Orlando innamorato/Libro terzo/Canto primo

Libro terzo

Canto primo

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Libro terzo Libro terzo - Canto secondo

 
1   Come più dolce a’ naviganti pare,
     Poi che fortuna li ha battuti intorno,
     Veder l’onda tranquilla e queto il mare,
     L’aria serena e il cel di stelle adorno;
     E come il peregrin nel caminare
     Se allegra al vago piano al novo giorno,
     Essendo fuori uscito alla sicura
     De l’aspro monte per la notte oscura;

2   Così, dapoi che la infernal tempesta
     De la guerra spietata è dipartita,
     Poi che tornato è il mondo in zoia e in festa
     E questa corte più che mai fiorita,
     Farò con più diletto manifesta
     La bella istoria che ho gran tempo ordita:
     Venite ad ascoltare in cortesia,
     Segnori e dame e bella baronia.

3   Le gran battaglie e il trïomfale onore
     Vi contarò di Carlo, re di Franza,
     E le prodezze fatte per amore
     Dal conte Orlando, e sua strema possanza;
     Come Rugier, che fu nel mondo un fiore,
     Fosse tradito; e Gano di Maganza,
     Pien de ogni fellonia, pien de ogni fele,
     Lo uccise a torto, il perfido crudele.

4   E seguirovi, sì come io suoliva,
     Strane aventure e battaglie amorose,
     Quando virtute al bon tempo fioriva
     Tra cavallieri e dame grazïose,
     Facendo prove in boschi ed ogni riva,
     Come Turpino al suo libro ce espose.
     Ciò vo’ seguire, e sol chiedo di graccia
     Che con diletto lo ascoltar vi piaccia.

5   Nel tempo che il re Carlo de Pipino
     Mantenne in Franza stato alto e giocondo,
     Uscì di Tramontana un Saracino,
     Che pose quasi lo universo al fondo;
     Né dove il sol se leva a matutino,
     Né dove calla, né per tutto il mondo,
     Fo mai trovato in terra un cavalliero
     Di lui più franco e più gagliardo e fiero.

6   Mandricardo appellato era il Pagano,
     Qual tanta forza e tale ardire avia,
     Che mai non vestì l’arme il più soprano,
     Ed era imperator di Tartaria;
     Ma fo tanto superbo ed inumano
     Che sopra alcun non volse segnoria,
     Che non fosse in battaglia esperto e forte:
     A tutti gli altri facea dar la morte.

7   Onde fo il regno tutto disertato,
     Abandonò ciascuno il suo paese.
     Ora trovosse un vecchio disperato,
     Qual, non sapendo fare altre diffese,
     Passando avanti al re preso e legato
     Con alti cridi a terra se distese,
     Facendo sì diverso lamentare
     Che ogni om trasse intorno ad ascoltare.

8   - Mentre ch’io parlo, - disse il vecchio - aspetta,
     E poi farai di me quel che ti pare.
     L’anima del tuo patre maledetta
     Non può il mal fiume allo inferno passare,
     Perché scordata se è la sua vendetta.
     Sopra alla ripa stassi a lamentare:
     Stassi piangendo e tien la testa bassa,
     Ché ogni altro morto sopra li trapassa.

9   Il tuo patre Agrican, non so se ’l sai,
     O nol saper te infingi per paura,
     Dal conte Orlando occiso fo con guai:
     A te del vendicar tocca la cura.
     Tu fai morir chi non te offese mai,
     E meni per orgoglio tanta altura;
     Non è stimato, datelo ad intendere,
     Chi offende quel che non si può deffendere.

10 Va, trova lui, che ti potrà respondere,
     E mostra contra a Orlando il tuo furore.
     La tua vergogna non si può nascondere:
     Troppo è palese ogni atto de segnore.
     Codardo e vile, or non ti dèi confondere
     Pensando alla onta grande e il disonore
     Qual ti fu fatto? E sei tanto da poco
     Che hai faccia de apparire in alcun loco? -

11 Così cridava il vecchio ad alta voce,
     Come io vi conto, e più volea seguire;
     Se non che Mandricardo, il re feroce,
     A lo ascoltar non puote sofferire.
     Una ira sì rovente il cor li coce,
     Che se convenne subito partire,
     E ne la zambra se serrò soletto,
     Di sdegno ardendo tutto e de dispetto.

