Orlando innamorato/Libro primo/Canto ventesimoterzo

Libro primo

Canto ventesimoterzo

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1   Seguendo, bei segnori, il nostro dire,
     Brandimarte dal conte era partito,
     E perse il cervo e posese a dormire;
     Ma poi, al novo giorno resentito,
     Al suo compagno volea rivenire;
     E già sopra il destrier sendo salito,
     Ascoltando li parve voce umana
     Che si dolesse, e non molto lontana.

2   E poi che un pezzo per odir fu stato,
     Verso quel loco se pose ad andare;
     E come aveva alquanto cavalcato,
     Stavasi fermo e quieto ad ascoltare;
     E così andando gionse ad un bel prato,
     E colei vide, che odìa lamentare,
     Legata ad una quercia per le braccia;
     Come la vide, la cognobbe in faccia.

3   Perché quella era la sua Fiordelisa,
     Tutto il suo bene e vita del suo core;
     Sì che pensati voi or con qual guisa
     Se cangiò Brandimarte de colore.
     Era l’anima sua tutta divisa:
     Parte allegrezza e parte era dolore,
     Ché d’averla trovata era zoioso,
     Ma del suo mal turbato e doloroso.

4   Più non indugia, che salta nel piano,
     E lega Brigliadoro ad una rama;
     Va con gran fretta il cavallier soprano
     Per discioglier colei che cotanto ama;
     Ma quello omo bestiale ed inumano
     Ch’era nascoso in guardia de la dama,
     Come lo vide, uscì de quel macchione,
     E imbraccia il scudo ed impugna il bastone.

5   Era quel scudo tutto de una scorza
     Ben atto a sostenire ogni percossa,
     Né dubbio è che se piega o che se torza,
     Perché de un gran palmo egli era grossa.
     Omo non ave mai cotanta forza,
     Cavalliero, o gigante di gran possa,
     Quanto ha quello omo rigido e selvaggio:
     Ma non cognosce a zuffa alcun vantaggio.

6   Abita in bosco sempre, alla verdura,
     Vive de frutti e beve al fiume pieno;
     E dicesi ch’egli ha cotal natura,
     Che sempre piange, quando è il cel sereno,
     Perché egli ha del mal tempo alor paura,
     E che ’l caldo del sol li venga meno;
     Ma quando pioggia e vento il cel saetta,
     Alor sta lieto, ché ’l bon tempo aspetta.

7   Vene questo omo adosso a Brandimarte,
     Col scudo in braccio e la maza impugnata;
     Non ha di guerra lui senno né arte,
     Ma legerezza e forza smisurata.
     Non era il baron vòlto in quella parte,
     Ma là dove la dama era legata;
     E se lei forse non se ne avedia,
     Quello improviso adosso li giongia.

8   De ciò non se era Brandimarte accorto,
     Ma quella dama, che ’l vide venire,
     Cridò: - Guârti, baron, che tu sei morto! -
     Non se ebbe il cavalliero a sbigotire;
     E più d’esso la dama ebbe sconforto
     Che di se stessa, né del suo morire,
     Perché con tutto il cor tanto lo amava
     Che, sé scordando, sol di lui pensava.

9   Presto voltosse il barone animoso
     E se ricolse ad ottimo governo;
     E quando vide quel brutto peloso,
     Beffandolo fra sé, ne fie’ gran scherno;
     E stette assai sospeso e dubbïoso
     Se questo era omo o spirto dello inferno;
     Ma sia quel che esser voglia, e’ non ne cura,
     E vallo a ritrovar senza paura.

10 A prima gionta il salvatico fiero
     Menò sua mazza, che cotanto pesa,
     E gionse sopra il scudo al cavalliero,
     Che ben stava coperto in sua diffesa;
     E come quel che è scorto a tal mestiero,
     Taglia quella col brando alla distesa.
     Come lui vide rotta la sua mazza,
     Saltagli adosso e per forza l’abbrazza.

