisceratamente amato. Al momento del distaccarsi per sempre l’uno dall’altro, fra un bacio e una lagrima, Carlo pose in dito a Giannino il suo anello d’oro, portante lo stemma di casa.
— “Prendilo per mia memoria. Nel guardarlo, pensa ai tuoi cari lontani.... Pensa al tuo Carlo!„
Quell’anello, dato e ricevuto dai due giovani esuberanti di vita e di energia, era, purtroppo, il dono che un morituro faceva... a un altro morituro!...
Giannino, partito per l’Africa il 20 novembre, appena giunto venne ivi aggregato allo squadrone di cavalleria indigena. Era arrivato alla vigilia del disastro di Amba-Alagi, e fu subito avviato all’altipiano. Al campo passò per tutti i disagi possibili, senza mai lagnarsi, nè perdere un bricciolo solo della sua giovialità abituale che lo rese amato e stimato da tutti i suoi camerata, e dai superiori. Scelto dal generale Albertone come ufficiale di ordinanza, Giannino non dubitò mai di sè stesso, nè i pericoli della guerra lo preoccuparono mai. Nelle frequenti lettere mandate a’ suoi cari, insieme a un profumo di sentimento squisito, rivelava altresì un altissimo sentimento del dovere di soldato.
Ahimè! poco prima che avvenisse la tragedia africana, un’altra tragedia, un dramma intimo, straziante, si svolgeva in via Monte di Pietà a Milano, fra le pareti di casa Frigerio. Carlo, il fratello di Giannino, colui che gli aveva dato l’ultimo bacio la sera della partenza, cadeva gravemente malato; e, in pochi giorni, assalito da un fiero morbo, moriva, sprofondando, in un dolore che non si descrive, la madre, il padre, tutta la famiglia, gli amici.
Giannino, informato della grave malattia del fratello, passò ore di dubbio angoscioso, per la difficoltà delle trasmissioni telegrafiche. Finchè un giorno — triste giorno! — ricevette dal Comando generale di Massaua il terribile annuncio della morte del fratello. Ne rimase fulminato, e, sotto la terribile impressione, sentì il bisogno di scrivere subito, colla matita, ai parenti lontani, la lettera, che qui riproduciamo:
Enda Gabriel, 21 Febbraio 1896.
“Tremo nello scrivervi queste poche righe.
La notizia mi giunge ora (ore 2) ed ha prodotto in me il più forte dei dolori. Non dico quanto soffro per non far soffrire maggiormente voi — Questo è certo il più brutto giorno della mia vita! Il nome di Carlo rimarrà sempre stampato nel cuore di tutti noi. — Povero fratello mio!... Carlo mi ha sempre voluto un bene immenso — aveva un cuore grandissimo, e diede a me sempre dei buonissimi consigli.
Io l’adoravo, e sapendolo ammalato avrei fatto qualunque sacrificio per vegliarlo giorno e notte.
Purtroppo, e per colpa mia, mi trovo in un paese lontano, dove nessuno mi può consolare.
Le notizie mi giungevano sempre un giorno in ritardo; il Comando poi, sapendomi tanto addolorato, esitava a farmi pervenire i telegrammi.
Ora riconosco il fallo di avervi lasciati!
Ma chi pensava allora che la famiglia avrebbe avuto una simile disgrazia?
Iddio lo ha voluto.
Mamma, Carlo è in Paradiso! — Fatti coraggio — sia forte come cerco di esserlo io pure.
Tu sei il modello di madre, immagino quanto hai fatto per salvare il tuo figlio. — Mentre tu stavi con papà a vegliarlo, io soffrivo, e con un pianto continuo pregavo fervidamente Iddio!
Ed ora, che voi tutti state affranti, col cuore afflitto, non aumentate il vostro dolore preoccupandovi troppo di me. — Non nego ch’io sono al contatto col nemico, ma il Signore mi proteggerà tenendomi lontano da ogni pericolo. — La guerra finirà, e verrà il giorno ch’io potrò, abbracciandovi, piangere con voi, e baciare più volte quella fredda pietra, ultima dimora del nostro caro.
