Orlando furioso (1928)/Canto 12

Canto duodecimo

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Canto 11 Canto 13

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CANTO DUODECIMO

1
     Cerere, poi che da la madre Idea
tornando in fretta alla solinga valle,
lá dove calca la montagna Etnea
al fulminato Encelado le spalle,
la figlia non trovò dove l’avea
lasciata fuor d’ogni segnato calle;
fatto ch’ebbe alle guancie, al petto, ai crini
e agli occhi danno, al fin svelse duo pini;

2
     e nel fuoco gli accese di Vulcano,
e diè lor non potere esser mai spenti:
e portandosi questi uno per mano
sul carro che tiravan dui serpenti,
cercò le selve, i campi, il monte, il piano,
le valli, i fiumi, li stagni, i torrenti,
la terra e ’l mare; e poi che tutto il mondo
cercò di sopra, andò al tartareo fondo.

3
     S’in poter fosse stato Orlando pare
all’Eleusina dea, come in disio,
non avria, per Angelica cercare,
lasciato o selva o campo o stagno o rio
o valle o monte o piano o terra o mare,
il cielo, e ’l fondo de l’eterno oblio;
ma poi che ’l carro e i draghi non avea,
la gía cercando al meglio che potea.

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4
     L’ha cercata per Francia: or s’apparecchia
per Italia cercarla e per Lamagna,
per la nuova Castiglia e per la vecchia,
e poi passare in Libia il mar di Spagna.
Mentre pensa cosí, sente all’orecchia
una voce venir, che par che piagna:
si spinge inanzi; e sopra un gran destriero
trottar si vede inanzi un cavalliero,

5
     che porta in braccio e su l’arcion davante
per forza una mestissima donzella.
Piange ella e si dibatte e fa sembiante
di gran dolore, et in soccorso appella
il valoroso principe d’Anglante;
che come mira alla giovane bella,
gli par colei, per cui la notte e il giorno
cercato Francia avea dentro e d’intorno.

6
     Non dico ch’ella fosse, ma parea
Angelica gentil ch’egli tant’ama.
Egli, che la sua donna e la sua dea
vede portar sí addolorata e grama,
spinto da l’ira e da la furia rea,
con voce orrenda il cavallier richiama;
richiama il cavalliero e gli minaccia,
e Brigliadoro a tutta briglia caccia.

7
     Non resta quel fellon, né gli risponde,
all’alta preda, al gran guadagno intento,
e sí ratto ne va per quelle fronde,
che saria tardo a seguitarlo il vento.
L’un fugge, e l’altro caccia; e le profonde
selve s’odon sonar d’alto lamento.
Correndo usciro in un gran prato; e quello
avea nel mezzo un grande e ricco ostello.

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8
     Di vari marmi con suttil lavoro
edificato era il palazzo altiero.
Corse dentro alla porta messa d’oro
con la donzella in braccio il cavalliero.
Dopo non molto giunse Brigliadoro,
che porta Orlando disdegnoso e fiero.
Orlando, come è dentro, gli occhi gira;
né piú il guerrier, né la donzella mira.

9
     Subito smonta, e fulminando passa
dove piú dentro il bel tetto s’alloggia:
corre di qua, corre di lá, né lassa
che non vegga ogni camera, ogni loggia.
Poi che i segreti d’ogni stanza bassa
ha cerco invan, su per le scale poggia;
e non men perde anco a cercar di sopra,
che perdessi di sotto, il tempo e l’opra.

10
     D’oro e di seta i letti ornati vede:
nulla de muri appar né de pareti;
che quelle, e il suolo ove si mette il piede,
son da cortine ascose e da tapeti.
Di su di giú va il conte Orlando e riede;
né per questo può far gli occhi mai lieti
che riveggiano Angelica, o quel ladro
che n’ha portato il bel viso leggiadro.

11
     E mentre or quinci or quindi invano il passo
movea, pien di travaglio e di pensieri,
Ferraú, Brandimarte e il re Gradasso,
re Sacripante et altri cavallieri
vi ritrovò, ch’andavano alto e basso,
né men facean di lui vani sentieri;
e si ramaricavan del malvagio
invisibil signor di quel palagio.

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12
     Tutti cercando il van, tutti gli dánno
colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:
del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;
altri d’altro l’accusa: e cosí stanno,
che non si san partir di quella gabbia;
e vi son molti, a questo inganno presi,
stati le settimane intiere e i mesi.

