Atto III

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Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Milord Bonfil, madama Jevre e Isacco.

Isacco colla spada e bastone di Milord, cui ripone sul tavolino.

Bonfil. Come! Il cavaliere Ernold ha maltrattata Pamela?

Jevre. Ha perduto il rispetto a lei, l’ha perduto a me, e l’ha perduto alla vostra casa.

Bonfil. Temerario!

Jevre. Signore, come vi sentite?

Bonfil. Dov’è Pamela?

Jevre. Ella sarà nella mia camera.

Bonfil. Lo sa, che io son ritornato in città?

Jevre. Lo sa ed ha preso il vostro ritorno per una provvidenza del cielo. [p. 78 modifica]

Bonfil. Per qual ragione?

Jevre. Perchè si è liberata dalle persecuzioni del Cavaliere.

Bonfil. Ah cavaliere indegno! Morirà, giuro al cielo, sì, morirà.

Isacco. Signore.

Bonfil. Che vuoi?

Isacco. Il cavaliere Ernold vorrebbe riverirvi.

Bonfil. (Corre furioso a prendere la spada, e denudandola, corre verso la porta. Jevre ed Isacco intimoriti fuggono, e Milord va per uscire di camera).

SCENA II.

Milord Artur e detto.

Artur. Dove, Milord, colla spada alla mano?

Bonfil. A trafiggere un temerario.

Artur. E chi è questi?

Bonfil. Il cavaliere Ernold.

Artur. Che cosa vi ha egli fatto?

Bonfil. Lo saprete, quando l’avrò ucciso.

Artur1. Riflettete qual delitto sia in Londra il metter mano alla spada.

Bonfil. Non mi trattenete.

Artur. In vostra casa ucciderete un nemico?

Bonfil. Egli alla mia casa ha perduto il rispetto.

Artur. Voi non potete giudicar dell’offesa.

Bonfil. Perchè?

Artur. Perchè vi accieca lo sdegno.

Bonfil. Eh, lasciatemi castigar quell’audace.

Artur. Non lo permetterò certamente.

Bonfil. Come! Voi in difesa del mio nemico?

Artur. Difendo il vostro decoro.

Bonfil. Giuro al cielo, colui ha da morire per le mie mani.

Artur. Ma poss’io sapere che cosa vi ha fatto? [p. 79 modifica]

Bonfil. In casa mia ha strapazzata madama Jevre; ha fatte delle impertinenze a Pamela; ha perduto il rispetto a me, che sono il loro padrone.

Artur. Milord, un momento di quiete. Trattenete per un solo momento lo sdegno. Il Cavaliere vi ha offeso; avete ragione di vendicarvi. Ma prima ditemi, da cavaliere, da uomo d’onore, da vero leale Inglese, ditemi se in questo vostro furore vi ha alcuna parte la gelosia.

Bonfil. Non ho luogo a discernere quale delle mie passioni mi spinga. Vi dico solo che il perfido ha da morire.

Artur. Non vi riuscirà di farlo, prima che non abbiate calmata la vostra ira.

Bonfil. Chi può vietarlo?

Artur. Io.

Bonfil. Voi?

Artur. Sì, io che son vostro amico; io, che avendo il cuore non occupato, so distinguere il valor dell’offesa.

Bonfil. La temerità di colui non merita di esser punita?

Artur. Sì, lo merita.

Bonfil. A chi tocca vendicare i miei torti?

Artur. Tocca a milord Bonfìl.

Bonfil. Ed io chi sono?

Artur. Voi siete in questo punto un amante, che freme di gelosia. Non avete a confondere l’amor di Pamela coll’onor della vostra casa.

Bonfil. L’onore e l’amore, tutto mi sprona, tutto mi sollecita. Quel perfido ha da morire2.

Artur. Ah Milord, acquietatevi.

Bonfil. Son fuor di me stesso. [p. 80 modifica]

SCENA III.

Madama Jevre e detti.

Jevre. Signore.

Bonfil. Dov’è il Cavaliere?

Jevre. Sa che siete sdegnato, ed è partito.

Bonfil. Lo raggiungerò. (in atto di voler partire)

Jevre. Signore, sentite.

Bonfil. Che ho da sentire?

Jevre. È arrivato in questo punto il padre di Pamela.

Bonfil. Il padre di Pamela? Che vuole?

Jevre. Vuole condur seco sua figlia.

Bonfil. Dove?

Jevre. Al di lui paese.3

Bonfil. Ha da parlare con me.

Jevre. Voi non l’avete accordato?

Bonfil. Dove trovasi questo vecchio?

Jevre. In una camera con sua figlia.

Bonfil. Or ora mi sentirà. (parte)

Artur. Ecco come una passione cede il luogo ad un’altra. L’amore ha superato lo sdegno.

Jevre. Signore, che cosa ha da essere di questo mio povero padrone?

Artur. Egli è in uno stato che merita compassione.

Jevre. Com’è accaduto il suo svenimento? Dalla sua bocca non ho potuto ricavare un accento.

Artur. Egli non faceva che sospirare, e appena usciti di Londra, mi cadde fra le braccia svenuto.

Jevre. Avete fatto bene a tornare indietro.

Artur. Lo soccorsi con qualche spirito, ma solo alla vista di questa casa riprese fiato.

Jevre. Qui, qui vi è la medicina per il suo male.

Artur. Ama egli Pamela? [p. 81 modifica]

Jevre. Poverino! L’adora.

Artur. Pamela è savia?

Jevre. È onestissima.

