Orlandino (Folengo)/Capitolo sesto
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- CAPITOLO SESTO
1
O scuri sensi ed affettate rime
qual è chi dica mai compor Limerno?
Tal volse del Petrarca su le cime
salir, ch’or giace in terra con gran scherno;
Icaro per montar troppo sublime,
credendosi avanzare il vol paterno,
perse con l’arte l’incerate piume
e venne giú dal ciel in un volume.
2
Non tutti Sannazari ed Ariosti,
non tutti son Boiardi ed altri eletti,
li cui sonori accenti fûr composti
de l’alma Clio ne gli ederati tetti,
tetti sí larghi a lor, a noi sí angosti;
e rari son pur troppo gli entro accetti!
Però, che maraviglia, se ’l gran sòno
di lor sentenzie in tanto pregio sono?
3
Milon, da poi che ’l vecchio pose fine
a la novella di quel scarso prete,
dimandagli se porto in quel confine
vi era; ché, mentre l'aure sono quete,
vorrebbe oltra passar l’acque marine,
dando al nocchier le solite monete.
— Non dubitate — disse ’l vecchio allora, —
lo porto non luntano qui dimora. —
4
Disse Milon: — Se quel non è luntano,
voglia guidarci in questo tuo battello;
e per l’atto gentil e piú che umano
che fusti a darne cibo tanto snello,
questa giumenta lascioti, e con mano
proprio la sottoscrivo e ti suggello. —
— Mille mercé — risponde il vecchio; — senza
tanti notari prestovi credenza.
5
Entrati pur in barca, ché in un tratto
voglio condurvi al porto qui vicino.
Lasciamo qui la bestia, che diffatto
io mandarò levarla un mio cugino;
e penso giá di farne bon baratto
drento di Corsia in un carro di vino;
perché, vi giuro, mai non pesco bene,
se di bon vin non son le fiasche piene. —
6
Cosí parlando, accostasi a la barca;
e Berta il vecchiarel prende al traverso:
poi d’esso peso il suo legnetto carca,
che, pargoletto, quasi vien sommerso;
e, tolto il remo, navigando inarca
le schiene, com’un serpe d’oro terso
lo qual va sdrucciolando per un prato,
s’avvien che ’l pè d’un bue l'aggia calcato.
7
E col soave nòto, ch’un acquatico
mergo tra folghe segue alcun piscicolo
nel lito e primo mar de l’Adriatico,
tal va per l'onde salse il trave piccolo
sotto il governo di quel vecchio pratico,
che mai di mar non teme alcun pericolo:
e per levar il tedio e farli ridere,
cantar comincia e con gran voce a stridere.
8
Ma, giunti al porto, trovano ch’un grande
legno si parte verso Italia in fretta.
Accostasi Milone, e su vi scande
con la compagna e lascia la barchetta.
Non è chi lui conosca o chi ’l dimande,
e pur d’esser compreso ivi sospetta.
Sta sempre armato e porta cinto ’l brando,
come sòl far chi a taglia posto è in bando.
9
Giá Febo l’aurea testa in l'onde attuffa
e lascia il freddo lume a la sorella,
quando pel vento che ’n le poppe buffa,
«issasi ’l velo», come ’l volgo appella.
Quel grave legno, spinto, l'onde acciuffa
e rumpe ’l mar che intorno gli saltella,
fa nove miglia o dieci in men d’un’ora
e fende ciò che incontra l’alta prora.
10
Soldati, mercadanti, preti e frati
eran con altra gente in quel naviglio:
chi guata il fier Milon da gli omer lati;
e chi ’l bel volto candido e vermiglio
di Berta, c’ha d’amor i gesti ornati,
contempla sí, che dálle giá di piglio;
ma la presenzia di Milon robusto
tiene in cervello ogni lascivo gusto.
11
Or un signore v’era di Calábra
con trenta ben armati soi famigli;
brama di Berta egli basciar le labra
e aguccia, per rapirla, giá gli artigli.
Milon non sa quella sua mente scabra,
bench’egli co’ compagni si consigli
e l’un con l’altro parli ne l’orecchia,
ché ognun nel ben altrui sempre si specchia.