Non posso continuare, continuerò quando saprò di essere più calmo.
Per ora non mi resta che stringere al cuore l’anello di Carlo, e pregare per l’anima sua!
Cercate di consolarvi e facciamoci coraggio.
Un bacio a mamma, papà e Momolo, sorella e Madame.
vostro Giannino.„
Il cuore trema davvero, pensando che codesta lettera, in data 25 febbraio, era scritta otto giorni prima che Giannino Frigerio cadesse coll’arma in pugno, accanto al suo generale nella fatale giornata d’Adua!
Le prime notizie del disastro, e della morte del generoso giovane milanese, vennero comunicate dal Ministro della Guerra al Sindaco di Milano, pochi giorni dopo la battaglia.
Era così pietoso il caso di quella morte, avvenuta a breve distanza da quella del fratello maggiore, che i cuori non reggevano a credere il vero! E, davanti alla terribile realtà, e padre e madre, in sulle prime, chiusero gli occhi per non vedere!
Il solo pensiero mette spavento!
Dopo la notizia sommaria del disastro, e della sparizione del povero Giannino, mancando i particolari, il campo delle illusioni — per quest’ultimo come per il giovane Bocconi — era rimasto aperto. Tranne che, per il Bocconi, lo sgomento, l’angoscia, la speranza, il disinganno durarono più a lungo.
Ma e per l’uno e per l’altro, si rassomigliarono.
— E se fosse solamente ferito?... E se fosse prigioniero?...
Si! per Giannino, i momenti delle speranze furono brevi. Dopo soli quattro giorni, l’ultimo raggio si spense! Perduta la speme, subentrò nel cuore dei parenti la smania, il bisogno di avere, almeno, da qualche testimonio oculare, i particolari del triste fatto.
E a tale bisogno, rispose la seguente lettera:
COMANDO del Corpo di Stato Maggiore |
Roma, 4 Marzo.
- Illustrissima Signora,
Ho l’onore di trascriverle il brano di una lettera a me diretta dal generale Albertone da Adis Abeba.
“Il sottotenente Frigerio da Milano, mio ufficiale d’ordinanza, cadeva mortalmente ferito accanto a me, poco prima delle 9 antimeridiane. — “Povera madre mia! Dio la consoli!„ — fu il suo primo grido. E, subito dopo: — “Evviva il Re! Evviva l’Italia! Avanti ascari... e niente paura, la vittoria è nostra!„
Una profonda commozione mi assale ricordando questo episodio, Quanto eroismo, quanto valore!
Nel suo lutto l’Italia può bene andare orgogliosa di questi suoi figli. Povero Frigerio! Pensare che io lo volevo lasciare al campo a sorvegliare le impedimenta, e che dovetti arrendermi alle sue insistenti preghiere, alle sue lacrime, per condurlo meco!... Fatalità! — Se tu potessi scrivere una parola di consolazione alla sua povera madre, la quale 15 giorni prima aveva perduto un altro figlio per malattia a Milano, faresti cosa veramente pietosa.„
Dalla commozione che io provo nel copiare questo brano della lettera del mio amico, nasce in me un senso di sgomento nel pensare alla impressione che ne proverà lei nel leggerlo. Ma penso pure alla tempra elettissima del figlio estinto, e so di scrivere alla sua degna madre.
Permetta, o signora, che io le presenti le più rispettose e sentite espressioni di dolorosa simpatia.
Devotissimo Felice Sismondi, Maggiore Generale. |
Se non che, anche questa lettera non calmò lo stato d’animo dei genitori di Giannino.
Essi, pur convinti che più, nessun filo di speranza, rimaneva al loro cuore, ardevano però sempre dalla sete di avere, almeno, qualche particolare della orribile disgrazia!