Artur. È necessario che da lui si divida.

Jevre. Ma non potrebbe...

Artur. Che cosa?

Jevre. Sposarla?

Artur. Madama Jevre, questi sentimenti non sono degni di voi. Se amate il vostro padrone, non fate si poco conto dell’onor suo.

Jevre. Ma ha da morir dal dolore?

Artur. Sì, piuttosto morire, che sagrificare il proprio decoro. (parte)

Jevre. Che si abbia a morire per salvar l’onore, l’intendo; ma che sia disonore sposare una povera ragazza onesta, non la capisco. Io ho sentito dir tante volte che il mondo sarebbe più bello, se non l’avessero guastato gli uomini, i quali per cagione della superbia, hanno sconcertato il bellissimo ordine della natura. Questa madre comune ci considera tutti eguali, e l’alterigia dei grandi non si degna dei piccoli. Ma verrà un giorno, che dei piccoli e dei grandi si farà nuovamente tutta una pasta. (parte)

SCENA IV.

Pamela e Andreuve suo padre.

Pamela. Oh caro padre, quanta consolazione voi mi recate!

Andreuve. Ah Pamela, sento ringiovenirmi nel rivederti.

Pamela. Che fa la mia cara madre?

Andreuve. Soffre con ammirabil costanza i disagi della povertà e quelli della vecchiezza.

Pamela. È ella assai vecchia?

Andreuve. Guardami. Son io vecchio? Siamo d’età conformi, se non che prevale in me un non so che di virile, che manca in lei. Io ho fatto venti miglia in due giorni, ella non li farebbe in un mese. [p. 82 modifica]

Pamela. Oh Dio! Siete venuto a piedi?

Andreuve. E come poteva io venire altrimenti? Calessi lassù non si usano: montar a cavallo non posso più. Son venuto a bell’agio, e certo il desio di rivederti m’ha fatto fare prodigi.

Pamela. Ma voi sarete assai stanco; andate per pietà a riposare.

Andreuve. No, figlia, non sono stanco. Ho riposato due ore, prima d’entrare in Londra.

Pamela. Perchè differirmi due ore il piacer d’abbracciarvi?

Andreuve. Per reggere con più lena alla forza di quella gioia, cui prevedeva dover provare nel rivederti.

Pamela. Quanti anni sono, che vivo da voi lontana?

Andreuve. Ingrata! Tu me lo chiedi? Segno che poca pena ti è costata la lontananza de’ tuoi genitori. Sono dieci anni, due mesi, dieci giorni e tre ore dal fatal punto che da noi ti partisti. Se far tu sapessi il conto, quanti sono i minuti che compongono un sì gran tempo, sapresti allora quanti sieno stati gli spasimi di questo cuore per la tua lontananza.

Pamela. Deh, caro padre, permettetemi ch’io vi dica non aver io desiderato lasciarvi; non aver io ambito di cambiare la selva in una gran città; e che carissimo mi saria stato il vivere accanto a voi, col dolce impiego di soccorrere ai bisogni della vostra vecchiezza.

Andreuve. Sì, egli è vero. Io sono stato, che non soffrendo vederti a parte delle nostre miserie, ti ho procurata una miglior fortuna.

Pamela. Se il cielo mi ha fatta nascer povera, io poteva in pace soffrire la povertà.

Andreuve. Ah figlia, figlia, tutto a te non è noto. Quando da noi partisti, non eri ancor in età da confidarti un arcano.

Pamela. Oh cieli! Non sono io vostra figlia?

Andreuve. Sì, lo sei, per grazia del cielo.

Pamela. Vi sembra ora ch’io sia in età di essere a parte di di sì grande arcano?

Andreuve. La tua età, la tua saviezza, di cui sono a mia consolazione informato, esigono ch’io te lo sveli. [p. 83 modifica]

Pamela. Deh, fatelo subitamente4; fatelo per pietà; non mi tenete più in pena.

Andreuve. Ah, ah Pamela! Tu sei una virtuosa fanciulla, ma circa la curiosità, sei donna come le altre.

Pamela. Perdonatemi; non ve lo chiedo mai più.

Andreuve. Povera figlia! Sei pur buona! Sì, cara, te lo dirò. Quante volte mi ha stimolato a farlo il mio rimorso, e la tua cara madre! Ma ogni giorno la povera vecchierella, il famiglio, la mandra, il gregge avean bisogno di me. Ora ch’è morta la tua padrona; che qui non devi restare con un padrone, che non ha moglie; che deggio ricondurti al mio rustico albergo, voglio prima di farlo, svelarti chi son io, chi tu sei: acciò nella vita misera ch’io ti propongo di eleggere per sicurezza della tua onestà, abbia merito ancora la tua virtù.

Pamela. Oimè! Voi mi preparate l’animo a cose strane.

Andreuve. Sì, strane cose udirai, la mia adorata Pamela.

SCENA V.

Milord Bondfil e detti.

Pamela. Ecco il padrone.

Andreuve. Signore....

Bonfil. Siete voi il genitor di Pamela?

Andreuve. Sì, signore, sono il vostro servo Andreuve.

Bonfil. Siete venuto per rivedere la figlia?

Andreuve. Per rivederla pria di morire.

Bonfil. Per rivederla, e non altro?

Andreuve. E meco ricondurla a consolar sua madre.

Bonfil. Questo non si può fare senza di me.

Andreuve. Appunto per questo io sospirava l’onore d’essere a vostri piedi.

Bonfil. Qual ragione vi spinge a volervi ripigliare la figlia?

