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[St. 23-26] libro i. canto xxiii 407

         Tutta la gente quivi se adunava,
     Pedoni e cavallieri a poco a poco;
     Sì ciascun de veder desiderava,
     Che strettamente li bastava il loco.
     Marfisa avanti agli altri riguardava,
     Tutta nel viso rossa come un foco;
     Ma, mentre che mirava, ecco Ranaldo
     Mena un gran colpo furïoso e saldo;

         E sopra l’elmo gionse de Grifone,
     Ch’era affatato, come aveti odito;
     Se alora avesse gionto un torrïone,
     Sin gioso al fondo l’arebbe partito;
     Ma quello incanto e quella fatasone
     Campò da morte il giovanetto ardito,
     Benchè a tal guisa fu del spirto privo,
     Che non moritte e non rimase vivo.

         Però che, briglia e staffe abandonando,
     Pendea de il suo destriero al destro lato,
     E per il prato strasinava il brando,
     Perchè l’aveva al braccio incatenato.
     Quando Aquilante il venne remirando,
     Ben lo credette di vita passato,1
     E sospirando di dolore e d’ira
     Verso Ranaldo furïoso tira.

         Questo era anch’esso figlio de Olivero,
     Come Grifone, e di quel ventre nato,
     Nè di lui manco forte, nè men fiero,
     E come l’altro aponto era fatato:
     L’arme sue, dico, il brando e il bon destriero,
     Benchè a contrario fosse divisato,
     Chè questo tutto è nero, e quello è bianco,
     Ma l’un e l’altro a meraviglia è franco.2

  1. Mr. credette haver di.
  2. T., Ml. e P. l’uno.