11 E lo tenìa sì stretto e sì serrato,
     Che non puoteva se stesso aiutare.
     Più volte il cavallier se fo provato
     Con ogni forza de sua man campare;
     Ma quanto un fanciulletto adesso nato
     Potrebbe a petto a uno omo contrastare,
     Tanto il selvaggio di estrema possanza
     E di gran forza Brandimarte avanza.

12 Via ne ’l portava e stimavalo tanto
     Quanto fa il lupo la vil pecorella.
     Ora chi odisse il smisurato pianto
     Che facea lamentando la donzella,
     A Dio chiamando aiuto, ad ogni Santo
     In cui sperava, alla Fede novella:
     Chi odisse il pianto e ’l piatoso sermone,
     Ciascuno avria di lei compassïone.

13 Tuttavia quel selvaggio omo il portava;
     Per le braccia a traverso l’avia preso;
     Lui quanto più puotea si dimenava,
     D’ira, de orgoglio e di vergogna acceso;
     Ma quel suo dimenar poco giovava,
     Perché il selvaggio lo tenìa sospeso
     Alto da terra, perché era maggiore,
     Correndo tuttavia con gran furore.

14 Gionse correndo, col barone in braccio,
     Dove era un’alta pietra smisurata;
     Correa nella radice un gran rivaccio,
     Che l’avea da quel canto dirupata,
     Sì che da cima al fondo avea di spaccio
     Seicento braccia la ripa tagliata.
     Quivi il selvaggio ne portò il barone
     Per trabuccarlo giuso a quel vallone.

15 Come fo gionto a l’orlo del gran sasso,
     Via lo lancia da sé senza riguardo;
     Poco mancò che non gionse al fraccasso
     Del dirupo alto il cavallier gagliardo,
     E ben gli fo vicino a men d’un passo.
     Ma presto saltò in piede e non fo tardo;
     Perché egli aveva ancora in mano il brando,
     Verso il selvaggio se ne andò cridando.

16 Quel non aveva scudo né bastone,
     L’uno era rotto, l’altro avea lasciato;
     Corse ad uno olmo e prese un gran troncone,
     E non l’avendo ancor tutto spiccato,
     Brandimarte il ferì sopra al gallone,
     E di gran piaga l’ebbe vulnerato.
     Lui, ch’è orgoglioso ed ha superbia molta,
     Quel troncon lascia ed al baron si volta.

17 Voltasi quel selvaggio furïoso
     A Brandimarte per saltargli adosso;
     Il cavallier col brando sanguinoso,
     Nel voltar che se fie’, l’ebbe percosso;
     Via tagliò un braccio, che è tutto peloso,
     E gionse al busto smisurato e grosso;
     Giù per le coste insieme alla ventraglia
     Tutte col brando ad un colpo gli taglia.

18 Quel non se puote alor più sostenire,
     Cade cridando in su la terra dura;
     E’ non sapea parole proferire,
     Ma facea voce terribile e oscura.
     Quando il barone lo vide morire,
     Quivi lo lascia e più non ne dà cura,
     Anci correndo a quel prato ne andava,
     Dove il destriero e la sua dama stava.

19 Come fu gionto ove era la donzella,
     Di gran letizia non sa che si fare;
     Tienla abbracciata e già non li favella,
     Ché de allegrezza non puotea parlare.
     Or per non far de ciò longa novella,
     Quella disciolse ed ebbe a cavalcare,
     E posesela in groppa, e a lei rivolto
     Parlando andava per quel bosco folto.

20 E l’uno e l’altro insieme racontava,
     Questa come fu tolta dal vecchione
     Che per la selva oscura la portava,
     E come fu poi morto dal leone;
     E così a lei Brandimarte narrava
     De’ tre giganti quella questïone
     Che fatta aveano al prato della fonte,
     E de la dama che portava il conte.

21 E così l’uno e l’altro ragionando
     De lor travaglio e de la lor paura,
     Veniano a ritrovare il conte Orlando.
     Ma ad esso era incontrata altra ventura,
     Qual poi a tempo vi verrò contando;
     Ora al presente poneti la cura
     Ad ascoltar la zuffa e la tenzone
     Che ebbe Ranaldo col franco Grifone.