Andreuve. Siamo assai vecchi; abbiamo necessità del suo aiuto. [p. 84 modifica]

Bonfil. Pamela, ritirati.

Pamela. Obbedisco. (Io parto, e questi due che restano, hanno il mio cuore metà per uno). (da sè, parte)

SCENA VI.

Milord Bonfil, Andreuve, poi Isacco.

Bonfil. Ehi. (chiama Isacco, il quale subito comparisce) Da sedere. (Isacco porta una sedia) Un altra sedia, (ne porta un’altra, poi parte) Voi siete assai vecchio; sarete stanco. Sedete.

Andreuve. Il cielo vi rimuneri della vostra pietà. (siedono)

Bonfil. Siete voi un uomo sincero?

Andreuve. Perchè son sincero, son povero.

Bonfil. Ditemi, qual è la vera ragione, che vi sprona a domandarmi Pamela?

Andreuve. Signore, ve lo dirò francamente. Il zelo della di lei onestà.

Bonfil. Non è ella sicura nelle mie mani?

Andreuve. Tutto il mondo non sarà persuaso della vostra virtù.

Bonfil. Che pretendete ch’ella abbia a fare presso di voi?

Andreuve. Assistere alla vecchierella sua madre. Preparare il cibo alla piccola famigliuola, tessere, lavorare, e vivere in pace, e consolarci negli ultimi periodi di nostra vita.

Bonfil. Sventurata Pamela! Avrà ella imparato tante belle virtù per tutte nell’obblio seppellirle? per confinarsi in un bosco?

Andreuve. Signore, la vera virtù si contenta di sè medesima.

Bonfil. Pamela non è nata per tessere, non è nata per il vile esercizio della cucina.

Andreuve. Tutti quegli esercizi, che non offendono l’onestà, sono adattabili alle persone onorate.

Bonfil. Ella ha una mano di neve.

Andreuve. Il fumo della città può renderla nera più del sol di campagna.

Bonfil. È debole, è delicata.

Andreuve. Coi cibi innocenti farà miglior digestione. [p. 85 modifica]

Bonfil. Buon vecchio, venite voi colla vostra moglie ad abitare in città.

Andreuve. L’entrate mie non mi basterebbero per quattro giorni.

Bonfil. Avrete il vostro bisogno.

Andreuve. Con qual merito?

Bonfil. Con quello di vostra figlia.

Andreuve. Tristo quel padre, che vive sul merito della figlia.

Bonfil. Mia madre mi ha raccomandata Pamela.

Andreuve. Era una dama piena di carità.

Bonfil. Io non la deggio abbandonare.

Andreuve. Siete un cavalier generoso.

Bonfil. Dunque resterà meco.

Andreuve. Signore, potete dare a me quello che avete intenzione di dare a lei.

Bonfil. Sì, lo farò. Ma voi me la volete fare sparire dagli occhi.

Andreuve. Perchè farla sparire? Io intendo condurla meco con tutta la possibile convenienza.

Bonfil. Trattenetevi qualche giorno.

Andreuve. La mia vecchierella mi aspetta.

Bonfil. Andrete, quando ve lo dirò.

Andreuve. Son due giorni, ch’io manco; se due ne impiego al ritorno, sarà anche troppo per me.

Bonfil. Io non merito che mi trattiate sì male.

Andreuve. Signore...

Bonfil. Non replicate. Partirete quando vorrò.

Andreuve. Questi peli canuti possono da voi ottenere la grazia di potervi liberamente parlare?

Bonfil. Sì, io amo la sincerità.

Andreuve. Ah Milord! Temo sia vero quello che per la via mi fu detto, e che il mio cuore anche di lontano mi presagiva.

Bonfil. Spiegatevi.

Andreuve. Che voi siate invaghito della mia povera figlia.

Bonfil. Pamela ha negli occhi due stelle.

Andreuve. Se queste stelle minacciano tristi influssi alla di lei onestà, sono pronto a strappargliele colle mie mani. [p. 86 modifica]

Bonfil. Ella è una virtuosa fanciulla.

Andreuve. Se così è, voi non potrete lusingarvi di nulla.

Bonfil. Son certo che morirebbe, pria di macchiare la sua innocenza.

Andreuve. Cara Pamela! Unica consolazione di questo misero antico padre! Deh, signore, levatevi dagli occhi un pericolo; ponete in sicuro la di lei onestà; datemi la mia figlia, come l’ebbe da noi la vostra defunta madre.

Bonfil. Ah! troppo ingrata è la sorte col merito di Pamela.

Andreuve. S’ella merita qualche cosa, il cielo non la lascerà in abbandono.

Bonfil. Quanto cambierei volentieri questo gran palazzo con una delle vostre capanne!

Andreuve. Per qual ragione?

Bonfil. Unicamente per isposare Pamela.

Andreuve. Siete innamorato a tal segno?

Bonfil. Sì, non posso vivere senza di lei.

Andreuve. Il cielo mi ha mandato in tempo per riparare ai disordini della vostra passione.

Bonfil. Ma se non mi lice sposar Pamela, giuro al cielo, altra donna non prenderò.

Andreuve. Lascerete estinguer la vostra casa?

Bonfil. Sì, per accrescere a mio dispetto il trionfo degl’indiscreti congiunti.

Andreuve. E se fosse nobile Pamela, non esitereste a sposarla?

Bonfil. Lo farei prima della notte vicina.

Andreuve. Eh Milord, ve ne pentireste. Una povera, ancorchè fosse nobile, non la riputereste degna di voi.