12
Farebbon giá l’assalto; ma che ’l giorno
sparito venga in tutto, attenden prima.
Berta con altre donne fa soggiorno
sotto coperta de la prora in cima:
d’ogni altra cosa pensa che del scorno
lo qual in lei quel tristo far estima;
onde, corcata in grembo d’una schiava,
col sonno le sue membra ristorava.
13
Milon, che di saper volge ’l desío
se di Parigi alcun sapesse nova,
dimanda forte: — Ditemi, per Dio
(s’alcun ch’il sappia dir tra voi si trova),
è vero ch’un Milon malvagio e rio
ha fatto contra Carlo un’empia prova? —
Risponde un grande vecchio: — E’ con effetto;
e dirtelo saprò, se n’hai diletto. —
14
Chi sia cotesto vecchio in fronte grave,
c’ha lunga barba ed occhi di Saturno,
niuno sa di quelli entro la nave;
ché ’l finto volto ed anco il ciel notturno
lo asconde lor, né senton che ’l gran trave,
mosso non da Levante o da Vulturno
ma dal suo spirto, vola in tal prestezza,
ch’un veltro non va piú, anzi una frezza.
15
Volendo, in mille forme cangia ’l volto,
tant’è ne l’arte magica perito;
scioglie d’amor il vinto e vinge ’l sciolto,
affrena i fiumi e chiama i pesci al lito;
fa ’l matto saggio, e ’l saggio venir matto,
e cava l’ombre d’Orco e di Cocito;
la luna, stelle, foco, piante e marmi
costringe a la violenza di soi carmi.
16
Ma ’l nigromante, degno di gran lodo,
oprar non sa, se non in ben, tal arte.
Fauni, folletti ed incubi, che ’l vodo
cerchio tra ’l foco e terra e la gran parte
tengon del centro mezzo al nostro sodo,
tutti scongiura a sue sacrate carte;
demogorgoni ed arpie, fate e strige,
sepolcri, ombre, sibille, caos e Stige.
17
Sa quanto alcun mai seppe d’erbe o piante,
non d’aconito pur, tasso e cicute,
ma mille e mille che furon innante
non mai da nigromante alcun sapute.
Taccio ’l magnete, ferro ed adamante;
sa di metalli e pietre ogni virtute;
onde nascoso tien d’argento e d’oro
ne’ monti di Carena un gran tesoro:
18
ne’ monti di Carena entro le grotte
sta ’l seggio suo di smalto e sasso fino.
Atlante ha nome, che di mezza notte
d’una Sibilla nacque e di Merlino.
Or con turbato cor e voglie rotte
lasciato avea de l’Africa ’l confino
per un anello, il qual fece ad Almonte,
che poscia gli dovea far danno ed onte.
19
Or dunque, posto ch’egli sol per arte
saper potesse aver anti Milone,
noi sa però, ché rado apre le carte
de’ spirti rei, se non per gran cagione.
Ver’è che dianzi Giove opposto a Marte
dissegli che di lui nasce un barone,
il qual, «Orlando» detto, non avria
egual d’ingegno, forza e cortesia.
20
Ora per soddisfar al suo dimando,
ch’è di saper quel che sapendo poscia
ne pianga, odendo l’impeto nefando
(non credo piú nefando esser mai poscia)
di Carlo, anzi Neron, in ciò che ’l brando
cosí vibrò, ch’ancor al ciel l’angoscia
e gli urli van per l’empia occisione
d’uomini fatta in scherno di Milone:
21
— La causa che m’indusse (poiché attenti,
vostra mercé, vi veggio, vo’ fondarvi
assai piú innanzi miei ragionamenti)
venir in Francia e poco tempo starvi,
fu la prolissa guerra, i fier lamenti,
la trista occision de’ grandi e parvi,
che ratto dé’ patir la vostra Europa
da gente tartaresca ed etiopa.
22
Chi fia di tanto mal cagion? Amore,
amor che sempre fu la peste lorda
de’ miseri mortali. Ah, in quant’errore
ci spinge questa fiamma tant’ingorda!