Sapere come, dove, in quali condizioni, quella morte era avvenuta. Dove, come era stata raccolta la salma della loro creatura. E, col cuore sanguinante, bevere.... bevere.... bevere a quella tazza amara, con spaventosa voluttà!
Perchè la sete di certi dolori è sete inestinguibile.
Infatti, veder morire nel suo letto un figlio amato — come i genitori di Giannino videro poco tempo prima morire il fratello Carlo — potere raccoglierne l’ultimo respiro. Avergli potuto dare l’ultimo bacio. Aver composto la cara salma dentro la cassa.... Averla coperta di fiori.... bagnata di lacrime.... Averla veduta, co’ propri occhi, scendere a dormire l’eterno sonno nella tomba di famiglia, protetta dagli insulti del tempo, e della profanazione umana.... fu, certo, grande dolore, fu spasimo infinito; ma lo spasimo, ebbe un conforto. Triste conforto!
In vece, sapere il figlio lontano, caduto fra i barbari; non sapere come, dove avrebbero trovato riposo le sue povere ossa; dove raccolto il bel corpo gentile. Vivere, collo spavento in cuore che questo, confuso fra mille morti, potesse essere finito pasto alle jene, o preda delle belve umane....
Oh! questo, questo sì, che fu spasimo cui il pensiero non giunge! Spasimo che non ebbe tregua, se non quando, un anno dopo, il pietoso colonnello Ripamonti diresse al padre la seguente lettera:
COMANDO del Corpo di Stato Maggiore. |
Roma, 6 luglio 1897.
- Carissimo Don Giovanni,
Ho ricevuto stamane la sua graditissima, e dieci minuti dopo parlavo col generale Albertone, Ella può immaginare con quanta commozione, ricordando i tristi particolari di quel triste periodo.
Il generale Albertone La ringrazia del desiderio da Lei espresso di volerne fare la personale conoscenza. Mi incarica, di riverire caldamente Lei e tutta la famiglia, e di significarle che, quando avesse l’opportunità, non mancherebbe di venirla a cercare e porsi a sua disposizione per tutte quelle informazioni, particolari e schiarimenti, che a Lei interessasse di avere e conoscere. Il generale sta ultimando la relazione sulla battaglia di Abba-Carima; relazione che certamente a suo tempo verrà di pubblica ragione. Da detta relazione, che egli mi lasciò stamane per qualche momento, stralciai, naturalmente col di lui consenso, i brani che qui Le trascrivo:
“.... Il combattimento si faceva sempre più accanito, ed il fuoco, specialmente da parte nostra, s’era fatto intensissimo, troppo a mio giudizio. Io personalmente, ed a mezzo degli ufficiali, addetti al Comando della Brigata, facevo ripetuti tentativi, anche a colpi di sciabola, per ottenere che fosse rallentato il fuoco, senza troppo riuscirvi: il tenente Frigerio portandosi avanti ad una centuria e minacciando con la rivoltella, ottenne però che almeno ivi rallentasse il fuoco.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mi trovavo allora presso le batterie indigene e vedevo cadere, a me accosto, il tenente Frigerio mio ufficiale d’ordinanza, alcuni serventi delle batterie ed alcuni ascari della mia scorta. Appena caduto, il tenente Frigerio corse col pensiero alla madre lontana ed esclamava dolorosamente: “povera madre mia!„ — ma subito dopo, sollevandosi alquanto da terra, gridava con occhi sfavillanti “Viva il Re, viva l’Italia, avanti ascari, la vittoria è nostra.„
Da quanto ebbe a ripetermi il Generale, il povero Giannino cadde proprio quasi ai suoi piedi, colpito da una palla al fianco sinistro. Il Generale, a cui quello spettacolo faceva strazio, ordinò che il ferito fosse portato indietro; fu infatti caricato su un muletto e tolto di là; mezz’ora dopo moriva, senza soffrire, e senza avere, nè prima nè dopo, subìto sevizie di sorta; e ciò il Generale assevera in modo positivo, invitandomi a riferirlo a Lei, don Giovanni. — Il Generale, che voleva bene al povero Giannino come ad un figlio, aveva intenzione fin dal principio della campagna, di tenerlo indietro; ed anche la vigilia della battaglia, il Generale stesso, (conscio della disgrazia già toccata alla famiglia da pochi giorni, colla morte del povero Carlo), avrebbe voluto mandarlo colla scorta, un po’ più al sicuro, meno esposto: ma dovette arrendersi alle insistenti e supplichevoli richieste del povero ragazzo, il quale, oltre al resto, poneva avanti il motivo di esser andato in Africa quale volontario, ed a lui quindi meno che ad ogni altro, si addiceva la parte che gli si voleva affidare, a cui lo si voleva quasi condannare. A quel linguaggio da bravo soldato, come avrebbe potuto resistere un altro bravo soldato, e bravo davvero, incontestabilmente, come il Generale Albertone? — Fu fatalità, quella fatalità le cui leggi sono imperscrutabili.