13
     Orlando, poi che quattro volte e sei
tutto cercato ebbe il palazzo strano,
disse fra sé: — Qui dimorar potrei,
gittare il tempo e la fatica invano:
e potria il ladro aver tratta costei
da un’altra uscita, e molto esser lontano. —
Con tal pensiero uscí nel verde prato,
dal qual tutto il palazzo era aggirato.

14
     Mentre circonda la casa silvestra,
tenendo pur a terra il viso chino,
per veder s’orma appare, o da man destra
o da sinistra, di nuovo camino;
si sente richiamar da una finestra:
e leva gli occhi; e quel parlar divino
gli pare udire, e par che miri il viso,
che l’ha da quel che fu, tanto diviso.

15
     Pargli Angelica udir, che supplicando
e piangendo gli dica: — Aita, aita!
la mia virginitá ti raccomando
piú che l’anima mia, piú che la vita.
Dunque in presenzia del mio caro Orlando
da questo ladro mi sará rapita?
Piú tosto di tua man dammi la morte,
che venir lasci a sí infelice sorte. —

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16
     Queste parole una et un’altra volta
fanno Orlando tornar per ogni stanza,
con passione e con fatica molta,
ma temperata pur d’alta speranza.
Talor si ferma, et una voce ascolta,
che di quella d’Angelica ha sembianza
(e s’egli è da una parte, suona altronde),
che chieggia aiuto; e non sa trovar donde.

17
     Ma tornando a Ruggier, ch’io lasciai quando
dissi che per sentiero ombroso e fosco
il gigante e la donna seguitando,
in un gran prato uscito era del bosco;
io dico ch’arrivò qui dove Orlando
dianzi arrivò, se ’l loco riconosco.
Dentro la porta il gran gigante passa:
Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa.

18
     Tosto che pon dentro alla soglia il piede,
per la gran corte e per le loggie mira;
né piú il gigante né la donna vede,
e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira.
Di su di giú va molte volte e riede;
né gli succede mai quel che desira:
né si sa imaginar dove sí tosto
con la donna il fellon si sia nascosto.

19
     Poi che revisto ha quattro volte e cinque
di su di giú camere e loggie e sale,
pur di nuovo ritorna, e non relinque
che non ne cerchi fin sotto le scale.
Con speme al fin che sian ne le propinque
selve, si parte: ma una voce, quale
richiamò Orlando, lui chiamò non manco;
e nel palazzo il fe’ ritornar anco.

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20
     Una voce medesma, una persona
che paruta era Angelica ad Orlando,
parve a Ruggier la donna di Dordona,
che lo tenea di sé medesmo in bando.
Se con Gradasso o con alcun ragiona
di quei ch’andavan nel palazzo errando,
a tutti par che quella cosa sia,
che piú ciascun per sé brama e desia.

21
     Questo era un nuovo e disusato incanto
ch’avea composto Atlante di Carena,
perché Ruggier fosse occupato tanto
in quel travaglio, in quella dolce pena,
che ’l mal’influsso n’andasse da canto,
l’influsso ch’a morir giovene il mena.
Dopo il castel d’acciar, che nulla giova,
e dopo Alcina, Atlante ancor fa pruova.

22
     Non pur costui, ma tutti gli altri ancora,
che di valore in Francia han maggior fama,
acciò che di lor man Ruggier non mora,
condurre Atlante in questo incanto trama.
E mentre fa lor far quivi dimora,
perché di cibo non patischin brama,
sí ben fornito avea tutto il palagio,
che donne e cavallier vi stanno ad agio.

23
     Ma torniamo ad Angelica, che seco
avendo quell’annel mirabil tanto,
ch’in bocca a veder lei fa l’occhio cieco,
nel dito, l’assicura da l’incanto;
e ritrovato nel montano speco
cibo avendo e cavalla e veste e quanto
le fu bisogno, avea fatto il disegno
di ritornare in India al suo bel regno.

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24
     Orlando volentieri o Sacripante
voluto avrebbe in compagnia: non ch’ella
piú caro avesse l’un che l’altro amante;
anzi di par fu a’ lor disii ribella:
ma dovendo, per girsene in Levante,
passar tante cittá, tante castella,
di compagnia bisogno avea e di guida,
né potea aver con altri la piú fida.