12 Dopo molto pensar prese partito
     Suo stato e tutto il regno abandonare.
     Per non esser da altrui mostrato a dito
     Giurò nella sua corte mai tornare,
     Ma reputar se stesso per bandito
     Sin che il suo patre possa vendicare;
     Né a sé ritenne tal pensiero in petto,
     Ma palesollo e poselo ad effetto.

13 Avendo a tutto il regno proveduto
     Di bon governo de ottima persona,
     Nel tempio de’ suoi dei ne fo venuto,
     E sopra al foco offerse la corona;
     Poi se partì la notte scognosciuto,
     Ed a fortuna tutto se abandona:
     Senza arme, a piede, come peregrino
     Verso ponente prese il suo camino.

14 Arme non tolse e non mena destriero,
     Per non voler che al mondo fosse detto
     Che alcuno aiuto a lui facea mestiero
     Per vendicar sua onta e suo dispetto.
     E lui prosume molto de legiero
     De acquistarse arme e un bon destrier eletto,
     Sì che ponga ad effetto el suo disegno
     Sol sua prodezza, e non forza di regno.

15 Così, soletto sempre caminando,
     Passò gli Armeni ed altra regïone,
     E da un colletto un giorno remirando
     Presso a una fonte vidde un paviglione.
     Là giù se calla, nel suo cor pensando,
     Se vi trova arme dentro né ronzone,
     Per forza o bona voglia a ogni partito
     Non se levar de là se non fornito.

16 Poiché fu gionto in su la terra piana,
     Ne la cortina entrò senza paura.
     Non vi è persona prossima o lontana,
     Che abbia del pavaglion guarda né cura;
     Solo una voce uscì de la fontana,
     Qual gorgogliava per quella acqua pura,
     Dicendo: - Cavallier, per troppo ardire
     Fatto èi pregione, e non te poi partire. -

17 O che lui non odette, o non intese,
     Alle parole non pose pensiero,
     Ma per il pavaglione a cercar prese,
     Se ivi trovasse né arme né destriero.
     L’arme a un tapete tutte eran distese,
     Ciò che bisogna aponto a un cavalliero;
     E lì fuori ad un pino in su quel sito
     Legato era un ronzon tutto guarnito.

18 Quello ardito baron senza pensare
     L’arme se pose adosso tutte quante.
     Preso è il destriero e, via volendo andare,
     Subito un foco a lui sorse davante.
     Nel pino prima si ebbe a divampare,
     E, quello acceso sin sotto le piante,
     Per ogni lato il foco se trabocca,
     Ma sol la fonte e il pavaglion non tocca.

19 Gli arbori e l’erbe e pietre di quel loco
     Tutte avamparno a gran confusïone;
     La fiamma cresce intorno a poco a poco,
     Tanto che dentro chiuse quel barone.
     A lui se aventa lo incantato foco
     Ne l’elmo, el scudo, ed ogni guarnisone,
     E lo usbergo de acciaro e piastre e maglia
     Gli ardeano a cerco, come arida paglia.

20 El cavallier per cosa tanto istrana
     Lo usato orgoglio ponto non abassa;
     Smonta de arcion quella anima soprana,
     Per mezo il foco via correndo passa.
     Come fu gionto sopra alla fontana,
     Dentro vi salta e al fondo andar si lassa;
     Né più potea campare ad altra guisa:
     Arso era tutto insino alla camisa.

21 Ché, come io dissi, e piastre e maglia e scudo
     Gli ardeano atorno come foco di esca;
     Arse la giuppa, e lui rimase ignudo
     Sì come nacque, in mezo a l’onda fresca;
     E mentre che a diletto il baron drudo
     Per la bella acqua se solaccia e pesca,
     Parendo ad esso uscito esser de impaccio,
     Ad una dama se ritrova in braccio.

22 Era la fonte tutta lavorata
     Di marmo verde, rosso, azurro e giallo
     E l’acqua tanto chiara e riposata,
     Che traspareva a guisa de cristallo;
     Onde la dama che entro era spogliata,
     Così mostrava aperto senza fallo
     Le poppe e il petto e ogni minimo pelo,
     Come de intorno avesse un sotil velo.