Il Generale Albertone avrebbe voluto egli stesso risponderle; ma specialmente in questi giorni, non ha nè tempo, nè la calma necessaria per farlo convenientemente. Anch’egli, per quanto ingiustamente, è una delle tante vittime fatte dall’Africa, ed i suoi guai non sono forse ancora finiti. Mi dimenticavo di soggiungere, avermi il Generale detto come, fra i meritevoli di ricompensa per la condotta tenuta in quella triste giornata, avrebbe anche segnalato il povero Giannino; e ciò facendo non avrebbe fatto altro che rendere giustizia al merito ed al valore di lui. Anche ciò, per quanto povero sia il compenso a tanta perdita, valga a lenire il loro cordoglio„.
Sia suggello alla bella lettera del colonnello Ripamonti — suggello immortale — il Decreto che conferiva a Giannino Frigerio, sottotenente di complemento nella Brigata Indigeni, la Medaglia al valor militare.
Decreto così motivato:
“.... Si recò ripetutamente là ove maggiore ferveva la lotta, per portare ordini del Comando di Brigata. Cadde mortalmente ferito inneggiando al Re e alla Patria.„
Abbiamo detto, in principio di questi cenni, che il fratello di Giannino — quel Carlo che doveva precederlo nella tomba — giunto alla stazione, nel momento del distacco, gli poneva in dito, come sua memoria, un anello d’oro collo stemma di famiglia.
Quell’anello ha una storia che sembra un romanzo, e che narriamo.
Il padre di Giannino, un giorno, ai primi d’ottobre del 1896, cioè dopo ben sette mesi della morte del suo eroico figliuolo, lesse a caso in un giornale, essere pervenuto al Ministero della Guerra un anello d’oro, avente nel castone uno stemma, e mandato da Massaua nella supposizione che potesse appartenere a qualche ufficiale morto in campo; perchè, nel caso, se ne facessero le debite ricerche.
— Un anello d’oro, con uno stemma inciso?... Mio Dio!... che fosse?...
In quel tempo reggeva il Ministero degli Esteri il marchese Emilio Visconti Venosta.
È a questi che il padre Frigerio scrisse subito — con qual cuore ognuno può pensarlo — pregandolo di voler verificare se quella gemma fosse per avventura l’anello del suo Giannino; e gliene dava la descrizione.
Ed ecco, dopo pochi giorni, giungere, venuto da Roma, il seguente telegramma:
Roma (Esteri), 6 ottobre 1896.
- Nobile Gino Frigerio,
Masnago.
L’anello trovato è quello che tu speri riavere. Dimmi come devo mandarti la preziosa memoria. Miei saluti e l’espressione dei miei sentimenti a Ippolita.
Emilio Visconti.
E, il giorno dopo, al telegramma faceva seguito questa lettera:
Il Ministro |
Roma, 7 ottobre 1896.