25
     Or l’uno or l’altro andò molto cercando,
prima ch’indizio ne trovasse o spia,
quando in cittade, e quando in ville, e quando
in alti boschi, e quando in altra via.
Fortuna al fin lá dove il conte Orlando,
Ferraú e Sacripante era, la invia,
con Ruggier, con Gradasso et altri molti
che v’avea Atlante in strano intrico avolti.

26
     Quivi entra, che veder non la può il mago,
e cerca il tutto, ascosa dal suo annello;
e truova Orlando e Sacripante vago
di lei cercare invan per quello ostello.
Vede come, fingendo la sua imago,
Atlante usa gran fraude a questo e a quello.
Chi tor debba di lor, molto rivolve
nel suo pensier, né ben se ne risolve.

27
     Non sa stimar chi sia per lei migliore,
il conte Orlando o il re dei fier Circassi.
Orlando la potrá con piú valore
meglio salvar nei perigliosi passi:
ma se sua guida il fa, sel fa signore;
ch’ella non vede come poi l’abbassi,
qualunque volta, di lui sazia, farlo
voglia minore, o in Francia rimandarlo.

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28
     Ma il Circasso depor, quando le piaccia,
potrá, se ben l’avesse posto in cielo.
Questa sola cagion vuol ch’ella il faccia
sua scorta, e mostri avergli fede e zelo.
L’annel trasse di bocca, e di sua faccia
levò dagli occhi a Sacripante il velo.
Credette a lui sol dimostrarsi, e avenne
ch’Orlando e Ferraú le sopravenne.

29
     Le sopravenne Ferraú et Orlando;
che l’uno e l’altro parimente giva
di su di giú, dentro e di fuor cercando
del gran palazzo lei, ch’era lor diva.
Corser di par tutti alla donna, quando
nessuno incantamento gli impediva:
perché l’annel ch’ella si pose in mano,
fece d’Atlante ogni disegno vano.

30
     L’usbergo indosso aveano e l’elmo in testa
dui di questi guerrier, dei quali io canto;
né notte o dí, dopo ch’entraro in questa
stanza, l’aveano mai messi da canto;
che facile a portar, come la vesta,
era lor, perché in uso l’avean tanto.
Ferraú il terzo era anco armato, eccetto
che non avea, né volea avere elmetto,

31
     fin che quel non avea, che ’l paladino
tolse Orlando al fratel del re Troiano;
ch’allora lo giurò, che l’elmo fino
cercò de l’Argalia nel fiume invano:
e se ben quivi Orlando ebbe vicino,
né però Ferraú pose in lui mano;
avenne, che conoscersi tra loro
non si potêr, mentre lá dentro fôro.

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32
     Era cosí incantato quello albergo,
ch’insieme riconoscer non poteansi.
Né notte mai né dí, spada né usbergo
né scudo pur dal braccio rimoveansi.
I lor cavalli con la sella al tergo,
pendendo i morsi da l’arcion, pasceansi
in una stanza, che presso all’uscita,
d’orzo e di paglia sempre era fornita.

33
     Atlante riparar non sa né puote,
ch’in sella non rimontino i guerrieri
per correr dietro alle vermiglie gote,
all’auree chiome et a’ begli occhi neri
de la donzella, ch’in fuga percuote
la sua iumenta, perché volentieri
non vede li tre amanti in compagnia,
che forse tolti un dopo l’altro avria.

34
     E poi che dilungati dal palagio
gli ebbe sí, che temer piú non dovea
che contra lor l’incantator malvagio
potesse oprar la sua fallacia rea;
l’annel, che le schivò piú d’un disagio,
tra le rosate labra si chiudea:
donde lor sparve subito dagli occhi,
e gli lasciò come insensati e sciocchi.

35
     Come che fosse il suo primier disegno
di voler seco Orlando o Sacripante,
ch’a ritornar l’avessero nel regno
di Galafron ne l’ultimo Levante;
le vennero amendua subito a sdegno,
e si mutò di voglia in uno instante:
e senza piú obligarsi o a questo o a quello,
pensò bastar per amendua il suo annello.

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36
     Volgon pel bosco or quinci or quindi in fretta
quelli scherniti la stupida faccia;
come il cane talor, se gli è intercetta
o lepre o volpe a cui dava la caccia,
che d’improviso in qualche tana stretta
o in folta macchia o in un fosso si caccia.
Di lor si ride Angelica proterva,
che non è vista, e i lor progressi osserva.

