Parte seconda del Re Enrico IV/Atto secondo
Questo testo è completo. |
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
◄ | Atto primo | Atto terzo | ► |
ATTO SECONDO
SCENA I.
Londra. — Una strada.
Entra l’Ostessa; Fang e il suo valletto vengono con lei;
Snare li segue.
Ost. Ebbene, messer Fang, avete posto ordine alla cosa?
Fang. Sì.
Ost. Dev’è il vostro uomo? È egli robusto? Sarà fermo?
Fang. Garzone, dov’è Snare?
Ost. Oh Cielo, sì: il buon Snare.
Snar. Eccolo, eccolo.
Fang. Snare, bisogna che arrestiamo sir Giovanni Falstaff.
Ost. Sì, buon Snare, bisogna farlo.
Snar. Potrebbe costar la vita a qualcuno di noi; perchè egli giocherà col pugnale.
Ost. Oh buon Dio! attendete a lui; ei mi ha ferita in casa mia e nella maniera più crudele del mondo. Snudato ch’abbia il ferro, non pensa al luogo in cui lo vibra; come un demonio trova ad esso un fodero per tutto, non risparmiando nè uomini, nè donne, nè fanciulli.
Fang. Ah! se lo posso ghermire, non attenderò ai suoi colpi.
Ost. Nè io tampoco. Vi starò accanto e vi darò mano.
Fang. Se lo posso afferrare, se giungo a stringerlo fra queste tanaglie...
Ost. La sua partenza mi rovina; vi giuro ch’ei tien discorsi sul mio conto che mi disonorano. Mio caro Fang, impugnatelo ben stretto! Amabile Snare, non vel lasciate sfuggire. Egli viene spesso a Pye-Corner per comprarvi selle, e invitato è a pranzo al leopardo di monsieur Dougs, mercante di seta, nella strada dei Lombardi. Vi prego dunque, poichè le mie cose sono a dovere, e il fatto è conosciuto da tutti, di costringerlo a soddisfarmi. Cento marchi! è un peso enorme per una povera vedova; e nondimeno ho avuta molta e molta pazienza! Fui abbindolata da un giorno all’altro, in maniera turpe: non v’è nè onore, nè probità in tale procedimento, a meno che non si consideri una donna come un animale, buona a servir di trastullo a tutti i malandrini che vengono in casa sua. (entra sir Giovanni Falstaff, il paggio e Bardolfo) Ah! eccolo, e con lui sta quel naso rosso di vino, quel maledetto Bardolfo. Fate il vostro dovere, messer Fang, e voi ancora, Snare: fate, fate, fate il vostro dovere.
Fal. Olà! A cui apparteneva la giumenta che è morta? Di che si tratta?
Fang. Sir Giovanni, io vi arresto, ad istanza di mistress Quickly.
Fal. Al diavolo, maledetti! — Snuda il ferro, Bardolfo: fa saltar la testa di questo villano; getta la sua dama nel padule.
Ost. Gettar me nel padule? Io getterò te nel pozzo. Vuoi tu?... vuoi tu?... indegno scellerato!... all’omicidio, all’omicidio! Oh, indegno assassino, vuoi tu uccidere gli ufficiali di Dio e del re? Ah, empio! tu sei un carnefice d’uomini e di donne.
Fal. Tienli lontano, Bardolfo.
Fang. Aiuto! aiuto!
Ost. Buona gente, datene aiuto. — Tu non vuoi, non vuoi?... tu non vuoi, non vuoi, scellerato?... vattene, avanzo di corda.
Fal. Via, indegni, mozzi, guatteri. Vi farò giunger tutti alla vostra catastrofe. (entra il lord capo della giustizia con seguito)
Lord. Che fu! Ristatevi tutti, olà!
Ost. Mio buon lord, siatemi propizio! Io vi supplico di proteggermi!
Lord. Ebbene, sir Giovanni, perchè state qui schiamazzando? Si addice ciò al vostro grado e alle vostre occupazioni? Non dovreste essere già partito per York? Allontanatevi da lui, mariuolo? perchè lo tenete?
Ost. Oh, mio signore, così piaccia alla Grazia Vostra, io sono una povera vedova di Eastcheap, ed egli fu arrestato a mia inchiesta.
Lord. Per qual somma?
Ost. È più che per qualche somma, milord; è per tutto, per tutto quello che posseggo; egli mi ha mangiato in casa e fuori di casa; ha messe tutte le mie sostanze in quel suo grasso ventre: ma io le riavrò o t’infesterò tutte le notti cavalcando sopra di te come un incubo.
Fal. Potrebbe accadere che avessi io tal vantaggio su di voi, se me ne prendesse vaghezza.
Lord. Che significa ciò, sir Giovanni? Vergogna! Qual uomo d’onore soffrirebbe tante esclamazioni? Non arrossite di costringere una povera vedova a venirne a tali estremità per ricuperare il suo?
Fal. Qual è la gran somma che ti debbo?