- Caro Gino,
Facendo seguito al mio telegramma di ieri, ed in attesa di una tua risposta, ti informo che l’anello del tuo Giannino era in mano di un tigrino in Adua, ed il caso volle che ciò fosse venuto a notizia di un filantropo inglese, sir William Wilde, il quale trovavasi presso ras Mangascià e fu largo di sussidi e di conforti verso i nostri prigionieri.
Sir William, con gentile pensiero, acquistò quell’anello e lo inviò subito al Comando di Massaua, perchè fosse recapitato alla famiglia del possessore.
L’anello fu mandato al Ministero della Guerra; ma, essendo io stato informato che lo stemma che portava inciso era quello della tua famiglia, lo feci tosto ritirare e lo tengo ora a tua disposizione.
Abbimi affettuosamente.
E. Visconti Venosta.
Ora, dei due figli, Cario e Giannino, a conforto dei poveri genitori non rimane... che l’anello del primo, e la Medaglia al valore, pagata colla vita, del secondo.
Desolante conforto!
IV.
Se non che, la Iliade italica non si ferma ai nomi di semplici cittadini; ma ascendendo i gradini di un trono, arriva fino a toccare la Corona dei Re.
Ecco Carlo Alberto, questa mistica figura di un Sovrano d’altri tempi, fulgido esempio di Re magnanimo, il quale, pel bene della patria e del suo Esercito, va a morire di crepacuore in esilio!
Ecco Vittorio Emanuele, fondatore d’Italia, che allo storico convegno di Vignale, nel 1849, respingendo sdegnoso, come il suo Gran Genitore, le proposte di pace anticostituzionali dell’astuto Feld-maresciallo Austriaco, a sua volta risponde:
— “La mia casa conosce la via dell’esilio, non quella del disonore!„
E quando le trombe della riscossa fecero sussultare, di sotto terra, le ossa dei morti eroi del 48 e 59, rialzava dalle cruenti zolle di Novara lo stendardo d’Italia; e, per virtù di popolo, e per fede di Re, lo inalberava sulla Torre Capitolina, ultima tappa della cruenta via crucis italica!
Di quel Re che morì in Roma — nella sua Roma — quasi che il Potere Supremo che segna un limite alla vita umana, nel suo libro adamantino avesse scritto: che Vittorio Emanuele, morendo nella città eterna, ivi suggellasse, colla propria morte, il patto intangibile della grandezza e della unità della patria!
Ecco Umberto, principe di Piemonte, che freme nel Quadrato di Villafranca per la inerzia cui è condannata la propria Divisione; e, poco manca che, per la smania di combattere, non diventi ribelle agli ordini del comandante il Corpo d’Armata.
Umberto, che, assalito dal nemico, la spada in pugno, difende impavido, corpo a corpo, la giovane testa destinata alla Corona d’Italia. Lui che, divenuto Re, noi vedemmo ribelle a’ suoi stessi ministri, e a tutto il popolo Italiano — geloso della preziosa vita sua — correre a Napoli e a Busca presso il letto dei colerosi.... e gittare lontano i guanti per poter meglio — carne a carne — stringere la mano ai morenti. Lui, che vedemmo apparire improvviso — genio della pietà e del conforto — in ogni luogo dove si soffriva o si piangeva; che non rammentava di essere Re, se non per incoraggiare, beneficare, per far germogliare dintorno a sè la semente sacra della gratitudine e dell’affetto.
Lui, infine, che in un giorno di lieta festa, là nella sua Monza diletta, in mezzo al popolo che l’adorava e l’acclamava, cadeva vittima di una belva umana!
Abbiamo voluto degnamente chiudere la prima parte di questo lavoro col nome di tre Sovrani, fulgido esempio di eroismo e di sagrificio regale.
Tre Nomi cari e immortali, davanti ai quali s’inchina reverente il Genio della nuova Italia.
Note
- ↑ Vedi Penna e Spada. Editore Hoepli, 1899.