Bonfil. La mia famiglia non ha bisogno di dote.

Andreuve. Siete ricco, ma chi più ha, più desidera.

Bonfil. Voi non mi conoscete.

Andreuve. Dunque la povertà in Pamela non vi dispiace?

Bonfil. Anzi le accresce il merito dell’umiltà.

Andreuve. (Cielo, che mi consigli di fare?) (da sè)

Bonfil. Che dite fra di voi? [p. 87 modifica]

Andreuve. Per carità, lasciatemi pensare un momento.

Bonfil. Sì, pensate.

Andreuve. (Se la sovrana pietà del cielo offre a Pamela una gran fortuna, sarò io così barbaro per impedirla?) (da sè)

Bonfil. (Combatte in lui la pietà, come in me combatte l’amore). (da sè)

Andreuve. (Orsù, si parli, e sia di me e sia di Pamela ciò che destinano i numi). (da sè) Signore, eccomi a’ vostri piedi. (si alza da sedere, e con istento s’inginocchia)

Bonfil. Che fate voi?

Andreuve. Mi prostro per domandarvi soccorso.

Bonfil. Sedete.

Andreuve. Vorrei svelarvi un arcano, ma può costarmi la vita. (si alza, e torna a sedere)

Bonfil. Fidatevi della mia parola.

Andreuve. A voi mi abbandono, a voi mi affido. Andreuve non è il nome della mia casa. Io sono un ribelle della corona Britanna, sono il conte Auspingh, non ultimo fra le famiglie di Scozia.

Bonfil. Come! Voi il conte Auspingh?

Andreuve. Sì, Milord, trent’anni or sono che nell’ultime rivoluzioni d’Inghilterra sono stato uno de’ primi sollevatori del regno. Altri de’ miei compagni furono presi e decapitati; altri fuggirono in paesi stranieri. Io mi rifugiai nelle più deserte montagne, ove con quell’oro che potei portar meco, vissi sconosciuto e sicuro. Sedati dopo dieci anni i tumulti, cessate le persecuzioni, calai dall’altezza de’ monti e scesi al colle men aspro e men disastroso, ove cogli avanzi di alcune poche monete comprai un pezzo di terra, da cui coll’aiuto delle mie braccia il vitto per la mia famiglia raccolgo. Mandai sino in Iscozia ad offerire alla mia cara moglie la metà del mio pane, ed ella ha preferito un marito povero a’ suoi doviziosi parenti, ed è venuta a farmi sembrare assai bella la pace del mio ritiro. Ella dopo due anni diede alla luce una figlia, e questa è la mia adorata Pamela. Miledi vostra madre, che villeggiava sovente [p. 88 modifica] co’ suoi congiunti poco lungi da noi, me la chiese in età di dieci anni. Figuratevi con qual ripugnanza mi lasciai staccare dal seno l’unica cosa che di prezioso abbia al mondo; ma il rimorso di dover allevare una figlia nobile villanamente nel bosco, m’indusse a farlo; ed ora lo stesso amore che ho per essa, e le belle speranze suggeritemi dalla vostra pietà, m’obbligano a svelare un arcano sinora con tanta gelosia custodito, e che se penetrato fosse anche in oggi dal partito del Re, non mi costerebbe nulla men della vita. Un unico amico io aveva in Londra, il quale tre mesi sono morì. Ora in voi unicamente confido; in voi. Milord, che siete cavaliere, e che spero avrete quella pietà per il padre, che mostrate aver per la figlia.

Bonfil. Ehi. (chiama e viene Isacco) Di a Pamela, che venga subito. Va poscia da miledi Daure, e dille che, se può, mi favorisca di venir qui. (Isacco parte)

Andeuve. Signore, voi non mi dite nulla?

Bonfil. Vi risponderò brevemente. Il vostro ragionamento mi ha consolato. Prendo l’impegno di rimettervi in grazia del Re; e la vostra Pamela, e la mia cara Pamela sarà mia sposa.

Andreuve. Ah, signore. Voi mi fate piangere dall’allegrezza.

Bonfil. Ma quali prove mi darete dell’esser vostro?

Andreuve. Questa canuta barba dovrebbe meritar qualche fede. L’esser io vicino a terminare la vita, non dovrebbe far dubitare ch’io volessi morir da impostore. Ma grazie al cielo, ho conservato meco un tesoro, la cui vista mi consolava sovente nella mia povertà. Ecco in questi fogli di pergamena registrati i miei veri titoli, i miei perduti feudi, le parentele della mia casa, che sempre è stata una delle temute di Scozia; e pur troppo per mia sventura, mentre l’uomo superbo si val talvolta della nobiltà e della fortuna per rovinar se medesimo. Eccovi oltre ciò due lettere del mio defunto amico Guglielmo Artur, le quali mi lusingavano del perdono, se morte intempestiva non troncava con la sua vita le mie speranze.

Bonfil. Conoscete voi milord Artur, figlio del fu Guglielmo?

Andreuve. Lo vidi in età giovanile; bramerei con esso lui [p. 89 modifica] favellare. Chi sa che il di lui padre non m’abbia ad esso raccomandato?

Bonfil. Milord è cavalier virtuoso; è il mio più fedele amico. Ma oh Dio! quanto tarda Pamela! Andiamola a ritrovare. (si alzano)

Andreuve. Signore, vi raccomando a non espor la mia vita. Son vecchio, è vero, poco ancor posso vivere, ma non vorrei morire sotto la spada d’un manigoldo.