22 Né so se vi ricorda nel presente,
     Segnor, come io lasciassi quella cosa
     De’ due baron, che nequitosamente
     Facean cruda battaglia e tenebrosa,
     E stimavan la vita per nïente,
     E quello e questo mai non se riposa,
     Né sparma colpi alcun, né si nasconde,
     Ma l’uno l’altro a bon gioco risponde.

23 Tutta la gente quivi se adunava,
     Pedoni e cavallieri a poco a poco;
     Sì ciascun de veder desiderava,
     Che strettamente li bastava il loco.
     Marfisa avanti agli altri riguardava,
     Tutta nel viso rossa come un foco;
     Ma, mentre che mirava, ecco Ranaldo
     Mena un gran colpo furïoso e saldo;

24 E sopra l’elmo gionse de Grifone,
     Ch’era affatato, come aveti odito;
     Se alora avesse gionto un torrïone,
     Sin gioso al fondo l’arebbe partito;
     Ma quello incanto e quella fatasone
     Campò da morte il giovanetto ardito,
     Benché a tal guisa fu del spirto privo,
     Che non moritte e non rimase vivo.

25 Però che, briglia e staffe abandonando,
     Pendea de il suo destriero al destro lato,
     E per il prato strasinava il brando,
     Perché l’aveva al braccio incatenato.
     Quando Aquilante il venne remirando,
     Ben lo credette di vita passato,
     E sospirando di dolore e d’ira
     Verso Ranaldo furïoso tira.

26 Questo era anch’esso figlio de Olivero,
     Come Grifone, e di quel ventre nato,
     Né di lui manco forte né men fiero,
     E come l’altro aponto era fatato:
     L’arme sue, dico, il brando e il bon destriero,
     Benché a contrario fosse divisato,
     Ché questo tutto è nero, e quello è bianco,
     Ma l’un e l’altro a meraviglia è franco.

27 Sì che non fo questo assalto minore,
     Ma più crudele assai ed inumano,
     Perché Aquilante avea molto dolore,
     Credendo essere occiso il suo germano;
     E come disperato a gran furore
     Combattea contra il sir de Montealbano,
     Ferendo ad ambe man con molta fretta,
     Per morir presto o far presto vendetta.

28 Da l’altra parte a Ranaldo parea
     Ricever da costoro a torto ingiuria,
     Però più dello usato combattea
     Terribilmente, acceso in maggior furia;
     Contra sé tutti quanti li vedea,
     E lui soletto non ha chi lo alturia
     Se non Fusberta e il suo core animoso,
     Però combatte irato e furïoso.

29 - Or via, - diceva lui - brutta canaglia!
     Mandati ancor de li altri a ricercare,
     Che vengano a fornir vostra battaglia;
     O venitene insieme, se vi pare,
     Che tutti non vi stimo un fil de paglia.
     Come poteti gli occhi al celo alciare
     De vergogna, o vedere vi lasciati,
     Sendo tra gli altri sì vituperati? -

30 Non respondeva Aquilante nïente,
     Benché egli odisse quel parlar superbo,
     Ma, stringendo de orgoglio dente a dente,
     Con quanta possa aveva e quanto nerbo
     Ferì Ranaldo ne l’elmo lucente
     De un colpo furïoso e tanto acerbo,
     Che Ranaldo le braccia al celo aperse
     Per la gran pena che al colpo sofferse.

31 E se il suo brando non fosse legato
     Al destro braccio, come lui portava,
     Ben li serìa caduto al verde prato.
     Or Rabicano a gran furia ne andava,
     Perché Ranaldo il freno avea lasciato,
     Né dove fosse alor se ricordava;
     Ma di profondo spasmo e di dolore
     Ave perduto lo intelletto e il core.

32 Aquilante, de orgoglio e d’ira pieno,
     Per tutto intorno al campo lo seguìa;
     Ed avea preso al cor tanto veleno,
     Che così volontier morto l’avria,
     Come fosse un pagan, né più né meno.
     Ma ritornò Ranaldo in sua balìa;
     Proprio alor che Aquilante l’avea gionto,
     In sé rivenne vigoroso e pronto.