37
     Per mezzo il bosco appar sol una strada:
credono i cavallier che la donzella
inanzi a lor per quella se ne vada;
che non se ne può andar, se non per quella.
Orlando corre, e Ferraú non bada,
né Sacripante men sprona e puntella.
Angelica la briglia piú ritiene,
e dietro lor con minor fretta viene.

38
     Giunti che fur, correndo, ove i sentieri
a perder si venian ne la foresta,
e cominciâr per l’erba i cavallieri
a riguardar se vi trovavan pesta;
Ferraú, che potea fra quanti altieri
mai fosser, gir con la corona in testa,
si volse con mal viso agli altri dui,
e gridò lor: — Dove venite vui?

39
     Tornate a dietro, o pigliate altra via,
se non volete rimaner qui morti:
né in amar né in seguir la donna mia
si creda alcun, che compagnia comporti. —
Disse Orlando al Circasso: — Che potria
piú dir costui, s’ambi ci avesse scorti
per le piú vili e timide puttane
che da conocchie mai traesser lane? —

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40
     Poi volto a Ferraú, disse: — Uom bestiale,
s’io non guardassi che senza elmo sei,
di quel c’hai detto, s’hai ben detto o male,
senz’altra indugia accorger ti farei. —
Disse il Spagnuol: — Di quel ch’a me non cale,
perché pigliarne tu cura ti déi?
Io sol contra ambidui per far son buono
quel che detto ho, senza elmo come sono. —

41
     — Deh (disse Orlando al re di Circassia),
in mio servigio a costui l’elmo presta,
tanto ch’io gli abbia tratta la pazzia;
ch’altra non vidi mai simile a questa. —
Rispose il re: — Chi piú pazzo saria?
Ma se ti par pur la domanda onesta,
prestagli il tuo; ch’io non sarò men atto,
che tu sia forse, a castigare un matto. —

42
     Suggiunse Ferraú: — Sciocchi voi, quasi
che, se mi fosse il portar elmo a grado,
voi senza non ne fosse giá rimasi;
che tolti i vostri avrei, vostro mal grado.
Ma per narrarvi in parte li miei casi,
per voto cosí senza me ne vado,
et anderò, fin ch’io non ho quel fino
che porta in capo Orlando paladino. —

43
     — Dunque (rispose sorridendo il conte)
ti pensi a capo nudo esser bastante
far ad Orlando quel che in Aspramonte
egli giá fece al figlio d’Agolante?
Anzi credo io, se tel vedessi a fronte,
ne tremeresti dal capo alle piante;
non che volessi l’elmo, ma daresti
l’altre arme a lui di patto, che tu vesti. —

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44
     Il vantator Spagnuol disse: — Giá molte
fïate e molte ho cosí Orlando astretto,
che facilmente l’arme gli avrei tolte,
quante indosso n’avea, non che l’elmetto;
e s’io nol feci, occorrono alle volte
pensier che prima non s’aveano in petto:
non n’ebbi, giá fu, voglia; or l’aggio, e spero
che mi potrá succeder di leggiero. —

45
     Non poté aver piú pazïenzia Orlando,
e gridò: — Mentitor, brutto marrano,
in che paese ti trovasti, e quando,
a poter piú di me con l’arme in mano?
Quel paladin, di che ti vai vantando,
son io, che ti pensavi esser lontano.
Or vedi se tu puoi l’elmo levarme,
o s’io son buon per tôrre a te l’altre arme.

46
     Né da te voglio un minimo vantaggio. —
Cosí dicendo, l’elmo si disciolse,
e lo suspese a un ramuscel di faggio;
e quasi a un tempo Durindana tolse.
Ferraú non perdé di ciò il coraggio:
trasse la spada, e in atto si raccolse,
onde con essa e col levato scudo
potesse ricoprirsi il capo nudo.

47
     Cosí li duo guerrieri incominciaro,
lor cavalli aggirando, a volteggiarsi;
e dove l’arme si giungeano, e raro
era piú il ferro, col ferro a tentarsi.
Non era in tutto ’l mondo un altro paro
che piú di questo avessi ad accopiarsi:
pari eran di vigor, pari d’ardire;
né l’un né l’altro si potea ferire.