Bonfil. In casa mia potete vivere in quiete. Qui niuno vi conosce, e niuno saprà chi voi siate.

Andreuve. Ma dovrò vivere sempre rinchiuso? Son avvezzo a godere l’aria spaziosa della campagna.

Bonfil. Giuro sull’onor mio, tutto farò perchè siate rimesso nella primiera libertà.

Andreuve. Avete voi tanta forza presso di Sua Maestà?

Bonfil. So quanto comprometter mi possa della clemenza del Re, e dell’amore de’ ministri. Milord Artur s’unirà meco a proteggere la vostra causa.

Andreuve. Voglia il cielo ch’egli abbia per me quell’amore, con cui il padre suo mi trattava.

Bonfil. Ma tarda molto Pamela. Corriamo ad incontrarla.

Andreuve. Io non posso correre.

Bonfil. Datemi la mano.

Andreuve. Oh benedetta la provvidenza del cielo!

Bonfil. Cara Pamela, ora non fuggirai, vergognosetta, dalle mie mani. (parte con Andreuve)

SCENA VII.

Pamela da viaggio, col cappellino all’inglese, e Jevre.

Jevre. Presto, Pamela, che il padrone vi domanda.

Pamela. Sarà meglio ch’io parta senza vederlo.

Jevre. Avete paura degli occhi suoi?

Pamela. Quando si adira, mi fa tremare.

Jevre. Dunque siete risoluta d’andare? [p. 90 modifica]

Pamela. È venuto a posta mio padre.

Jevre. Cara Pamela, non ci vedremo mai più?

Pamela. Per carità, non mi fate piangere.

SCENA VIII.

Monsieur Longman e dette.

Longman. (Esce, guardando se vi è Milord) Pamela.

Pamela. Signore.

Longman. Partite?

Pamela. Parto.

Longman. Quando?

Pamela. Questa sera5.

Longman. Ah! (sospira)

Pamela. Pregate il cielo per me.

Longman. Povera Pamela!

Pamela. Vi ricorderete di me?

Longman. Non me ne scorderò mai.

Jevre. Monsieur Longman, le volete bene a Pamela?

Longman. Madama, io l’amo teneramente.

Jevre. Poverina! Prendetela voi per moglie.

Pamela. Ah!

Jevre. Che dite. Pamela? Lo prendereste?

Pamela. Madama, perdonatemi, voi mi dite cose, alle quali non vi posso rispondere.

Jevre. Eppure monsieur Longman...

Longman. Zitto, madama, che se viene il padrone, povero me.

Jevre. Mi dispiace non averci pensato prima, ma siamo ancora a tempo. Pamela, ne parlerò a vostro padre. Che ne dite, monsieur Longman?

Longman. Ah madama Jevre, non so che dire.

Jevre. Se Pamela parte, mi porta via il cuore.

Longman. Ed io resto senz’anima. [p. 91 modifica]

SCENA IX.

Milord Bonfil e detti.

Bonfil. Pamela?

Pamela. Signore? (Longman vuol partire senza dir nulla)

Bonfil. Dove andate? (a Longman)

Longman. Signore...

Bonfil. Buon vecchio. Pamela vi sta sul cuore?... (dolcemente)

Longman. Perdonate. (parte)

Jevre. (Il padrone mi sembra gioviale). (piano a Pamela)

Pamela. (Sarà lieto, perchè io parto. Pazienza). (piano a Jevre)

Bonfil. Pamela, io vi ho mandata a chiamare, e voi non siete venuta.

Pamela. Perdonatemi questa nuova colpa.

Bonfil. Perchè quell’abito così succinto?

Pamela. Adattato al luogo dove io vado.

Bonfil. Perchè quel cappellino così grazioso?

Pamela. Per ripararmi dal sole.

Bonfil. Quando si parte?

Pamela. Stassera6.

Bonfil. Non sarebbe meglio partir adesso?

Pamela. (Non mi può più vedere). (piano a Jevre)

Jevre. (Questa è una gran mutazione). (piano a Pamela)

Bonfil. Jevre, preparate l’appartamento per la mia sposa.

Jevre. Per quando, signore?

Bonfil. Per questa sera.

Pamela. (Ora intendo, perchè ei sollecita la mia partenza). (piano a Jevre)

Jevre. Un matrimonio fatto sì presto?

Bonfil. Sì, fate che le stanze siano magnificamente addobbate. Unite tutte le gioje che sono in casa; e per domani fate che vengano de’ mercanti e de’ sarti, per dar loro delle commissioni.

Pamela. (Io mi sento morire). (da sè) [p. 92 modifica]

Jevre. Signore, perdonate l’ardire. Posso io sapere chi sia la sposa?

Bonfil. Sì, ve lo dirò. È la contessa Auspingh7, figlia di un cavaliere scozzese.

Pamela. (Fortunatissima dama!) (da sè, sospirando)

Bonfil. Che avete. Pamela, che piangete?

Pamela. Piango per l’allegrezza di vedervi contento.

Bonfil. Ah Jevre, quant’è mai bella la mia Contessa!

Jevre. Prego il cielo, che sia altrettanto buona.

Bonfil. Ella è la stessa bontà.

Jevre. (Povera Pamela! Or ora mi muore qui). (da sè)

Bonfil. Sapete voi com’ella ha nome?

Jevre. Certamente io non lo so.

Bonfil. Non è ancor tempo che lo sappiate. Partite. (a Jevre)

Jevre. Signore...

Bonfil. Partite, vi dico.

Pamela. Madama, aspettatemi.