Ost. In verità, se fossi un uomo onesto, mi dovresti te stesso non che il tuo denaro. Tu mi giurasti sopra una tazza dorata, seduto nella mia camera del Delfino alla tavola rotonda, accanto ad un buon fuoco, il mercoledì della settimana della Pentecoste, il giorno stesso in cui il principe ti ruppe la testa, per aver paragonato il re suo padre ad un giullare di Windsor; mi giurasti allora, mentre io lavava la tua ferita, di sposarmi e di far di me miledi tua moglie. Puoi tu negarlo? Non giunse in quel momento la buona donna Keeck, la moglie del beccaio, che mi chiamò col nome di comare Quickly, soggiungendo poscia che le prestassi un po’ d’aceto, e dicendo che aveva un buon piatto di locuste, tanto che ti venne voglia di mangiarne; se non che io ti feci notare che ciò avrebbe nociuto alla tua ferita? E discesa ch’essa fu dalle scale, non mi consigliasti tu a non usar più tanta familiarità col minuto popolo, avvegnachè fra non molto sarei stata chiamata madama? E non mi baciasti ancora in quella circostanza, pregandomi di trovare trenta scellini? Io ti richiamo i tuoi sacramenti; niegali se puoi.
Fal. Milord, questa povera anima è impazzata, e va spargendo per la città, che il suo figlio maggiore somiglia a voi: le sue circostanze furono ottime in altri tempi, ora la povertà le ha tolto il cervello. Ma quanto a questi indegni ufficiali, io vi supplico perchè io abbia da essi soddisfazione.
Lord. Sir Giovanni, sir Giovanni, sono bene istrutto della vostra maniera di far sembrare cattiva una buona causa. Non è una fronte armata d’audacia, nè il torrente di parole, che esce dalla vostra bocca con tanta impudenza, che mi possono abbagliare. Io so che avete approfittato della debolezza di questa donna, per usarne a vostro talento in tutti i sensi della parola.
Ost. Sì, è vero, milord.
Lord. Te ne prego, taci. — Pagatele quello che le dovete, e riparate all’ingiuria che le avete fatta; l’uno potete con buone sterline, l’altro col pentimento.
Fal. Milord, non soffrirò senza rispondere a tali rimproveri. Voi chiamate un’onorevole audacia impudente insolenza: se un uomo vi s’inchina e non dice nulla, egli è virtuoso. No, milord, senza obliare quel che io vi debbo, vi dichiaro che non compierò qui la parte del cortigiano; e dico che vuo’ esser libero di questi ufficiali, incaricato come sono di messaggi del re.
Lord. Voi parlate come uomo autorizzato al mal fare: ma rispondete alle vostre accuse e soddisfate questa povera donna.
Fal. Vien qui, ostessa. (prendendola a parte; entra Gower)
Lord. Ebbene Gower, quali notizie?
Gow. Il re, milord, e il principe di Galles stanno per giungere; il resto ve lo dirà questa carta.
Fal. Quanto è vero ch’io sono un gentiluomo...
Ost. Mi diceste così anche prima.
Fal. Quanto è vero ch’io sono un gentiluomo, venite, non me ne parli più.
Ost. Per questa terra su di cui cammino, sono costretta a porre in gaggio i miei vasellamenti e gli arazzi della mia sala da pranzo.
Fal. I vetri, i vetri bastano per bere; e in quanto ai muri, alcune carte stampate, coll’istoria del figlio prodigo o di una caccia tedesca in turchino, valgono cento volte più di tutti quei drappi e quelle rosse tappezzerie. Fammi avere dieci ghinee, se puoi. Senza quei tuoi ghiribizzi, posso dire che non vi sarebbe donna migliore di te in Inghilterra; va, lavati il volto, e ritira la tua istanza: tali umori non vi si addicono con me; forse che non mi conosci? Via, via, so bene che sarai stata spinta a farlo.
Ost. Te ne prego, sir Giovanni, appagati di venti scudi; ho ripugnanza, in verità, a impegnare le mie ultime masserizie.
Fal. Non se ne parli più; mi volgerò altrove: voi sarete sempre una stolta.
Ost. Ebbene, avrete quel che chiedete, dovessi vendere la mia sottana. Spero che verrete a cena, e mi pagherete tutto insieme.
Fal. Oh che io non desidero di vivere? — Va con lei, va con lei (a Bardolfo) e non lasciartela sfuggire.
Ost. Volete che faccia venire Doll-Tear-Sheet a cena con noi?
Fal. Non più di ciò; venga.
(escono l’Ost., Bard,, ufficiali e paggio)
Lord. Mi si erano dette migliori novelle.
Fal. Quali son esse, mio buon lord?
Lord. Dove dormì il re la notte scorsa?
Gow. A Bolingbroke, milord.
Fal. Spero, milord, che tutto vada bene: quali novelle, milord?
Lord. Riconduce con sè tutto l’esercito?
Gow. No; mille e cinquecento fanti e cinquecento cavalli son partiti, per raggiungere Lancastro, che va contro Northumberland e l’arcivescovo.
Fal. Forse che il re torna da Galles, mio nobile lord?
Lord. Avrete tosto le mie lettere: venite, venite con me, buon Gower.
Fal. Milord!
Lord. Ebbene?
Fal. Messer Gower, ardirò io invitarvi a pranzo?
Gow. Convien ch’io vada con questo buon signore: vi ringrazio, caro sir Giovanni.
Lord. Sir Giovanni, voi indugiate qui troppo, dovendo, come sapete, prender con voi, lungo la via, gli uomini che dovete comandare.
Fal. Volete cenar con me, messer Gower?
Lord. Qual idiota maestro v’insegnò tal maniera di procedere, sir Giovanni?
Fal. Messer Gower, se ciò mal si addice, fu pazzo quello che mi educò. Questo si chiama schernire, milord; colpo per colpo e partita pari.
Lord. Iddio t’illumini! Sei un gran folle. (escono)
SCENA II.