23 Questa ricolse in braccio quel barone,
     Basandoli la bocca alcuna fiata,
     E disse ad esso: - Voi seti pregione,
     Come molti altri, al Fonte de la Fata;
     Ma, se sereti prodo campïone,
     Cotanta gente fia per voi campata,
     Tanti altri cavallieri e damigelle,
     Che vostra fama passarà le stelle.

24 Perché intendiati il fatto a passo a passo,
     Fece una fata ad arte la fontana,
     Che tanti cavallieri ha posti al basso,
     Che nol potria contar la gente umana.
     Quivi pregione è il forte re Gradasso,
     Quale è segnor di tutta Sericana;
     Di là da la India grande è il suo paese:
     Tanto è potente, e pur non se diffese!

25 Seco pregione è il nobile Aquilante
     E lo ardito Grifon, che è suo germano,
     Ed altri cavallieri e dame tante,
     Che a numerarli me affatico invano.
     Oltre a quel poggio che vedeti avante,
     Edificato è un bel castello al piano,
     Ove rinchiuse dentro ha quella fata
     L’arme di Ettorre, e mancavi la spata.

26 Ettor di Troia, il tanto nominato,
     Fu la eccellenzia di cavalleria,
     Né mai si trovarà né fu trovato
     Chi il pareggiasse in arme o in cortesia.
     Ne la sua terra essendo assedïato
     Da re settanta ed altra baronia,
     Dece anni a gran battaglie e più contese:
     Per sua prodezza sol se la difese.

27 Mentre ch’egli ebbe il grande assedio intorno,
     Se può donar tra gli altri unico vanto
     Che trenta ne sconfisse in un sol giorno,
     Che de battaglia avea mandato il guanto;
     Poi d’ogni altra virtù fu tanto adorno,
     Che il par non ebbe il mondo tutto quanto,
     Né il più bel cavallier, né il più gentile;
     A tradimento poi lo occise Achile.

28 Come fu morto, andò tutta a roina
     Troia la grande e consumosse in foco.
     Or dir vi vo’ di sua armatura fina
     Come se trovi adesso in questo loco.
     Prima la spata prese una regina
     Pantasilea nomata; e in tempo poco,
     Essendo occisa in guerra, perse il brando;
     Poi l’ebbe Almonte; adesso il tiene Orlando.

29 Tal spata Durindana è nominata
     (Non so se mai la odesti racordare),
     Che sopra a tutti e brandi vien lodata.
     Or de l’altre arme vi voglio contare.
     Poi che fu Troia tutta dissipata,
     Gente da quella se partì per mare
     Sotto un lor duca nominato Enea;
     Lui tutte l’arme eccetto il brando avea.

30 De Ettorre era parente prossimano
     El duca Enea, che avea quella armatura;
     E questa fata, per un caso istrano,
     Trasse tal duca de disaventura,
     Che era condotto a un re malvaggio in mano,
     Che ’l tenea chiuso in una sepoltura:
     Stimando trar da lui tesoro assai,
     Lo tenea chiuso e preso in tanti guai.

31 La fata con incanto lo disciolse,
     Per arte il trasse fuor del monumento,
     E per suo premio le belle arme volse,
     E il duca de donarle fu contento.
     Lei poscia a questo loco se racolse
     E fece l’opra de lo incantamento
     Onde io vi menarò, quando vi piacia,
     E provarò se in core aveti audacia.

32 Ma quando non ve piaccia de venire
     E vinto vi trovati da viltate,
     Contro a mia voglia me vi convien dire
     Quel che serà di voi la veritate:
     In questa fonte vi convien perire,
     Come perita vi è gran quantitate;
     De quai memoria non serà in eterno,
     Ché il corpo è al fondo e l’anima a lo inferno. -

33 A Mandricardo tal ventura pare
     Vera e non vera, sì come si sogna;
     Pur rispose alla dama: - Io voglio andare
     Ove ti piace e dove mi bisogna;
     Ma così ignudo non so che mi fare,
     Ché me ritiene alquanto la vergogna. -
     Disse la dama: - Non aver pavento,
     Ché a questo è fatto bon provedimento. -

34 E soi capegli a sé sciolse di testa,
     Ché ne avea molti la dama ioconda,
     Ed abracciato il cavallier con festa
     Tutto il coperse de la treccia bionda;
     Così, nascosi entrambi di tal vesta,
     Uscîr di quella fonte la bella onda,
     Né ferno al dipartir lunga tenzone,
     Ma insieme a braccio entrarno al pavaglione.