Odo giá l’alte strida, il gran rumore
d’arme, ch’aggira in foco e ’l ciel assorda;
ché dove fischia Amor, cosí fier angue,
subito appare ferro, foco e sangue.
23
Giá si rinnova quel furor vetusto
che ’l mondo trasse quasi al primo Cao,
quando ’l lascivo Paride ed ingiusto
chiamossi drieto l’empio Menelao,
il quale tutta l’Asia ebbe combusto,
ove Patroclo, Ettòr, Protesilao,
Achille, Troilo ed altri capitani
restaro tra un milion d’uccisi ai piani.
24
Quant’era meglio che ’l conte Milone
lasciato avesse Berta nel suo letto!
Carlo testé gli rende ’l guiderdone,
ché sua famiglia tutta per dispetto
distrugge in ferro e foco; ma un leone
è per stringer a lui la gola, il petto:
piú non avrá l’ardir di Chiaramonte,
che ’l scampi da le man d’un fier Creonte.
25
Novo Creonte in queste parti viene
per spander tutto il cristiano sangue.
Carlo fia ’l primo che volga le schiene
al negro tòsco e al fiscio d’un tal angue:
non gli varrá gridar: — Chi mi sovviene? —
Le membra stanno mal, se ’l capo langue.
Italia, Franza, Spagna ed Ingleterra
Cupido e Marte gitteranno a terra.
26
Ahi, maladetta stirpe di Maganza,
ch’or godi e canti per l’altrui dolore!
Non sperar giá (ché falsa è tal speranza)
gioir troppo luntan di quel favore,
posto ch’abbi scacciato for di Franza
di Chiaramonte la radice e ’l fiore:
volge la rota, ma ’l destin è fermo,
ch’al fin a tua ruina non fia schermo.
27
O stelle, o punti, o troppo tardi segni,
che prometteti al mondo un sí bel sole,
aprite, ch’oggi è tempo, i raggi pregni
a l’aureo seclo, a l’aspettata prole!
Nascan li quattro di vertú sostegni,
per cui rumor eterno al mondo vole;
nasca quel forte Orlando, alto coraggio,
Rinaldo, e ’l mio Ruggier, Guidon Selvaggio!
28
D’Orlando una colonna nascer deve,
che non pur Roma, anzi sostien il mondo;
ma de Rinaldo un orso tanto greve,
che di sue forze il ciel sentir fa il pondo.
Ruggiero il sangue d’Este in sé riceve,
d’ingegno saldo e di vertú profondo:
ma ’l mio Guidone infonderá Gonzaga
per cui sol nacque la tebana maga.
29
Guidon Selvaggio, di Rinaldo frate,
la sora di Ruggier avrá per moglie;
quindi verrá quell’inclita bontate
Gonzaga, ch’in un punto il mondo accoglie:
Mantoa famosa per il primo vate,
ma piú famosa pei trofei e spoglie
che riportar in lei Gonzaga deve
dal Gange al Nilo ed iperborea neve. —
30
Parlava lagrimando il nigromante,
ed era per narrar il gran conquasso,
che Carlo a Chiaramonte il giorno avante
diede, poscia ch’intese quel fracasso
dal fier Milone fatto in un istante,
che in una notte mandò quasi al basso
tutta la casa di Maganza, e Berta
rapita aver tenea per cosa certa;
31
quando Raimondo (ché Raimondo detto
era quel duca o conte calabrese)
lascivamente Berta, nel cospetto
d’uomini e donne, stretta in braccio prese,
volendo ch’abbia il suo pensier effetto,
come uom villano, perfido e scortese.
Berta che dorme, destasi gridando:
Milon che l’ode, tratto ha fora il brando;
32
corre a veder la causa di tal voce;
ma risospinto fu da trenta indrieto:
pensate s’ira e sdegno il cuor gli coce,
vedendo farsi un atto sí indiscreto:
ma l’arroganza le piú volte nòce.
Salta Milon in mezzo di quel ceto
e vi comincia a dimenarsi intorno,
quantunque fusse giá sparito il giorno.