La stessa. — Un’altra strada.
Entrano il principe Enrico e Poins.
P. Enr. Credetemi sono assai stanco.
Poins. È egli vero? Avrei pensato che la stanchezza non ardisse aggravarsi sopra persona sì eminente.
P. Enr. In fede, lo fa; sebbene mi sia d’onta il convenirne. E non mi avvilisce egualmente ancora questo mio desiderio incessante di bere birra?
Poins. Oh, un principe non dovrebbe avere la debolezza di ricordarsi di così povera bevanda.
P. Enr. E’ pare che i miei appetiti non siano molto regii; perocchè, in verità, mi accade ora di risovvenirmi con amore di quella povera birra. Tali pensieri umilianti mi farebbero quasi avverso alla mia grandezza. Qual vergogna non è per me il rammentarmi del tuo nome? o il riconoscerti dimani? o il sapere quante paia di calze di seta hai; cioè queste e l’altre colore di pesca? o l’avere a mente l’inventario delle tue camicie, che si compone di una che porti e di un’altra di uso superfluo? Ma intorno a ciò, la è bisogna pertinente al maestro di palla: chè egli ne sa il conto meglio di me; perocchè convien che tu sia posto ben giù, allorchè te ne stai scioperato, e ciò perchè è piaciuto al resto dei tuoi paesi bassi d’acconciarsi in guisa da divorare la tua Olanda. Dio sa se quelli che narrano tante storie sulla perdita della tua biancheria, si arricchiranno con tale eredita; ma le savie donne affermano che i fanciulli non ne hanno colpa, i fanciulli per cui cresce il mondo, e per cui le parentele meravigliosamente si afforzano.
Poins. Pel Cielo! vuol confessarsi che è bello l’udirvi narrar tante fole, dopo aver compiute così belle opere. Ditemi, quanti giovani principi vorrebbero spacciarne un sì gran numero, essendo il padre loro malato come è ora il vostro?
P. Enr. Debbo io dirti una cosa, Poins?
Poins. Sì, e fa che sia eccellente.
P. Enr. Sarà eccellente sempre per uno spirito qual’è il tuo.
Poins. Andate; sto in attenzione della cosa che volete dire.
P. Enr. Ebbene, ti dico che non debbo mostrarmi mesto, ora che mio padre è infermo: imperocchè potrei soggiungerti (siccome ad uno cui mi piace, per difetto di un migliore, di chiamare mio amico) che avrei ben motivo d’esser mesto, e molte mesto.
Poins. È difficile che lo siate per tal cagione.
P. Enr. Per questa mano, tu dunque mi credi scritto nel libro del diavolo, come sei tu e Falstaff per eccesso di malvagità? Il fine chiarirà l’uomo. Io ti dico che il mio cuore dà sangue internamente sapendo mio padre infermo; e che non v’è, che la vil compagnia in cui sto, nel novero della quale tu entri, che m’abbia fatto deporre ogni sembianza esteriore d’ambascia.
Poins. Per qual ragione?
P. Enr. Che penseresti tu di me s’io piangessi?
Poins. Ti reputerei un regio ipocrita.
P. Enr. Sarebbe il pensiero di tutti: uno scaltrito tu sei che pensi sempre come ogni altro; non v’è alcun nomo nel mondo, il di cui pensiero segua meglio del tuo la via più larga; ogni uomo infatti mi crederebbe un ipocrita. E qual’è la ragione che determinerebbe il tuo sublime pensiero a reputarmi tale?
Poins. L’aver voi amato sempre Falstaff, e l’esservi sempre mostrato così astuto.
P. Enr. Te pure amai.
Poins. Per questa luce! di me non si parla male: il peggio che se ne dica è che sono secondogenito, e che mi valgo delle mani, alle quali due cose, confesso, non poter riparare. Per la messa! s’avanza Bardolfo.
P. Enr. Col paggio che io diedi a Falstaff: io glielo diedi cristiano: mirate ora se quel pingue scellerato non me lo ha già convertito in una scimia. (entrano Bardolfo e il paggio)
Bard. Salute a Vostra Grazia!
P. Enr. E alla vostra ancora, nobilissimo Bardolfo!
Bard. Avanzatevi ciuco virtuoso, (al paggio) timido pazzo, perchè dovete voi arrossire? A che tal pudore? Qual uomo femmineo siete voi divenuto? è dunque sì gran cosa lo sturare una bottiglia di birra?
Pag. Ei mi chiamava anche dianzi, milord, dalla finestra di un’osteria, senza che io potessi discernerne il volto dal rosso delle muraglie; infine vidi i suoi occhi; e mi parve avesse fatti due buchi nella sottana della ostessa, e per quelli mi riguardasse.
P. Enr. Forse che non ha ben profittato questo garzone?
Bard. Vattene, figlio di donna impura, vattene, coniglio.
Pag. Itevene voi piuttosto, sogno d’Altea, itevene!
P. Enr. Istruiscine, garzone: che sogno è cotesto?
Pag. In verità, milord, Altea sognò d’aver partorito un tizzo ardente; perciò lo chiamai il di lei sogno.
P. Enr. La buona interpretazione merita una moneta. — Eccotela, fanciullo. (gli dà denaro)
Poins. Oh, così bel fiore sia preservato dagl’insetti! Altri sei soldi per preservartene.
Bard. Se nol fate appiccare, offendete il patibolo.