Bonfil. Ella parta, e voi restate.

Pamela. Perchè, signore?...

Bonfil. Non più, obbeditemi. (a Jevre)

Jevre. (Pamela mia, il cielo te la mandi buona), (da sè, e parte)

SCENA X.

Milord Bonfil e Pamela.

Pamela. (Oh Dio!)

Bonfil. Volete voi sapere il nome della mia sposa?

Pamela. Per obbedirvi, l’ascolterò.

Bonfil. Ella ha nome... Pamela.

Pamela. Signore, voi vi prendete spasso crudelmente di me.

Bonfil. Porgetemi la vostra mano8... (a Pamela)

Pamela. Mi maraviglio di voi.

Bonfil. Voi siete la mia cara sposa... [p. 93 modifica]

Pamela. V’ingannate, se vi lusingate sedurmi.

Bonfil. Voi siete la contessa Auspingh.

Pamela. Ah, troppo lungo è lo scherno. (va per uscir di camera)

SCENA XI.

Andreuve e detti.

Andreuve. Figlia, dove ten vai?

Pamela. Ah padre, andiamo subito per carità.

Andreuve. Dove?

Pamela. Lungi da questa casa.

Andreuve. Per qual cagione?

Pamela. Il padrone m’insidia.

Andreuve. Milord?

Pamela. Sì, egli stesso.

Andreuve. Sai tu chi sia Milord?

Pamela. Sì, lo so, è il mio padrone. Ma oramai..,

Andreuve. No, Milord è il tuo sposo.

Pamela. Oh Dio! Padre, che dite mai?

Andreuve. Sì, figlia, ecco l’arcano che svelar ti dovea. Io sono il conte d’Auspingh, tu sei mia figlia. Le mie disavventure mi hanno confinato in un bosco, ma non hanno cambiato nelle mie vene quel sangue, che a te diede la vita.

Pamela. Oimè! Lo posso credere?

Andreuve. Credilo all’età mia cadente, credilo a queste lagrime di tenerezza, che m’inondano il petto.

Bonfil. Pamela, rivolgetevi una volta anche a me.

Pamela. Oh Dio! Che è mai questo nuovo tremore, che mi assale le membra!9 Ahi, che vuol dir questo gelo, che mi circonda le vene! Oimè, come dal gelo si passa al fuoco! Io mi sento ardere, io mi sento morire.

Bonfil. Via, cara, accomodate l’animo vostro ad una fortuna, che per tanti titoli meritate. [p. 94 modifica]

Pamela. Signore, vi prego10 per carità, lasciatemi ritirare per un momento. Non mi assalite tutt’ad un tratto con tante gioie, ognuna delle quali avrebbe forza di farmi morire.

Bonfil. Sì, bell’idolo mio, prendete fiato. Ritiratevi pure nel mio appartamento.

Pamela. Padre, non mi abbandonate. (parte)

Andreuve. Eccomi, cara figlia, sono con te. Signore, permettetemi...

Bonfil. Sì, consolatela, disponetela a non mirarmi più con timore.

Andreuve. Eh Milord, farete più voi con due parole, di quello possa far io con cento. (parte)

Bonfil. Ah, che la virtù di Pamela dovea farmi avvertito, che abbietto il di lei sangue non fosse!

SCENA XII.

Isacco, poi milord Artur e detto.

Isacco. Signore. Milord Artur. (Isacco parte)

Bonfil. Venga. Che belle massime! Che nobili sentimenti! Oh me felice! Oh fortunato amor mio! Deh, caro amico, venite a parte delle mie contentezze. (ad Artur)

Artur. Fate che io le sappia, per potermene rallegrare.

Bonfil. Fra poco voi mi vedrete sposar Pamela.

Artur. Vi riverisco. (vuol partire)

Bonfil. Fermatevi.

Artur. Voi vi prendete spasso di me.

Bonfil. Ah, caro amico, ascoltatemi. Io son l’uomo più felice di questa terra. Ho scoperto un arcano, che m’ha data la vita. Pamela è figlia d’un cavaliere di Scozia.

Artur. Non vi lasciate adulare dalla passione.

Bonfil. Non è possibile. Il padre suo a me si scoprì, ed eccone gli attestati autenticati da due lettere di vostro padre. (gli fa vedere le carte)

Artur. Come! Il conte d’Auspingh? [p. 95 modifica]

Bonfil. Sì, un amico del vostro buon genitore. Siete forse de’ di lui casi informato?

Artur. Tutto mi è noto. Mio padre faticò tre anni per ottenergli il perdono, e pochi giorni prima della sua morte uscir doveva11 il favorevol rescritto.

Bonfil. Oh cieli! Il Conte ha ottenuta la grazia?

Artur. Sì, non manca che farne spedire il decreto dal Segretario di stato. Ciò rilevai da una lettera di mio padre non terminata, ma non potei avvisar il Conte, essendomi ignoto il luogo di sua dimora.

Bonfil. Ah! Questo solo mancava per rendermi pienamente felice.

Artur. Or sì, che giustamente sono eccitato a rallegrarmi con voi.

Bonfil. Ecco felicitato il mio cuore.

Artur. Ecco premiata la vostra virtù.

Bonfil. La virtù di Pamela, che ha saputo resistere alle mie tentazioni.

Artur. La virtù vostra, che ha saputo superare le vostre interne passioni; ma ora che siete vicino ad esser contento, calmerete lo sdegno vostro contro il cavaliere Ernold che vi ha offeso?

Bonfil. Non mi parlate di lui12.