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48
     Ch’abbiate, Signor mio, giá inteso estimo,
che Ferraú per tutto era fatato,
fuor che lá dove l’alimento primo
piglia il bambin nel ventre ancor serrato:
e fin che del sepolcro il tetro limo
la faccia gli coperse, il luogo armato
usò portar, dove era il dubbio, sempre
di sette piastre fatte a buone tempre.

49
     Era ugualmente il principe d’Anglante
tutto fatato, fuor che in una parte:
ferito esser potea sotto le piante;
ma le guardò con ogni studio et arte.
Duro era il resto lor piú che diamante
(se la fama dal ver non si diparte);
e l’uno e l’altro andò, piú per ornato
che per bisogno, alle sue imprese armato.

50
     S’incrudelisce e inaspra la battaglia,
d’orrore in vista e di spavento piena.
Ferraú, quando punge e quando taglia,
né mena botta che non vada piena:
ogni colpo d’Orlando o piastra o maglia
e schioda e rompe et apre e a straccio mena.
Angelica invisibil lor pon mente,
sola a tanto spettacolo presente.

51
     Intanto il re di Circassia, stimando
che poco inanzi Angelica corresse,
poi ch’attaccati Ferraú et Orlando
vide restar, per quella via si messe,
che si credea che la donzella, quando
da lor disparve, seguitata avesse:
sí che a quella battaglia la figliuola
di Galafron fu testimonia sola.

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52
     Poi che, orribil come era e spaventosa,
l’ebbe da parte ella mirata alquanto,
e che le parve assai pericolosa
cosí da l’un come da l’altro canto;
di veder novitá voluntarosa,
disegnò l’elmo tor, per mirar quanto
fariano i duo guerrier, vistosel tolto;
ben con pensier di non tenerlo molto.

53
     Ha ben di darlo al conte intenzïone;
ma se ne vuole in prima pigliar gioco.
L’elmo dispicca, e in grembio se lo pone,
e sta a mirare i cavallieri un poco.
Di poi si parte, e non fa lor sermone;
e lontana era un pezzo da quel loco,
prima ch’alcun di lor v’avesse mente:
sí l’uno e l’altro era ne l’ira ardente.

54
     Ma Ferraú, che prima v’ebbe gli occhi,
si dispiccò da Orlando, e disse a lui:
— Deh come n’ha da male accorti e sciocchi
trattati il cavallier ch’era con nui!
Che premio fia ch’al vincitor piú tocchi,
se ’l bel elmo involato n’ha costui? —
Ritrassi Orlando, e gli occhi al ramo gira:
non vede l’elmo, e tutto avampa d’ira.

55
     E nel parer di Ferraú concorse,
che ’l cavallier che dianzi era con loro
se lo portasse; onde la briglia torse,
e fe’ sentir gli sproni a Brigliadoro.
Ferraú che del campo il vide tôrse,
gli venne dietro; e poi che giunti fôro
dove ne l’erba appar l’orma novella
ch’avea fatto il Circasso e la donzella;

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56
     prese la strada alla sinistra il conte
verso una valle, ove il Circasso era ito:
si tenne Ferraú piú presso al monte,
dove il sentiero Angelica avea trito.
Angelica in quel mezzo ad una fonte
giunta era, ombrosa e di giocondo sito,
ch’ognun che passa, alle fresche ombre invita,
né, senza ber, mai lascia far partita.

57
     Angelica si ferma alle chiare onde,
non pensando ch’alcun le sopravegna;
e per lo sacro annel che la nasconde,
non può temer che caso rio le avegna.
A prima giunta in su l’erbose sponde
del rivo l’elmo a un ramuscel consegna;
poi cerca, ove nel bosco è miglior frasca,
la iumenta legar, perché si pasca.

58
     Il cavallier di Spagna, che venuto
era per l’orme, alla fontana giunge.
Non l’ha sí tosto Angelica veduto,
che gli dispare, e la cavalla punge.
L’elmo, che sopra l’erba era caduto,
ritor non può, che troppo resta lunge.
Come il pagan d’Angelica s’accorse,
tosto vêr lei pien di letizia corse.

59
     Gli sparve, come io dico, ella davante,
come fantasma al dipartir del sonno.
Cercando egli la va per quelle piante,
né i miseri occhi piú veder la ponno.
Bestemiando Macone e Trivigante,
e di sua legge ogni maestro e donno,
ritornò Ferraú verso la fonte,
u’ ne l’erba giacea l’elmo del conte.