P. Enr. Come sta il tuo signore, Bardolfo?
Bard. Bene, milord. Egli udì della vostra venuta, ed eccovi una sua lettera.
Poins. Recata con molta urbanità. — Come sta il vostro peccatore padrone?
Bard. Fieno di corporea salute, signore.
Poins. In verità, la sua parte immortale abbisognerebbe di un medico, ma di ciò non si cura, e sebbene malato, non muore.
P. Enr. Permetto a quell’enorme mole di carne di esser meco familiare come il mio cane; ed ei mantiene il suo posto, perocchè guardate come mi scrive.
Poins. (legge) Giovanni Falstaff, cavaliere... Bisogna che ogni uomo sappia ciò tutte le volte che egli ha occasione di nominar se stesso. È come quelli che son parenti del re, e che non mai si pungono un dito, senza dire, ecco sangue reale sparso. Come ciò? chiede qualcuno, fingendo di non intenderli: la risposta allora è pronta come il berretto di un bisognoso: «sono un povero cugino del sovrano, signore».
P. Enr. E’ vogliono a tutta forza esserne parenti, e per provarlo rimonterebbero fino a Jafet. Ma torniamo alla lettera.
Poins. Sir Giovanni Falstaff, cavaliere, al figlio del re, più prossimo a suo padre, Enrico principe di Galles, salute. — Questo è un certificamento.
P. Enr. Taci!
Poins. Imiterò l’illustre Romano in brevità: mi raccomando a te, ti lodo e ti saluto. Non esser troppo familiare con Poins; perocchè egli abusa de’ tuoi favori tanto, da giurare che sei in procinto di accoppiarti con sua sorella. Pentiti del tempo perduto come puoi, e addio. — Tuo, sì, no (secondo mi tratterai), Giovanni Falstaff, coi miei intimi; Giovanni, coi miei fratelli e sorelle; e sir Giovanni, per tutta Europa. — Milord, vuo’ inzuppare questa lettera nel vino, e fargliene mangiare.
P. Enr. Sarà un fargli mangiare una ventina delle sue parole. Ma è egli vero che voi mi trattiate così, Ned? Debbo io sposare vostra sorella?
Poins. Vorrei che la fanciulla non avesse peggior fortuna! ma io non lo dissi mai.
P. Enr. Ecco come sperdiamo il tempo, intanto che le ombre dei savii si assidono nelle nubi e ci scherniscono. — Il vostro padrone è egli qui in Londra?
Bard. Sì, milord.
P. Enr. Dove cena? Il vecchio cinghiale continua ad alimentar sempre l’antico porco?
Bard. Cena colà, milord; in Eastcheap.
P. Enr. Con qual compagnia?
Pag. Efesiani, milord; della vecchia chiesa.
P. Enr. Vi sarà alcuna donna con lui.
Pag. Niuna, milord, tranne le due vecchie mistress Quickly e mistress Doll-Tear-Sheet.
P. Enr. Qual razza di pagana è cotesta?
Pag. Una gentildonna molto aggraziata, signore, e un po’ parente del mio padrone.
P. Enr. Parente come le giovenche della parocchia lo sono del toro della città. Andremo noi a sorprenderli, Ned, a cena?
Poins. Son la vostra ombra, milord; vi seguirò.
P.Enr. Voi garzone e voi Bardolfo, non dite al vostro padrone che io sia per anche arrivato a Londra: eccovi denaro pel vostro silenzio.
Bard. Non ho lingua, signore.
Pag. E la mia, saprò frenarla.
P. Enr. Addio, andate, (escono Bard. e il Pag.) Cotesta Doll-Tear-Sheet deve essere qualche strada pubblica.
Poins. Ve ne io fede, e così comune come quella che adduce da sant’Albano a Westminster. P. Enr. Come potrem fare per vedere Falstaff abbandonato a se stesso, ne’ suoi veri colori, senz’esserne veduti?
Poins. Mettiamoci due grembiuli di cuoio e un giubboncello di ugual stoffa e serviamo garzoni alla mensa.
P. Enr. Da Dio diventar toro? Terribile caduta! Fu la ventura di Giove. Da principe divenir mozzo? Bassa metamorfosi! e sarà, nondimeno la mia: perocchè in ogni cosa bisogna che lo scopo si bilanci colla follia! Seguimi, Ned. (escono)
SCENA III.
Warkworth. — Innanzi al Castello.
Entrano Northumberland,
Lady Northumberland e Lady Percy.
Nort. Te ne prego, amata sposa, e tu pure, mia cara figlia, lasciate libero corso alle mie risoluzioni: la malvagità dei tempi mi costringe a seguirle; non cospirate con circostanze fatali, nè vogliate essere importune e sinistre come esse.
Lady Nort. Desisto da ogni preghiera: fate quel che volete, e la prudenza vi guidi.
Nort. Oimè! tenera sposa, il mio onore è impegnato, e se non parto nulla potrà riscattarlo.