Artur. Egli è pentito d’avervi pazzamente irritato.

Bonfil. Ha insultato me, ha insultato Pamela13.

SCENA XIII.

Isacco, poi Miledi Daure e detti.

Isacco. Signore, miledi Daure.

Bonfil. Venga. (Isacco parte)

Artur. Ella verrà a parlarvi per suo nipote.

Bonfil. Viene, perchè io l’ho invitata a venire.

Miledi. Milord, so che sarete acceso di collera contro di me, ma se voi mi mandaste a chiamare, non credo che l’abbiate fatto per insultarmi. [p. 96 modifica]

Bonfil. V’invitai per darvi un segno d’affetto.

Miledi. Mi adulate?

Bonfil. No, dico davvero. Vi partecipo le mie nozze vicine.

Miledi. Con chi?

Bonfil. Con una dama di Scozia.

Miledi. Di qual famiglia?

Bonfil. De’ conti d’Auspingh.

Miledi. Voi mi consolate. Quando avete concluso?

Bonfil. Oggi.

Miledi. Quando verrà la sposa?

Bonfil. La sposa non è lontana.

Miledi. Desidero di vederla.

Bonfil. Milord, date voi questo piacere a Miledi mia sorella. Andate a prendere la Contessa mia sposa; indi datevi a conoscere al di lei padre, e colmatelo di contentezza.

Artur. Vi servo con estraordinario piacere. (parie)

Miledi. Ma come! Ella è in Londra, ella è in casa, ella è vostra sposa, ed io non so nulla di questo?

Bonfil. Vi basti saperlo, prima ch’io le abbia data la mano.

Miledi. Sì, son contentissima, purchè vi leviate d’attorno quella svenevole di Pamela.

Bonfil. Di Pamela parlatene con rispetto14.

SCENA XIV.

Milord Artur, Pamela e detti.

Artur. Eccola; non vuole che io la serva di braccio.

Bonfil. Cara Pamela, ciò disconvenire non sembra15 ad una onestissima sposa.

Pamela. Tale ancora non sono.

Miledi. Come! Che sento! La vostra sposa è Pamela?

Bonfil. Sì, riverite in lei la contessa d’Auspingh.

Miledi. Chi l’ha fatta contessa? Voi? [p. 97 modifica]

Bonfil. Tal è per ragione di sangue. Milord Artur ve ne faccia fede.

Artur. Miledi, credetelo sull’onor mio. Il Conte suo padre ha vissuto trent’anni incognito in uno stato povero, ma onorato.

Miledi. Contessa, vi chiedo scusa delle ingiurie, che non conoscendovi, ho contro di voi proferite. Siccome il mio sdegno era prodotto dal zelo d’onore, spero saprete ben compatirlo voi, che dell’onore avete formato il maggior idolo del vostro cuore.

Pamela. Sì, Miledi, compatisco, approvo e do lode alla vostra delicatezza. Pamela rustica poteva formare un ostacolo alla purezza del vostro16 sangue. Pamela, che ha migliorato di condizione, può lusingarsi della vostra bontà.

Miledi. Vi chiamo col vero nome d’amica, vi stringo al seno col dolce titolo di cognata.

Pamela. Questo generoso titolo, che voi mi accordate, a me non ancora si aspetta.

Miledi. E che vi resta per istabilirlo?

Pamela. Oh Dio! Che il vostro caro fratello me ne assicuri.

Bonfil. Adorata Pamela, eccovi la mia mano.

Pamela. Ah, non mi basta.

Bonfil. Che volete di più?

Pamela. Il vostro cuore.

Bonfil. E da gran tempo17, che a voi lo diedi.

Pamela. Voi mi avete donato un cuore che non è il vostro, ne io mi contento di quello. Sì, voi mi avete donato un cuore che pensava di rovinarmi, se il cielo non mi assisteva. Datemi il cuore di sposo fedele, di amante onesto; bellissimo cuore, adorabile cuore, dono singolare e prezioso, dovuto da un cavalier generoso ad una povera sventurata, ma che in dote porta il tesoro18 d’una esperimentata onestà.

Bonfil. Sì, adorata mia19 sposa, quest’è il cuore ch’io vi dono. L’altro me l’ho strappato dal seno, dopo che l’eroiche vostre ripulse mi hanno fatto arrossire di avervelo una fiata offerto.

Miledi., udite i sentimenti di quest’anima singolare. Ecco la [p. 98 modifica] virtuosa femmina sconosciuta, cui avete ardito insultare. Ecco l’onesta giovine, a cui il temerario vostro nipote ha proferite esecrabili ingiurie. Voi da questo giorno non vi lascierete più vedere da me. Il Cavaliere pagherà il suo ardire altrimenti20.

Miledi. Deh, placate lo sdegno. Se mio nipote vi ha offeso, egli non è lontano, disposto a chiedervi scusa.

Artur. Caro amico, non funestate sì lieto giorno con immagini di vendetta. Ricevete le scuse del Cavaliere.

Bonfil. No, compatitemi21.

Pamela. Milord...

Bonfil. Questo non è il titolo con cui mi dovete chiamare.

Pamela. Caro sposo, permettetemi che in questo giorno, in cui a pro di una femmina fortunata siete liberale di22 grazie, una ve ne chieda di più.

Bonfil. Ah, voi mi volete chiedere, ch’io perdoni al Cavaliere.

Pamela. Sì; vi chiedo forse una cosa che vi avvilisca? Il perdonare è atto magnanimo e generoso, che rende gli uomini superiori all’umanità.