35 Non lo avea tocco, come io disse, il foco,
     Pieno è di fiori e rose damaschine.
     Loro a diletto se posarno un poco
     Entro un bel letto adorno de cortine.
     Già non so dir se fecero altro gioco,
     Ché testimonio non ne vide el fine;
     Ma pur scrive Turpin verace e giusto
     Che il pavaglion crollava intorno al fusto.

36 Poi che fôr stati un pezo a cotal guisa
     Tra fresche rose e fior che mena aprile,
     La damigella prese una camisa
     Ben perfumata, candida e sotile;
     Poi de una giuppa a più color divisa
     Di sua man vestì il cavallier gentile;
     Calcie gli diè vermiglie e speron d’oro,
     Poi lo armò a maglia de sotil lavoro.

37 Dopo lo arnese lo usbergo brunito
     Gli pose in dosso, e cinse il brando al fianco,
     E uno elmo a ricche zoie ben guarnito
     Li porse e cotta d’arme e scudo bianco;
     Indi condusse un gran destriero ardito,
     E Mandricardo non parve già stanco,
     Né che lo impacci l’arme o guarnisone:
     D’un salto armato entrò sopra allo arcione.

38 La damigella prese un palafreno
     Che ad un verde genevre era legato,
     E caminando un miglio o poco meno
     Passarno il colle e gionsero al bel prato,
     Dicendo a lui la dama: - Intendi appieno,
     Ché tutto il fatto ancor non te ho contato:
     Acciò che intenda ben quel che hai a fare,
     Col re Gradasso converrai giostrare.

39 Adesso del castello è campïone
     E diffensore il re tanto membruto;
     Cotale impresa prima ebbe Grifone,
     Qual da lui poco avanti fu abattuto.
     Se quel te vince, restarai pregione
     Sin che altro cavallier ti doni aiuto;
     Ma se lui getti sopra alla pianura,
     Te provarai a l’ultima ventura.

40 Provar convienti al glorïoso acquisto
     Di prender l’arme che fôrno di Ettòre;
     Più forte incanto il mondo non ha visto,
     E sino a qui ciascun combattitore
     Ce è reuscito a tale impresa tristo,
     Né par che gionga alcuno a tanto onore;
     E tu la proverai, poiché èi venuto:
     Fortuna o tua virtù ti darà aiuto. -

41 Così parlando gionsero al castello.
     Mai non se vidde il più ricco lavoro:
     Le mura ha de alabastro, e il capitello
     De ogni torre è coperto a piastre d’oro.
     Verdeggiava davanti un praticello
     Chiuso de mirto e de rami de aloro
     Piegati insieme a guisa di steccato,
     E stavi dentro un cavalliero armato.

42 - El re Gradasso è quel che avanti appare -
     Disse la dama - dentro a quel ridotto.
     Ora con me non averai a fare,
     Che sempre teco mi trovai di sotto. -
     E Mandricardo, odendo tal parlare,
     La vista a l’elmo se chiuse di botto;
     Spronando a tutta briglia e gran tempesta,
     A mezo il corso l’asta pose a resta.

43 Da l’altra parte il forte re Gradasso
     Contra di lui se mosse con gran fretta.
     Alcun de’ duo corsier non mostra lasso,
     Anci sembravan folgore e saetta,
     E se incontrarno insieme a tal fraccasso,
     Che par che nello inferno il cel si metta
     E la terra profondi e la marina:
     Odita non fu mai tanta ruina.

44 Ni quel ni questo se mosse de arcione,
     E sì fiaccarno l’una e l’altra lanza,
     Che sino a l’aria andava ogni troncone:
     Un palmo integro d’esse non avanza.
     Or veder se conviene il parangone
     De’ cavallieri e l’ultima possanza,
     Perché, voltati con le spade in mano,
     Se razuffarno insieme in su quel piano.