Lady P. Oh, no, in nome del Cielo, non andate a tal guerra. Fu un tempo, mio padre, in cui voi mancaste alla vostra parola, sebbene vi sembrasse allora più preziosa di adesso; fu quando il vostro figlio Percy, il mio caro Enrico, volse molte volte i suoi sguardi verso il Nord, sperando veder suo padre alla testa delle schiere che doveva guidare; ma erano fallaci le sue speranze. Qual motivo v’indusse allora a restarvene ozioso? L’onor vostro e quello di vostro figlio andarono per tal trascuranza perduti; quanto al vostro, voglia il Cielo illustrarlo colla sua gloria; ma quello di quell’amabile giovine era conlegato alla sua persona, come il sole lo è alla vòlta dei cieli. Il mio Enrico era l’astro, il di cui chiarore guidava tutti i cavalieri d’Inghilterra a fatti magnanimi. Sì, egli era lo specchio in cui l’intera gioventù nobile si effigiava: nè giovine guerriero vi era che non modellasse il proprio portamento sul suo, talchè fino al difetto che sortito aveva da natura, il balbutire di una lingua ritrosa, divenne l’accento di tutti i prodi. Coloro che sapevano parlar con facilità, snaturavano tal dono per rassomigliargli; linguaggio, contegno, modi, inclinazioni, piaceri, disciplina militare, tempra e carattere; in tutto egli era il campione, il tipo che in vista avevano i suoi compagni. Ora, quel figlio, quel raro e maraviglioso mortale, onore della specie umana, primo degli eroi, lo avete lasciato senza il soccorso di suo padre, affrontare il terribile Dio della guerra con tutti i disavvantaggi, e sostenere una battaglia in cui non erano altre forze resistenti che il suono del nome di Hotspur. Oh non mai, non fate mai alla sua ombra l’oltraggio di esser più parco e più geloso del vostro onore cogli altri che nol foste con lui! Lasciateli soli. Il maresciallo e l’arcivescovo sono abbastanza forti. Ah! se il mio caro Enrico avesse avuto soltanto la metà dei loro uomini, potrei oggi sospesa al suo collo parlare della tomba di Monmouth.
Nort. Mia figlia, tu mi costringerai ad odiarti: perocchè venendo così a deplorare antichi falli, mi togli ogni vigorìa. Cessa: convien ch’io parta e me ne vada incontro al pericolo, se non vuo’ che il pericolo venga incontro a me, e che io mi trovi meno preparato contro di lui.
Lady Nort. Oh fuggite, fuggite piuttosto verso la Scozia, fino a che la nobiltà e il popolo armato abbiano dato un primo saggio della loro potenza!
Lady P. Se ottengono il vantaggio sul re, unitevi allora con essi e siate vincolo d’acciaio che raddoppi le loro forze. Ma in nome della nostra affezione, lasciateli cominciare senza mischiarvene. Così fece vostro figlio, così permetteste ch’ei facesse, e perciò son divenuta vedova! Non avrò bastante vita per annaffiare di lagrime la pianta di rosmarino1, che vorrei veder crescere fino al Cielo, per recar ivi la memoria del mio nobile sposo.
Nort. Venite, venite, rientrate con me. La mia anima è nello stato dell’oceano, che venuto alla sua massima altezza fa pausa e rimane sospeso, senza straripare nè da un lato, nè dall’altro. Sarei ben lieto di raggiungere l’arcivescovo; ma mille cagioni mi trattengono. Mi risolverò ad andare in Iscozia, per restarvi fino a che le circostanze e le occasioni esigano la mia presenza e il mio soccorso. (escono)
SCENA IV.
Londra. — Una stanza nella taverna della Testa del Cinghiale in Eastcheap.
Entrano due Garzoni.
1° Gar. Vedi se sai scoprire dove Sneake si nasconde; perocchè mistress Doll-Tear-Sheet udrebbe volentieri un po’ di musica. Spicciati: fa un gran caldo nella camera in cui cenano, e fra poco passeranno in questa.
2° Gar. Ribaldo, sai tu che il principe verrà qui fra poco con mister Poins, e ch’essi indosseranno i nostri abiti, senza che ciò venga a notizia di sir Giovanni? Bardolfo venne a dircelo.
1° Gar. Oh vi sarà una gran festa! per la messa! sarà un bel stratagemma.
2° Gar. Vo in traccia di Sneake. (esce; entrano l’Ostessa e Doll-Tear-Sheet)
Ost. In fede, dolce cuore, parmi ora che siate in un’eccellente temperatura. I vostri polsi battono così straordinariamente quanto il cuore potrebbe desiderarlo, e il vostro colore è purpureo come quello di una rosa. Ma, sull’anima mia, avete bevuto troppa Canarie; ed è un vino assai penetrante e che profuma il sangue prima che si possa dire: Che è ciò? — Come state ora?
Doll. Molto meglio di prima. Hem!
Ost. Ben detto: un buon cuore val tant’oro di coppella. Mirate, s’avanza sir Giovanni. (entra Falstaff cantando)
Fal. Quando Arturo apparve in corte... era allora un degno re. Come va, mistress Doll?
Ost. Inferma per troppa salute: sì, in verità.
Fal. Così è tutto il suo sesso; il ben essere le uccide.
Doll. È questo, malandrino, l’augurio che mi fate?
Ost. Pel Cielo, sempre così; non potete stare insieme senza contendere. Siete entrambi dispettosi come due fiaschi vuoti.
Doll. Ebbene, saremo amici, Giovanni: tu vai alla guerra, e se io ti rivedrò o no, è cosa di cui niuno si cura.
(entra un garzone)
Gar. Signore, l’alfiere Pistoll chiede di parlarvi.
Doll. Il diavolo lo porti! Fate che non venga qui: è la lingua più maledica che sia in Inghilterra.
Ost. Se è maledico, non deve entrare: no, in fede mia; convien ch’io viva in pace co’ miei vicini, e non vuo’ maldicenti: io sono in buona fama con quanto v’ha di meglio. Chiudete la porta: non vogliamo maldicenti: non son vissuta fin qui per aver ora lingue malediche; chiudete la porta, ve ne prego.