33 E, ritrovato il brando che avea perso,
     Voltò contra Aquilante il corridore,
     Acceso di furor troppo diverso;
     Con quanta forza mai puote maggiore,
     Lo gionse a mezo l’elmo nel traverso.
     Non valse ad Aquilante il suo valore,
     Né l’arme fatte per incantamento,
     Ché stramortito perse il sentimento.

34 Ranaldo già nïente indugiava,
     Perché era d’ira pieno a quella fiata,
     E l’elmo prestamente li slaciava,
     E ben gli avrebbe la testa tagliata:
     Ma Chiarïone la lancia arrestava,
     Così come era la cosa ordinata;
     Né de lui se accorgendo il fio d’Amone,
     Di traverso il ferì sopra il gallone.

35 Piastra non lo diffese o maglia grossa,
     Ma crudelmente al fianco l’ha ferito.
     Alor che ebbe Ranaldo la percossa,
     Grifone aponto se fo risentito,
     Ch’era stato gran pezzo in molta angossa
     E fuora de intelletto sbalordito;
     Via passò Chiarïon, rotta ha la lancia,
     Ché tenire il destrier non ha possancia.

36 Or, come io dissi, Grifon se risente,
     Alor che via ne andava Chiarïone,
     E non sapea de Aquilante nïente,
     Né de questo altro ancor la questïone,
     Ché mosso non serebbe certamente;
     Ma così come uscì de stordigione,
     Per vendicarse il colpo che avea còlto
     Verso a Ranaldo furïoso è vòlto.

37 Non era ancora il sir de Montealbano
     Aconcio ne l’arcione e rassettato,
     Per quello incontro sì crudo e villano
     Che quasi fuor di sella andò nel prato,
     Quando gionse Grifon col brando in mano;
     Trovandolo improviso e sbarattato,
     Gli donò un colpo orribile e possente:
     Voltosse il fio de Amon come un serpente.

38 Come un serpente per la coda preso,
     Che gonfia il collo e il busto velenoso,
     Cotal Ranaldo, de grand’ira acceso,
     A Grifon se rivolse nequitoso;
     E ben l’avrebbe per terra disteso,
     Tanto menava un colpo furïoso;
     Se non che Chiarïon, ch’era voltato,
     Giongendo sturbò il gioco cominciato.

39 E sopra il braccio destro lo percosse,
     Come ebbe de improviso ad arivare,
     E con tanta ruina lo commosse,
     Che quasi il fece il brando abandonare.
     Pensati se Ranaldo ora adirosse,
     Che perder non vo’ tempo al racontare;
     Forte cridando, giura a Dio divino
     Che tutti non gli stima un vil lupino.

40 E se rivolta contra a Chiarïone,
     E darli morte al tutto è delibrato;
     Ma già per questo non resta Grifone,
     Né il lascia prender lena e trare il fiato.
     Ecco Aquilante ariva alla tenzone,
     Che era de stordigion già ritornato,
     Ma non già al tutto, perché veramente
     Non s’accorgea de gli altri duo nïente:

41 De gli altri duo che, ciascadun più fiero,
     Stanno d’intorno Ranaldo a ferire;
     Ciò non pensa Aquilante, quello altiero,
     Ma sua battaglia destina finire.
     Spronando a gran ruina il suo destriero
     Lascia sopra a Ranaldo un colpo gire
     Tanto feroce, dispietato e crudo,
     Che tagliò tutto per traverso il scudo.

42 Sotto il scudo la piastra del bracciale
     Sopra un cor’ buffalino era guarnita;
     La manica de maglie nulla vale,
     Ché gli fece nel braccio aspra ferita.
     A’ circonstanti ciò parea gran male;
     Sopra a gli altri Marfisa, quella ardita,
     Va correndo, ché apena ritenuto
     Se era sin ora di donargli aiuto.