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60
     Lo riconobbe, tosto che mirollo,
per lettere ch’avea scritte ne l’orlo;
che dicean dove Orlando guadagnollo,
e come e quando, et a chi fe’ deporlo.
Armossene il pagano il capo e il collo,
che non lasciò, pel duol ch’avea, di tôrlo;
pel duol ch’avea di quella che gli sparve,
come sparir soglion notturne larve.

61
     Poi ch’allacciato s’ha il buon elmo in testa,
aviso gli è, che a contentarsi a pieno,
sol ritrovare Angelica gli resta,
che gli appar e dispar come baleno.
Per lei tutta cercò l’alta foresta:
e poi ch’ogni speranza venne meno
di piú poterne ritrovar vestigi,
tornò al campo spagnuol verso Parigi;

62
     temperando il dolor che gli ardea il petto,
di non aver sí gran disir sfogato,
col refrigerio di portar l’elmetto
che fu d’Orlando, come avea giurato.
Dal conte, poi che ’l certo gli fu detto,
fu lungamente Ferraú cercato;
né fin quel dí dal capo gli lo sciolse,
che fra duo ponti la vita gli tolse.

63
     Angelica invisibile e soletta
via se ne va, ma con turbata fronte;
che de l’elmo le duol, che troppa fretta
le avea fatto lasciar presso alla fonte.
— Per voler far quel ch’a me far non spetta
(tra sé dicea), levato ho l’elmo al conte:
questo, pel primo merito, è assai buono
di quanto a lui pur ubligata sono.

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64
     Con buona intenzione (e sallo Idio),
ben che diverso e tristo effetto segua,
io levai l’elmo: e solo il pensier mio
fu di ridur quella battaglia a triegua;
e non che per mio mezzo il suo disio
questo brutto Spagnuol oggi consegua. —
Cosí di sé s’andava lamentando
d’aver de l’elmo suo privato Orlando.

65
     Sdegnata e malcontenta la via prese,
che le parea miglior, verso Orïente.
Piú volte ascosa andò, talor palese,
secondo era oportuno, infra la gente.
Dopo molto veder molto paese,
giunse in un bosco, dove iniquamente
fra duo compagni morti un giovinetto
trovò, ch’era ferito in mezzo il petto.

66
     Ma non dirò d’Angelica or piú inante;
che molte cose ho da narrarvi prima:
né sono a Ferraú né a Sacripante,
sin a gran pezzo per donar piú rima.
Da lor mi leva il principe d’Anglante,
che di sé vuol che inanzi agli altri esprima
le fatiche e gli affanni che sostenne
nel gran disio, di che a fin mai non venne.

67
     Alla prima cittá ch’egli ritruova
(perché d’andare occulto avea gran cura)
si pone in capo una barbuta nuova,
senza mirar s’ha debil tempra o dura:
sia qual si vuol, poco gli nuoce o giova;
sí ne la fatagion si rassicura.
Cosí coperto, séguita l’inchiesta;
né notte, o giorno, o pioggia, o sol l’arresta.

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68
     Era ne l’ora, che traea i cavalli
Febo del mar con rugiadoso pelo,
e l’Aurora di fior vermigli e gialli
venía spargendo d’ogn’intorno il cielo;
e lasciato le stelle aveano i balli,
e per partirsi postosi giá il velo;
quando appresso a Parigi un dí passando,
mostrò di sua virtú gran segno Orlando.

69
     In dua squadre incontrossi: e Manilardo
ne reggea l’una, il Saracin canuto,
re di Norizia, giá fiero e gagliardo,
or miglior di consiglio che d’aiuto;
guidava l’altra sotto il suo stendardo
il re di Tremisen, ch’era tenuto
tra gli Africani cavallier perfetto;
Alzirdo fu, da chi ’l conobbe, detto.

70
     Questi con l’altro esercito pagano
quella invernata avean fatto soggiorno,
chi presso alla cittá, chi piú lontano,
tutti alle ville o alle castella intorno:
ch’avendo speso il re Agramante invano,
per espugnar Parigi, piú d’un giorno,
volse tentar l’assedio finalmente,
poi che pigliar non lo potea altrimente.