Fal. Odi tu, ostessa?
Ost. Pregovi, calmatevi, sir Giovanni; qui non verranno maldicenti.
Fal. Odi tu? è il mio alfiere.
Ost. Non me lo dite, sir Giovanni; il vostro alfiere non metterà piede in questo luogo. Era l’altro giorno da mister Tisick, il deputato, e così mi favellò: non è più tardi che lo scorso mercoledì... Vicina Quickly, egli disse; ricevete quelli che sono civili; perocchè, soggiunse, voi godete un cattivo nome; e diceva ciò, so bene, per qual motivo; perchè, egli dichiarò, voi siete una onesta donna molto stimata; badate quindi a chi ricevete in casa vostra; nè ricevete cattive lingue. — Qui non ne viene alcuna; incantato sareste rimasto da quello che egli disse: ne, io non vuo’ maldicenti.
Fal. Questi non è tale, ostessa; è umile, lo potete batter come un cane: non saprebbe rivoltarsi a una gallina, ove le di lei penne si arruffassero. — Fatelo venire, garzone.
Ost. È umile? Non chiuderò le mie porte a un uomo onesto; ma non voglio gente trista; in verità divengo cattiva, allorchè mi si parla di maldicenti: sentite, signori, come io tremo, solo ad accennarne.
Doll. È vero, ostessa.
Ost. L’ho detto io? Sì, in verità, tremo come una foglia tremula: non posso tollerar le lingue malvagie.
(entrano Pistoll, Bardolfo e il Paggio)
Pist. Il Ciel vi salvi, sir Giovanni!
Fal. Ben giunto, alfiere Pistoll. Qui, Pistoll, vi affido una tazza: fate ragione alla mia ostessa.
Pist. Volentieri, sir Giovanni.
Fal. Ma ella è a prova dei pari vostri, e non potreste offenderla.
Ost. Non son a prova d’alcuno: non vuo’ ber più di quello che m’abbisogna per far piacere agli altri.
Pist. Allora a voi, mistress Dorotea: investirò voi.
Doll. Investirmi? Io vi disprezzo, laido mariuolo. Via, pezzente di fango! Via, cencioso lurido! Io sono vivanda degna del vostro padrone.
Pist. Vi conosco a meraviglia, mistress Dorotea.
Doll. Via, tagliaborse infame! Via, sucido marrano! Pel Cielo! io v’immergerò questo coltello nel petto, se la volete fare da ribaldo con me. Via, mangiator d’aglio! Via, avanzo di forca! Da quanto in qua, ve ne prego, signore, siete voi alfiere?
Pist. In fede mia, convien ch’io mi vendichi di tante ingiurie.
Fal. Basta, Pistoll; non vorrei prorompeste a male creanze: allontanatevi da noi, Pistoll.
Ost. No, buon capitano Pistoll: no, buon capitano.
Doll. Capitano! Abbominevole ribaldo, non arrossisci d’esser chiamato capitano! Se i capitani pensassero come me, baderebbero assai, perchè persone della tua specie non disonorassero il loro grado. Tu capitano! Perchè? Pei mille farti commessi? Capitano egli? Appiccatelo! Ei vive di rapine e di lenocinii. Capitano! Codesti scellerati renderanno tal parola più odiosa che non lo è quella del demonio. Perciò, o capitani, attendete a codesto.
Bard. Pregoti, esci, buon alfiere.
Fal. Odi tu, mistress Doll?
Pist. Non io: vuo’ vendetta di lei.
Pagg. Pregoti, vattene.
Pist. Vuo’ vederla prima dannata: prima vuo’ vederla all’irremeabile lago di Pluto, all’infernal riviera, con Erebo e i suoi strazii. Afferratela, dico io, afferratela, cani! Struggetela! Non è questa la nostra Irene?
Ost. Buon capitano, calmatevi; è molto tardi, in verità: e vi chieggo di non aggravare la vostra collera.
Pist. Piacevole umore affè! Le rozze dell’Asia, che non sanno far trenta miglia al giorno, dovrannosi paragonar coi cavalli di Cesare? I Troiani coi Greci? No, piuttosto vadan tutti dannati col re Cerbero, e mugghi a sua posta il cielo.
Ost. In verità, capitano, sono parole amare queste che proferite.
Bard. Itevene, buon alfiere: ciò susciterà contese.
Pist. Morite, uomini come cani; date corone come spille; non abbiam noi qui Irene?
Ost. Sull’onor mio, capitano, non v’è qui alcuna di tal nome. Che! Credereste voi ch’io volessi negarlo se vi fosse?
Pist. Dunque mangiate, e impinguate, mia bella Calipoli: venite, versatemi da bere. Se fortuna me tormenta, sperate me contenta. Forse che noi temiamo? No, faccia fuoco il demonio: datemi da bere; e tu, amor mio, riposati costì (deponendo la spada). Qual razza d’incontro avemmo noi?
Fal. Pistoll, vorrei starmi quieto.
Pist. Dolce cavaliere, lascia ch’io ti baci il costato. Che, noi abbiamo vedute le sette stelle?
Doll. Cacciatelo giù dalle scale; non posso tollerare tal pezzente malandrino.
Pist. Gettatelo giù dalle scale! Forse che sono a noi ignoti i sicarii?