43 Onde se mosse lui con la regina
     Che di prodezza al mondo non ha pare.
     Qual vento, qual tempesta di marina
     Se puote al gran furore equiperare?
     Quando Marfisa mosse con ruina,
     Parea che e monti avessero a cascare,
     E’ fiumi andasser nello inferno al basso,
     Ardendo l’aria e il celo a gran fraccasso.

44 A quel furor terribil e diverso
     Serebbe tutto il mondo sbigotito;
     Per ciò non ha Grifon l’animo perso,
     Né il suo german, che fo cotanto ardito;
     Ma ciascun de gli altri ha il cor summerso
     Quando vider colei sopra a quel sito,
     Qual con tal furia nel giorno davanti
     Gli avea cacciati e rotti tutti quanti.

45 Venner contra Marfisa e duo germani,
     Ciascun di lor se stringe, il scudo imbraccia;
     E il pro’ Ranaldo, solo in su quei piani,
     Al re Adrïano e a Chiarïon minaccia;
     E fôr Torindo ed Oberto alle mani,
     Ben che ferito è Oberto nella faccia.
     Trufaldin sta da parte e pone mente,
     Come avesse de questo a far nïente.

46 L’una e poi l’altra zuffa voglio dire,
     Perché in tre lochi a un tempo se travaglia,
     E il rumore è sì grande ed il ferire
     E il spezzar delle piastre e della maglia,
     Che apena se potrebbe il trono odire.
     Or, cominciando alla prima battaglia,
     Grifone ed Aquilante alla frontera
     Tolsero in mezo la regina fiera.

47 Lei, come una leonza che di pare
     Se veggia in mezo a duo cervi arivata,
     Che ad ambo ha il core e non sa che si fare,
     Ma batte i denti, e quello e questo guata;
     Cotal Marfisa se vedea mirare,
     Adosso l’uno e l’altro inanimata,
     Sol dubitando la regina forte
     A cui prima donar debba la morte.

48 Ma star sospesa non li fa mestiero,
     Ché ben gli diè Grifone altro pensare;
     Ad ambe mani il giovanetto fiero
     Un colpo smisurato lasciò andare.
     Il drago, che ha la dama per cimiero,
     Fece in due parte alla terra callare;
     Non fo Marfisa per quel colpo mossa,
     Benché sentisse al capo gran percossa.

49 Verso Grifon turbata un colpo mena,
     Con quel gran brando che ha tronca la ponta;
     Ma non è verso lui voltata apena,
     Che nel collo Aquilante l’ebbe gionta.
     Pensati or se ella rode la catena,
     E se a tal cosa prese sdegno ed onta,
     Perché quel colpo orribile e improviso
     Batter li fece contra a l’elmo il viso.

50 E gli uscì il sangue da’ denti e dal naso,
     Che non gli avvenne in battaglia più mai.
     Dricciandosi cridò: - Giotton malvaso,
     Se tu sapesti quel che tu non sai,
     Voresti nel girone esser rimaso:
     Or vo’ che sappi che tu morirai
     Per le mie mane, e non è in celo Iddio
     Che te possa campar dal furor mio. -

51 Mentre che ella braveggia a suo volere,
     Non ha il franco Grifone il tempo perso,
     Ma con ogni sua forza e suo potere
     In fronte la ferì de un gran riverso.
     Io non sapria cantando far vedere
     Di lei lo assalto orribile e diverso,
     Ché, non curando più la sua persona,
     Verso Aquilante tutta se abandona.

52 Ferì con tal superbia la adirata,
     Con tal ruina e con furor cotanto,
     Che, se non fosse la piastra incantata,
     Fesso l’avria per mezzo tutto quanto.
     Dicea il franco Grifon: - Cagna rabbiata,
     Tu non te donarai al mondo il vanto
     Che promisso hai, de occider mio germano:
     Ma serà tuo zanzar bugiardo e vano. -

53 Così dicendo la ferì del brando
     Con gran tempesta ne l’elmo lucente.
     Or, bei segnori, a Dio ve racomando,
     Perché finito è il mio dire al presente;
     E, se tornati, verrovi contando
     Questa battaglia nel canto sequente,
     Qual fo tra gente di cotanto ardire,
     Che ve fia gran diletto odendol dire.