33
A cui la testa, a cui la spalla fende,
a cui lo braccio, a cui la gamba tronca:
Berta contra Raimondo si difende,
ché a caso in man venuta gli è una ronca;
ma quel rubaldo in un battello scende,
dietro le poppe, simile a una conca;
quattro famigli allor prendono in fretta
la donna e giú la mandan in barchetta.
34
Assai contrasta loro, e pur si vede
al fin Berta d’un ladro esser prigione.
Chiama piangendo su dal ciel mercede,
poiché l’aiuto è vano di Milone;
lo qual mentre cervelli rompe e fiede,
giá presso al fin de l’aspra occisione,
la grossa nave per libeccio vola,
ma la piccina drieto resta sola,
35
perché tagliò la fune il fier Raimondo
di quel schifetto, allor che l’ebbe drento;
e mancò poco non andasse al fondo
la picciol barca, giá ingrossando il vento.
Or qui scriver non vogliovi, secondo
Turpin, diffusamente qual evento
fu di Milone o di quel mago Atlante,
che allor allora sparve in un istante;
36
né di Milon, il qual dopo la morte
sanguinolenta di que’ tapinelli,
ebbe fortuna tal, che le ritorte,
arbore, vela, remi, arme, vaselli,
lo stesso legno al fin andò per sorte
del mar in preda, e con i soi fardelli
li mercadanti al fondo si trovaro,
né lor scampò la copia del dinaro.
37
Pur animosamente il cavalliero,
trattosi l’arme, nudo come nacque,
buttossi di fortuna ne l’impero,
di qua di lá sbalzato per su l’acque.
Al fin giunse in Italia, ma, leggiero
di forze e panni, su la rena giacque;
poscia, levato da non so qual fata,
seco sen stette e l’ebbe ingravidata.
38
Di costei nacque il principe Agolaccio,
come ’l dottore in la sua Deca scrive;
ma ritorniamo a Berta che, in impaccio
di quel fellone, non sa come ’l schive:
egli giá se l’avea recata in braccio
per adempir le voglie sue lascive;
la donna che schermirsi piú non puote,
d’un suo coltello sotto lo percuote.
39
Ché, mentre finge aprir le gambe a quello
ed al giostrar corcarsi agiatamente,
cacciògli ne le viscere il coltello,
raddoppiando de’ colpi virilmente.
Quel misero ferirla volse anch’ello
d’un suo pugnale, ma il dolor repente
di morte l’impedisce; e Berta in mare
spinselo fora, e s’ebbe a conservare.
40
Or sola in quel vasello va sbalzando
la pudica donzella su per l'onde.
— O sommo Dio — parlava lacrimando, —
porgimi la tua man, che non s’affonde
l'infermo legno! Non che il mio nefando
viver né le mie colpe lorde immonde
mertin pietá; ma quella creatura
c’ho in ventre, o Padre Eterno, rassicura!
41
Da te ricorro, non a Piero o Andrea,
ché l’altrui mezzo non mi fa mistero:
ben tengo a mente che la Cananea
non supplicò né a Giacomo né a Piero.
A te, somma bontá, sol si credea;
cosí io sol di te sol, non d’altro, spero.
Tu sai quel ch’èmmi sano ovver noioso:
fa’ tu, Signor, ch’altri pregar non oso!
42
Né insieme voglio errar col volgo sciocco,
di soperstizia colmo e di mattezza,
che fa soi voti ad un Gotardo e Rocco,
e piú di te non so qual bove apprezza,
mercé ch’un fraticello, al dio Molocco
sacrificante spesso, con destrezza
fa che tua madre su nel ciel regina
gli copre il sacrificio di rapina.
43
Per ciò che di pietá sotto la scorza
fassi grande vendemmia de dinari;
e co l’altare di Maria si ammorza
l’empia ingordigia de’ prelati avari.
Ed anco la lor legge mi urta e sforza
ch’ogni anno ne l'orecchie altrui dischiari
le mende mie, ch’io son giovin e bella;
e il fraticello ch’ode, si flagella.
44
Flagellasi patendo le ferute
che mie parole di lascivia pregne
gli danno, le qual sono tanto acute
al cor, ch’al fin convien ch’egli s’ingegne
con vari modi e lusinghette astute
ch’io di tacer la fede mia gl’impegne,
e qui trovo ben spesso un confessore
esser piú ruffiano che dottore.