Fal. Gettatelo giù, Bardotto, come un ubriaco; se non fa altro che parlar di cose da nulla, nulla divenga.
Bard. Venite, discendete.
Pist. Come! dunque dovrà esser versamento di sangue (afferrando la spada) Ebbene, ciò essendo, la morte mi faccia addormentare, e abbrevia i dolorosi miei dì. Crudeli, profonde e larghe ferite sciolgono i nodi delle tre sorelle infernali! Vieni, Atropo, io ti dico!
Ost. Ecco buoni negozii sul tappeto!
Fal. Dammi la mia daga, garzone.
Doll. Pregoti, Giovanni, pregoti non sguainarla.
Fal. Discendete dalle scale. (cacciando Pistoll)
Ost. Mirate il bel tumulto! Rinunzierei piuttosto a condurre una casa, che a vedermi così esposta a tanti terrori. Oh! vi sarà strage, ne son sicura. Oimè me! Riponete le vostre armi ignude, riponetele. (escono Pistoll e Bardolfo)
Doll. Pregoti, Giovanni, sta sereno; il mariuolo è ito. Voi siete, in verità, uno schermitore valente.
Ost. Non rimaneste già ferito? parmi vi desse un colpo.
(rientra Bardolfo)
Fal. Lo cacciaste fuori delle porte?
Bard. Sì, signore. Il malandrino era ubriaco e voi lo feriste in una spalla.
Fal. Un ribaldo insultarmi!
Doll. Ah vezzoso mariuolo, povera scimia, come sei tutta sudata! Lascia ch’io ti terga il volto; lascia ch’io lo faccia, figlio di donna indecente. Ah, mariuolo, io ti amo. Tu sei valoroso, come Ettore da Troia; di maggior prezzo, che cinque Agamennoni, e dieci volte migliore, che nove dei più degni. Oh scellerato!
Fal. Infame schiavo! Vuo’ farlo saltar sulle lenzuola.
Doll. Fallo, se osi: se lo fai, ti porrò fra un paio di esse.
(entrano i musici)
Pagg. La musica è venuta, signori.
Fal. Lasciate che suonino; suonate, signori. Siedi sulle mie ginocchia, Doll. Vile era il millantatore che fuggì da me colla celerità dell’argento vivo.
Doll. È vero, e tu lo seguisti come un precursore. Ah! mio bel campanile, quand’è che cesserai di batterti il giorno, e di schermire la notte, e disporrai il tuo vecchio corpo per la partita dell’altro mondo? (compariscono indietro il principe Enrico e Poins travestiti da garzoni)
Fal. Taci, amabile Doll! Non parlarmi come un teschio di morte: non dirmi di rammentare il mio fine.
Doll. Dimmi, caro, qual è l’umore del principe?
Fal. Un buon garzone che sarebbe divenuto un ottimo panattiere, e avrebbe cotto a meraviglia le focaccie.
Doll. E dicono che Poins abbia molto spirito.
Fal. Spirito? Sia appiccato il gaglioffo! Il suo spirito è denso, come la salsa di Tewksbury; non sono in lui più bei pensieri, che non ne siano in un giumento.
Doll. E perchè il principe lo ama tanto?
Fal. Perchè le loro gambe son grosse del pari, ed egli giuoca bene a dadi, e mangia l’anguilla col finocchio, e beve il sego stemperato nella birra, e va a cavallo sopra un bastone come i fanciulletti, e salta a piè pari una sedia, e giura con buona grazia, e porta gli stivali stretti come sopra una gamba di legno, e non ciancia sui fatti altrui, e possiede infine alcune altre facoltà da scimia, che mostrano una mente debole e un corpo esperto. Per tali cose il principe lo ha caro: avvegnachè il principe stesso sia simile a lui, e il peso di un capello basti a far traboccare la bilancia dall’uno o l’altro lato di loro.
P. Enr. Non meriterebbe colui che gli si tagliassero le orecchie?
Poins. Bastoniamolo dinanzi alla sua bella.
P. Enr. Guarda, se non ha il cranio pelato come un papagallo.
Poins. È strano che il desiderio sopravviva tanti anni alla facoltà di peccare!
Fal. Abbracciami, amata Doll.
P. Enr. Saturno e Venere si congiungono quest’anno? Che dice l’almanacco di ciò?
Poins. E mirate ancora il suo infuocato Trigono, il suo servitore che insudicia le vecchie mense del suo padrone, susurrando parole all’antica ostessa.
Fal. Tu mi dai baci ben lusinghieri.
Doll. No, in verità; ti bacio con cuor schietto.
Fal. Io sono vecchio, son vecchio.
Doll. Ti amo mille volte di più che non ami tutti quei giovani scapigliati che vedi là.
Fal. Di quale stoffa vuoi tu farti una veste? Debbo ricever denaro giovedì; dimani avrai una cuffia vezzosa. Canta giovial canzone: vien tardi, e andremo a letto. Tu mi dimenticherai allorchè sarò partito.
Doll. In verità, mi faresti piangere dicendo così; non mai mi abbiglierò prima che tu ritorni. Ora odi il fine.
Fal. Vino, vino, Francis.
P. Enr. e Poins. (avanzandosi) Subito, subito, signore.
Fal. Ah! questi è un bastardo del re! E non sei tu Poins suo fratello?
P. Enr. Oh globo di peccaminose incontinenze, qual modo di vita conduci tu?
Fal. Vita migliore della tua; io sono un gentiluomo, e tu un garzone d’osteria.