71
     E per far questo avea gente infinita;
che oltre a quella che con lui giunt’era,
e quella che di Spagna avea seguita
del re Marsilio la real bandiera,
molta di Francia n’avea al soldo unita;
che da Parigi insino alla riviera
d’Arli, con parte di Guascogna (eccetto
alcune ròcche) avea tutto suggetto.

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72
     Or cominciando i trepidi ruscelli
a sciorre il freddo giaccio in tiepide onde,
e i prati di nuove erbe, e gli arbuscelli
a rivestirsi di tenera fronde;
ragunò il re Agramante tutti quelli
che seguian le fortune sue seconde,
per farsi rassegnar l’armata torma;
indi alle cose sue dar miglior forma.

73
     A questo effetto il re di Tremisenne
con quel de la Norizia ne venía,
per lá giungere a tempo, ove si tenne
poi conto d’ogni squadra o buona o ria.
Orlando a caso ad incontrar si venne
(come io v’ho detto) in questa compagnia,
cercando pur colei, come egli era uso,
che nel carcer d’Amor lo tenea chiuso.

74
     Come Alzirdo appressar vide quel conte
che di valor non avea pari al mondo,
in tal sembiante, in sí superba fronte,
che ’l dio de l’arme a lui parea secondo;
restò stupito alle fattezze conte,
al fiero sguardo, al viso furibondo:
e lo stimò guerrier d’alta prodezza;
ma ebbe del provar troppa vaghezza.

75
     Era giovane Alzirdo, et arrogante
per molta forza, e per gran cor pregiato.
Per giostrar spinse il suo cavallo inante:
meglio per lui, se fosse in schiera stato;
che ne lo scontro il principe d’Anglante
lo fe’ cader per mezzo il cor passato.
Giva in fuga il destrier di timor pieno;
che su non v’era chi reggesse il freno.

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76
     Levasi un grido subito et orrendo,
che d’ogn’intorno n’ha l’aria ripiena,
come si vede il giovene, cadendo,
spicciar il sangue di sí larga vena.
La turba verso il conte vien fremendo
disordinata, e tagli e punte mena;
ma quella è piú, che con pennuti dardi
tempesta il fior dei cavallier gagliardi.

77
     Con qual rumor la setolosa frotta
correr da monti suole o da campagne,
se ’l lupo uscito di nascosa grotta,
o l’orso sceso alle minor montagne,
un tener porco preso abbia talotta,
che con grugnito e gran stridor si lagne;
con tal lo stuol barbarico era mosso
verso il conte, gridando: — Adosso, adosso! —

78
     Lance, saette e spade ebbe l’usbergo
a un tempo mille, e lo scudo altretante:
chi gli percuote con la mazza il tergo,
chi minaccia da lato, e chi davante.
Ma quel, ch’al timor mai non diede albergo,
estima la vil turba e l’arme tante,
quel che dentro alla mandra, all’aer cupo,
il numer de l’agnelle estimi il lupo.

79
     Nuda avea in man quella fulminea spada
che posti ha tanti Saracini a morte:
dunque chi vuol di quanta turba cada
tenere il conto, ha impresa dura e forte.
Rossa di sangue giá correa la strada,
capace a pena a tante genti morte;
perché né targa né capel difende
la fatal Durindana, ove discende,

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80
     né vesta piena di cotone, o tele
che circondino il capo in mille vòlti.
Non pur per l’aria gemiti e querele,
ma volan braccia e spalle e capi sciolti.
Pel campo errando va Morte crudele
in molti, varii, e tutti orribil volti;
e tra sé dice: — In man d’Orlando valci
Durindana per cento de mie falci. —

81
     Una percossa a pena l’altra aspetta.
Ben tosto cominciâr tutti a fuggire;
e quando prima ne veniano in fretta
(perch’era sol, credeanselo inghiottire),
non è chi per levarsi de la stretta
l’amico aspetti, e cerchi insieme gire:
chi fugge a piedi in qua, chi colá sprona;
nessun domanda se la strada è buona.

82
     Virtude andava intorno con lo speglio
che fa veder ne l’anima ogni ruga:
nessun vi si mirò, se non un veglio
a cui il sangue l’etá, non l’ardir, sciuga.
Vide costui quanto il morir sia meglio,
che con suo disonor mettersi in fuga:
dico il re di Norizia; onde la lancia
arrestò contro il paladin di Francia.

