[St. 47-50] |
libro i. canto xxiii |
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Lei, come una leonza che di pare
Se veggia in mezo a duo cervi arivata,
Che ad ambo ha il core e non scia che si fare,
Ma batte i denti, e quello e questo guata;
Cotal Marfisa se vedea mirare,
Adosso l’uno e l’altro inanimata,
Sol dubitando la regina forte
A cui prima donar debba la morte.
Ma star sospesa non li fa mestiero,
Chè ben gli diè Grifone altro pensare;
Ad ambe mani il giovanetto fiero
Un colpo smisurato lasciò andare.
Il drago, che ha la dama per cimiero,
Fece in due parte alla terra callare;
Non fo Marfisa per quel colpo mossa,
Benchè sentisse al capo gran percossa.
Verso Grifon turbata un colpo mena,
Con quel gran brando che ha tronca la ponta;
Ma non è verso lui voltata apena,
Che nel collo Aquilante l’ebbe gionta.
Pensati or se ella rode la catena,
E se a tal cosa prese sdegno et onta,
Perchè quel colpo orribile e improviso
Batter li fece contra a l’elmo il viso.
E gli uscì il sangue da’ denti e dal naso,
Che non gli advenne in battaglia più mai.
Dricciandosi cridò: Giotton malvaso,
Se tu sapesti quel che tu non sciai,
Voresti nel girone esser rimaso:
Or vo’ che sappi che tu morirai
Per le mie mane, e non è in celo Iddio
Che te possa campar dal furor mio.