P. Enr. È vero, signore; ed io venni per tirarvi fuori per le orecchie.
Ost. Ah Iddio preservi Vostra Grazia! Siate il ben venuto da Londra. Il Cielo benedica il vostro amabile volto! Oh Gesù! abbandonaste Galles?
Fal. Tu figlio pazzo di una donna impura, in cui è qualche lampo di maestà per questa fragile carne e corrotto sangue (toccando Doll.), tu sei il ben giunto.
Doll. Che dite! Vecchio insensato, io vi disprezzo.
Poins. Milord, ei vi distorrà dal vostro proposito di vendetta, e volgerà tutto in celia, se non profittate di questo momento di ardore.
P. Enr. Lurida miniera di sego, come parlasti tu dianzi di me alla presenza di questa onesta, virtuosa e civil gentildonna?
Ost. Benedizione sul vostro buon cuore! Così ella è infatti.
Fal. Mi ascoltavi tu?
P. Enr. Sì; e voi mi avete conosciuto come quando correste dietro al colle di Gad; voi ben sapevate ch’io vi era alle spalle, e forse parlaste così per esperimentare la mia pazienza?
Fal. No, no, no; non così, non credevo che tu m’ascoltassi.
P. Enr. Vi costringerò dunque a confessare l’insulto che mi avete fatto, e allora so come ripararvi.
Fal. Non fu insulto, Enrico, sull’onor mio, non fu insulto.
P. Enr. No? Così dispregiandomi, e chiamandomi panattiere e che so altro?
Fal. Non fu insulto, Enrico.
Poins. Non fu insulto!
Fal. Non fu insulto, Ned, per tutto il mondo, onesto Ned, non fu insulto. Io l’ho vilipeso dinanzi ai malvagi, onde i malvagi non imparassero ad amarlo: il che facendo, ho compite le parti di buon amico, di fedel suddito; e di ciò tuo padre mi saprà grado. Non fu insulto, Enrico; Ned, non fu insulto; miei amici, non fa insulto.
P. Enr. Vedi, villano, se la viltà non ti fa insultare mai a proposito questa virtuosa gentildonna, onde deluderci? È ella ancor forse malvagia? Lo è l’ostessa tua? forse il tuo paggio? O l’onesto Bardotto, il di cui zelo gli avvampa nel naso?
Poins. Rispondi, pazza bestia, rispondi.
Fal. Il demonio ha già dichiarato Bardolfo sua preda; e suo volto è la cucina segreta di Lucifero, in cui si arrostiscono soltanto vermi. Quanto al paggio, vi è un buon angelo al suo fianco, ma il diavolo è più forte di lui.
P. Enr. Per le donne.....
Fal. L’una di esse è di già in inferno, e vi arde, la povera anima! All’altra io debbo denaro, e se sia dannata per ciò lo ignoro.
Ost. No, ve ne assicuro.
Fal. No, io pur nol credo; credo che per ciò non ne avrai scapito. Ma v’è un’altro peccato in te: quello di soffrire che si mangi carne in tua casa contro alle leggi: pel che io penso che dovrai miagolare.
Ost. Tutti gli ostieri fanno altrettanto. Che cos’è un pezzo o due di montone in tutta una quaresima?
P. Enr. Voi, gentildonna.....
Doll. Che dice Vostra Grazia?
Fal. Sua Grazia dice che la carne gli è ribelle.
Ost. Chi batte così forte? Andate a vedere, Francis.
(entra Pito)
P. Enr. Pito! Quali notizie?
Pit. Il re vostro padre è a Westminster; e vi sono venti corrieri anelanti, venuti dal nord. Lungo la via ho incontrato una dozzina almeno di capitani che, trafelati e a capo scoperto, battevano a tutte le osterie, facendovi ricerca del cavaliere Falstaff.
P. Enr. Pel Cielo, Poins, io merito molto biasimo, gettandosi oziosamente un tempo prezioso, intantochè la tempesta della rivolta, come vento del sud, accompagnato da neri vapori, comincia ad infierire sui nostri nudi capi. Datemi la mia spada e il mio mantello: buona notte, Falstaff.
(esce con Poins, Pito e Bard.)
Fal. Ora viene il più dolce boccone della cena, e bisogna partir senza averlo assaggiato. (si ode battere al di fuori) Giungono altre persone? (rientra Bardolfo) Ebbene? Chi è adesso?
Bard. Convien che andiate tosto alla Corte, signore: molti capitani son giù che vi aspettano.
Fal. Paga i musici, garzone. (al paggio) Addio, ostessa; Addio Doll. — Voi vedete, mie buone fanciulle, come gli uomini di merito sono ricercati: l’infingardo può dormire intantochè l’uomo operoso è richiesto. Addio, fanciulle; se non son costretto a partir per le poste, vi rivedrò prima di andarmene.
Doll. Non posso parlare..... il mio cuore sta per fendersi..... amabile Giovanni, abbi cura di te.
Fal. Addio, addio. (esce con Bard.)
Ost. Ebbene, addio: io ti ho conosciuto in questi ultimi ventinove anni e ti ho trovato sempre un uomo onesto e sincero..... addio, addio.
Bard. (dal di dentro) Mistress Tear-Sheet.....
Ost. Ebbene?
Bard. (dal di dentro) Dite a Mistress Tear-Sheet di venir dal mio padrone.
Ost. Ah corri, Doll, corri; corri, buona Doll. (escono)
Note
- ↑ Simbolo di ricordanza.