45 Cominciâr la battaglia orrenda e scura:
     Già non mostrava un scherzo il crudo gioco,
     Ché pure a riguardarlo era paura,
     Perché a ogni colpo se avampava el foco.
     A pezzi si ne andava ogni armatura,
     Già ne era pieno il prato in ogni loco;
     E lor pur drieto, e non guardano a quella:
     Ciascuno a più furor tocca e martella.

46 Duo guerrier son costor di bona raccia,
     E ben lo dimostravan ne lo aspetto:
     Cinque ore e più durò tra lor la traccia;
     Pervennero alla fine in questo effetto,
     Che Mandricardo il re Gradasso abraccia
     Per trarlo de lo arcione al suo dispetto,
     E il re Gradasso a lui se era afferrato,
     Sì che ne andarno insieme in su quel prato.

47 Non so se fu fortuna o fusse caso,
     Quando caderno entrambi de lo arcione
     Di sopra Mandricardo era rimaso,
     E convenne a Gradasso esser pregione.
     Già se ne andava il sol verso l’occaso
     Allor che se finì la questïone,
     E la donzella di cui vi ho parlato,
     Con piacevol sembiante entrò nel prato;

48 Ed a Gradasso disse: - O cavalliero,
     Vetar non pôsse quel che vôl fortuna;
     Lasciar questa battaglia è di mestiero,
     Perché la notte vene e il cel se imbruna.
     Ma a te che hai vinto, tocca altro pensiero;
     E dir ti so che mai sotto la luna
     Fo sì strana ventura in terra o in mare,
     Come al presente converrai provare.

49 Come di novo il giorno sia apparito,
     Vedrai l’arme di Ettorre e chi le guarda;
     Ora che il sole all’occidente è gito,
     Entrar non pôi, ché l’ora è troppo tarda.
     In questo tempo pigliaren partito
     Che tua persona nobile e gagliarda
     Qua sopra a l’erba prenda alcun riposo,
     Sin che il sol se alci al giorno luminoso.

50 Dentro alla rocca non potresti entrare
     (Di notte mai non se apre quella porta);
     Tra fiori e rose qua pôi riposare,
     Ed io vegliando a te farò la scorta.
     Ben, se ti piace, te posso menare
     Ove una dama grazïosa e accorta
     Onora ciascaduno a un suo palagio,
     Ma temo che ivi avresti onta e dannagio.

51 Perché un ladron, che Dio lo maledica!
     Quale è gigante e nome ha Malapresa,
     Alla donzella, come sua nemica,
     Fa gran danno ed oltraggio ed ogni offesa;
     Onde non pigliarai questa fatica,
     Ché converresti seco aver contesa,
     Né a te bisogna più briga cercare,
     Perché domane avrai troppo che fare. -

52 Rispose Mandricardo: - In fede mia,
     Tutto è perduto il tempo che ne avanza,
     Se in amor non si spende o in cortesia,
     O nel mostrare in arme sua possanza;
     Onde io ti prego per cavalleria
     Che me conduci dentro a quella stanza
     Qual m’hai contata; e farem male, o bene,
     Se Malapresa ad oltraggiar ce viene. -

53 Per compiacere adunque al cavalliero
     La damigella se pose a camino.
     Lei era a palafreno, esso a destriero,
     Sì che in poca ora gionsero al giardino
     Ove è posto il palagio del verziero,
     Qual lustreggiava tutto quel confino;
     Cotanti lumi accesi avea de intorno,
     Che si cerniva come fusse il giorno.

54 Sopra alla porta del palagio altano
     Era un verone adorno a meraviglia,
     Ove si stava giorno e notte un nano,
     Che di far guarda molto se assotiglia.
     Come suonato ha il corno, a mano a mano
     Corre de intorno tutta la famiglia;
     E se egli è Malapresa, il rio ladrone,
     Saette e sassi tran da ogni balcone.

55 Se egli è barone, o cavalliero errante,
     Dece donzelle, ad onorare avezze,
     Apron la porta e con lieto sembiante
     Al cavallier fan festa e gran carezze;
     E notte e giorno il servon tutte quante,
     Con sì bon viso e tal piacevolezze
     E con tanto piacere e tanta zoglia,
     Che indi a partirse mai non li vien voglia.