Bonfil. IL Cavaliere ha offesa voi, che mi siete più cara di me medesimo.

Pamela. Se riguardate l’offesa mia, con più coraggio vi pregherò di scordarvene.

Bonfil. Generosa Pamela, in grazia vostra perdono al Cavaliere le offese.

Pamela. Non basta; rimettete nel vostro amore anche la vostra cara sorella.

Bonfil. Sì, lo farò, per far conoscere quanto vi stimi e quanto vi ami. Miledi, tutto pongo in obblio23 per cagione di Pamela. Ammiratela, imitatela, se potete.

Miledi. Caro fratello, potrei imitarla in tutto, fuorchè nel tollerare con tanta bontà gl’impeti della vostra collera.

Bonfil. Perchè i vostri sono peggiori de’ miei. [p. 99 modifica]

SCENA XV.

Monsieur Longman, Isacco e detti.

Isacco. Signore, il cavaliere Ernold desidera di passare.

Bonfil. Venga. Non sarebbe venuto mezz’ora prima.

Longman. Gran cose ho intese, signore!

Bonfil. Pamela è la vostra padrona.

Longman. Il cielo mi dia vita, per farle conoscere il mio rispetto e la mia obbedienza.

Bonfil. (Longman è un uomo da bene). (da sè)

SCENA XVI.

Madama Jevre e detti.

Jevre. È permesso che una serva antica di casa sia a parte anch’essa di tanto giubbilo?

Bonfil. Ah Jevre! Ecco la vostra cara24 Pamela.

Jevre. Oh Dio! Che consolazione! Che siate benedetta! Lasciate che vi baci la mano.

Pamela. No, cara; tenete un bacio.

Jevre. Siete la mia padrona.

Pamela. Vi amerò sempre come mia madre.

Jevre. L’allegrezza mi toglie il respiro.

SCENA XVII.

Il cavaliere Ernold e detti.

Ernold. Milord, io ho sentito nell’anticamera delle cose straordinarie; delle cose che m’hanno inondato il cuore di giubbilo. Viva la vostra sposa, viva la contessa d’Auspingh. Deh permettetemi, madama, che in attestato del mio rispetto vi baci umilmente la mano. [p. 100 modifica]

Pamela. Signore, questo complimento secondo me non si usa.

Ernold. Oh perdonatemi, io, che ho viaggiato, non ho ritrovato sì facilmente chi abbia negata a’ miei labbri la mano.

Pamela. Tutto quello che dalla gente si fa, non è sempre ben fatto.

Ernold. Baciar la mano è un atto di rispetto.

Pamela. È vero, lo fanno i figli coi genitori, e i servi coi loro padroni.

Ernold. Voi siete la mia sovrana.

Bonfil. Cavaliere, basta così.

Ernold. Eh Milord, tanto è lontano ch’io voglia spiacervi, che anzi de’ dispiaceri dativi senza pensare, vi chieggo scusa.

Bonfil. Prima di operare pensate, se non volete aver il rossore di chiedere scusa.

Ernold. Procurerò di ritornar Inglese.

Bonfil. Cara sposa, andiamo a consolare del tutto il vostro buon genitore. Venite a prendere il possesso, come padrona, in quella casa in cui soffriste di vivere come serva.

Pamela. Nel passare che io fo dal grado di serva a quel di padrona, credetemi che non mi sento a’ fianchi nè la superbia, nè l’ambizione. Ah signore, osservate che voi solo siete quello che mi rende felice; e apprezzo l’origine dei miei natali, quanto ella vale a farmi conseguire la vostra mano, senza il rossore di vedervi per me avvilito. Apprenda il mondo, che la virtù non perisce: ch’ella combatte, e si affanna; ma finalmente abbatte, e vince, e gloriosamente trionfa.

Fine della Commedia.


Note

  1. Nelle edd. Bett. e Pap. segue solo: fermatevi.
  2. Segue nelle edd. Bett. e Pap.: «Art. Domani lo sfiderete. Bonf. Non posso fin a domani trattener la mia collera. Art. Dunque che pensereste di fare? Bonf. Ucciderlo in questo momento. Art. Ah Milord ecc.»
  3. Bett. e Pap.: Al suo rustico albergo.
  4. Bett.: tostamente.
  5. Bett. e Pap.: Domattina per tempo.
  6. Bett. e Pap.: Domani di buon mattino.
  7. Bett., qui e sotto: d’Auspingh.
  8. Bett. ha invece: Venite fra le mie braccia.
  9. Bett. ha qui e dopo il punto interrogativo.
  10. Bett.: ve lo domando.
  11. Bett. e Pap.: uscì.
  12. Bett. e Pap. hanno invece: Ernold deve morire.
  13. Segue nelle edd. Bett. e Pap.: Sì, deve morire.
  14. Segue nelle edd. Bett. e Pap.: «Mil. Ella e una vil serva. Bonf. Voi non sapete chi ella sia».
  15. Bett.: non è sconveniente.
  16. Bett. e Pap.: alla venerazione del purissimo vostro.
  17. Bett. e Pap.: Quest’è vostro da gran tempo.
  18. Bett. e Pap.: ricco tesoro.
  19. Bett. e Pap.: adorata mia cara.
  20. ’Bett. e Pap.: il suo ardire con la sua morte.
  21. Bett. e Pap. hanno invece: Le riceverò colla spada alla mano.
  22. Bett. e Pap.: profondete le.
  23. Bett.: Tutto mi scordo.
  24. Bett. ha solo: la vostra.