83
     E la roppe alla penna de lo scudo
del fiero conte, che nulla si mosse.
Egli ch’avea alla posta il brando nudo,
re Manilardo al trapassar percosse.
Fortuna l’aiutò, che ’l ferro crudo
in man d’Orlando al venir giú voltosse:
tirare i colpi a filo ognor non lece;
ma pur di sella stramazzar lo fece.

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84
     Stordito de l’arcion quel re stramazza:
non si rivolge Orlando a rivederlo;
che gli altri taglia, tronca, fende, amazza:
a tutti pare in su le spalle averlo.
Come per l’aria, ove han sí larga piazza,
fuggon li storni da l’audace smerlo,
cosí di quella squadra ormai disfatta
altri cade, altri fugge, altri s’appiatta.

85
     Non cessò pria la sanguinosa spada,
che fu di viva gente il campo vòto.
Orlando è in dubbio a ripigliar la strada,
ben che gli sia tutto il paese noto.
O da man destra o da sinistra vada,
il pensier da l’andar sempre è remoto:
d’Angelica cercar, fuor ch’ove sia,
sempre è in timore, e far contraria via.

86
     Il suo camin (di lei chiedendo spesso)
or per li campi or per le selve tenne:
e sí come era uscito di se stesso,
uscí di strada; e a piè d’un monte venne,
dove la notte fuor d’un sasso fesso
lontan vide un splendor batter le penne.
Orlando al sasso per veder s’accosta,
se quivi fosse Angelica reposta.

87
     Come nel bosco de l’umil ginepre,
o ne la stoppia alla campagna aperta,
quando si cerca la paurosa lepre
per traversati solchi e per via incerta,
si va ad ogni cespuglio, ad ogni vepre,
se per ventura vi fosse coperta;
cosí cercava Orlando con gran pena
la donna sua, dove speranza il mena.

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88
     Verso quel raggio andando in fretta il conte,
giunse ove ne la selva si diffonde
da l’angusto spiraglio di quel monte,
ch’una capace grotta in sé nasconde;
e truova inanzi ne la prima fronte
spine e virgulti, come mura e sponde,
per celar quei che ne la grotta stanno,
da chi far lor cercasse oltraggio e danno.

89
     Di giorno ritrovata non sarebbe,
ma la facea di notte il lume aperta.
Orlando pensa ben quel ch’esser debbe;
pur vuol saper la cosa anco piú certa.
Poi che legato fuor Brigliadoro ebbe,
tacito viene alla grotta coperta;
e fra li spessi rami ne la buca
entra, senza chiamar chi l’introduca.

90
     Scende la tomba molti gradi al basso,
dove la viva gente sta sepolta.
Era non poco spazïoso il sasso
tagliato a punte di scarpelli in volta;
né di luce dïurna in tutto casso,
ben che l’entrata non ne dava molta:
ma ve ne venía assai da una finestra
che sporgea in un pertugio da man destra.

91
     In mezzo la spelonca, appresso a un fuoco,
era una donna di giocondo viso;
quindici anni passar dovea di poco,
quanto fu al conte, al primo sguardo, aviso:
et era bella sí, che facea il loco
salvatico parere un paradiso;
ben ch’avea gli occhi di lacrime pregni,
del cor dolente manifesti segni.

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92
     V’era una vecchia; e facean gran contese
(come uso feminil spesso esser suole),
ma come il conte ne la grotta scese,
finiron le dispúte e le parole.
Orlando a salutarle fu cortese
(come con donne sempre esser si vuole),
et elle si levaro immantinente,
e lui risalutâr benignamente.

93
     Gli è ver che si smarriro in faccia alquanto,
come improviso udiron quella voce,
e insieme entrare armato tutto quanto
vider lá dentro un uom tanto feroce.
Orlando domandò qual fosse tanto
scortese, ingiusto, barbaro et atroce,
che ne la grotta tenesse sepolto
un sí gentile et amoroso volto.

94
     La vergine a fatica gli rispose,
interrotta da fervidi signiozzi,
che dai coralli e da le preziose
perle uscir fanno i dolci accenti mozzi.
Le lacrime scendean tra gigli e rose,
lá dove avien ch’alcuna se n’inghiozzi.
Piacciavi udir ne l’altro canto il resto,
Signor, che tempo è omai di finir questo.