56 Dunque a tal modo tra le dame accolto
     Fu Mandricardo con faccia serena.
     La dama del verzier con lieto volto
     A braccio seco festeggiando il mena;
     Né passeggiarno per la loggia molto,
     Che con diletto se assettarno a cena,
     Serviti alla real di banda in banda
     De ogni maniera de ottima vivanda.

57 A lor davanti cantava una dama,
     E con la lira a sé facea tenore,
     Narrando e gesti antichi e di gran fama,
     Strane aventure e bei moti d’amore;
     E mentre che de odire avean più brama,
     Odirno per la corte un gran romore.
     - Ahimè! ahimè! - dicean - che cosa è questa,
     Che ’l nano suona il corno a tal tempesta? -

58 Così dicean le dame tutte quante,
     E ciascuna nel viso parea morta.
     Già Mandricardo non mutò sembiante,
     Ché era venuto a posta per tal scorta.
     Perché intendiati il tutto, quel gigante
     De cui vi dissi, avea rotta la porta,
     E del romore e gran confusïone
     Che ora vi conto, lui ne era cagione.

59 Entrò cridando quel dismisurato:
     Parean tremar le mura alla sua voce;
     De una spoglia di serpe ha il busto armato,
     Che spata o lancia ponto non vi nôce.
     Portava in mano un gran baston ferrato
     Con la catena il malandrin feroce;
     In capo avea di ferro un bacinetto,
     Nera la barba e grande a mezo il petto.

60 Quando egli entrava ne la loggia aponto,
     Tratto avea Mandricardo il brando apena;
     Né stette a calcular la posta o il conto,
     Ma nel primo arivare assalta e mena,
     Ed ebbe nella cima il baston gionto,
     E via tagliò di netto la catena.
     Ricopra il colpo e tira un manroverso,
     E tagliò tutto il scudo per traverso.

61 Per questo colpo il gigante adirato
     Menò del suo baston, che a due man prese;
     E il cavallier de un salto andò da lato,
     E ben de gioco a quella posta rese;
     A ponto gionse dove avea segnato,
     Sotto al ginocchio, al fondo de lo arnese,
     E spezzò quello e le calcie di maglia,
     Sì che le gambe ad un colpo gli taglia.

62 Quel cade a terra. A voi lascio pensare
     Se le donzelle ne menavon festa.
     Più Mandricardo nol volse toccare,
     Onde un sergente li partì la testa.
     Fuor del palagio il fecer trasinare,
     E longi il sepellirno alla foresta;
     Le gambe gettâr seco in quella fossa:
     Di lui più mai non si parlò da possa.

63 Come se stato mai non fosse al mondo,
     Di lui più non si fa ragionamento.
     Le dame cominciarno un ballo in tondo,
     Suonando a fiato, a corde ogni instromento,
     Con voci vive e canto sì iocondo,
     Che ciascun qual ne avesse intendimento,
     Essendo poco a quel giardin diviso,
     Giurato avria là dentro il paradiso.

64 Così durando il festeggiar tra loro,
     Bona parte di notte era passata,
     E stando incerco come a consistoro,
     Venne di dame una nova brigata:
     Chi ha frutti, chi confetti e coppe d’oro,
     E ciascuna fu presto ingenocchiata,
     E la dama cortese e il cavalliero
     Se renfrescarno senza altro pensiero.

65 De bianche torze vi è molto splendore,
     E girno a riposar senza sospetti.
     Parate eran le zambre a grande onore
     De fina seta e bianchissimi letti;
     Rame de aranci intorno a molto odore,
     E per quei rami stavano ocelletti,
     Che a’ lumi accesi se levarno a volo.
     Ma qua non stette il cavallier lui solo,

66 Perché una dama il rimase a servire
     De ciò che chieder seppe, più ni meno.
     La notte ivi ebbe assai che fare e dire,
     Ma più ne avrà nel bel giorno sereno,
     Come tornando potereti odire
     Lo orrendo canto e di spavento pieno,
     Che il maggior fatto mai non fo sentito.
     Addio, segnori: il canto è qui finito.