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canto duodecimo 255


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     Il vantator Spagnuol disse: — Giá molte
fïate e molte ho cosí Orlando astretto,
che facilmente l’arme gli avrei tolte,
quante indosso n’avea, non che l’elmetto;
e s’io nol feci, occorrono alle volte
pensier che prima non s’aveano in petto:
non n’ebbi, giá fu, voglia; or l’aggio, e spero
che mi potrá succeder di leggiero. —

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     Non poté aver piú pazïenzia Orlando,
e gridò: — Mentitor, brutto marrano,
in che paese ti trovasti, e quando,
a poter piú di me con l’arme in mano?
Quel paladin, di che ti vai vantando,
son io, che ti pensavi esser lontano.
Or vedi se tu puoi l’elmo levarme,
o s’io son buon per tôrre a te l’altre arme.

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     Né da te voglio un minimo vantaggio. —
Cosí dicendo, l’elmo si disciolse,
e lo suspese a un ramuscel di faggio;
e quasi a un tempo Durindana tolse.
Ferraú non perdé di ciò il coraggio:
trasse la spada, e in atto si raccolse,
onde con essa e col levato scudo
potesse ricoprirsi il capo nudo.

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     Cosí li duo guerrieri incominciaro,
lor cavalli aggirando, a volteggiarsi;
e dove l’arme si giungeano, e raro
era piú il ferro, col ferro a tentarsi.
Non era in tutto ’l mondo un altro paro
che piú di questo avessi ad accopiarsi:
pari eran di vigor, pari d’ardire;
né l’un né l’altro si potea ferire.