45
Però, Signor, che sai gli cuori umani
e vedi la tua chiesa in man de’ frati,
a te col cor contrito alzo le mani,
sperando esser giá spenti e’ miei peccati:
e se, Dio mio, da questi flutti insani
me scampi, che mi veggio intorno irati,
ti faccio voto non prestar mai fede
a chi indulgenze per dinar concede! —
46
Cotal preghiere carche d’eresia
Berta facea, mercé ch’era tedesca,
perché in quel tempo la teologia
era fatta romana e fiandresca;
ma dubito ch’al fin ne la Turchia
si trovará, vivendo a la moresca;
perché di Cristo l’inconsutil vesta
squarciata è sí, che piú non ve ne resta.
47
Non volse Dio però guardar a quella
perfidia d’una donna d’Alemagna;
ma fece che con lei la navicella
pervenne ove le ripe l’onda bagna.
Qui stanca e smorta uscisce la dongella
e tanto va per monte e per campagna,
di Lombardia passando in la Toscana,
che for di Sutri giunse ad una tana.
48
Taccio la fame e sete e il caldo grande
e lo timor de’ stupratori e ladri,
che soffre la meschina in quelle bande,
ove son molti boschi orrendi ed adri.
Mangia sovente more, cornie e giande,
come facean gli antiqui nostri padri;
acque, se non di fonti, almen de stagni
convien che sorba, e poi ch’altr’acqua piagni.
49
Per che sempre facendo aspro lamento
miseramente va contra fortuna:
pur finalmente giunse a salvamento
(sí come dissi poco avanti) ad una
spelunca, ove trovò che molto armento,
venendo notte, un pecoraio aduna.
— Deh, padre caro — disse, — abbi mercede
di me, ch’omai non posso star in piede! —
50
Quel vecchio allor di somma cortesia
lascia le capre e lei benigno accolse;
onde ne vegna o vada o che si sia,
in quel principio chiederla non volse;
ma dolce, umano e lieto tuttavia
ch’ella riposa, un suo scrignolo sciolse;
trassevi pane, cacio e molte frutta,
e l’umile sua mensa ebbe costrutta.
51
Berta c’ha fame, e drento chi la sugge,
dico lo giá di dieci mesi infante,
a quelle rozze fercole confugge,
che ’l bon pastore l’arrecò davante:
quivi la fame e gran dolor sen fugge,
ch’avea del suo perduto caro amante,
e benché stia sospesa e in volto smorta,
pur, tolta l’esca, molto si conforta.
52
Ma qui diverte e narra il gran dottore,
sí come di Pavia re Desidéro,
udito d’arme in aere il gran rumore,
perché Agolante vien per tôr lo impero
di Europa a Carlo e farsene signore,
mandagli prestamente un messaggero
per farsegli compagno, e Italia poi
soggiugar tutta a’ longobardi soi;
53
e come qui Milone capitando
trovò sotto Appennino entro le grotte
un popol infinito, ch’aspettando
dal ciel aiuto, s’erano ridotte
per trarsi omai di sotto a quel nefando
re Desidéro e darli tante bòtte,
che sia poi specchio a gli altri tramontani,
che non s’impaccin mai con taliani;
54
quivi Milon, orando lungamente,
trasseli for di tenebre a la luce:
la qual ben ordinata e bella gente
in un vallon de Insubria riconduce:
e come una cittade grossamente
edificaro e di Milon suo duce
le diero il nome; dopo il volgo insano
non piú «Milon», ma l’appellôr «Milano».
55
Quel gran Milan, ch’a tradimento e forza
vien tolto spesso da li tramontani
al nostro talian signore Sforza,
onde sempre con lor siamo a le mani,
facendoli lasciar drieto la scorza,
che poi mangiati son da’ lupi e cani;
e ben scriver si pote su le mura:
Italia barbarorum sepultura.
56
Ché veramente in quell’orribil giorno
ch’in Giosafatto sonará la tromba,
facendosi sentire al mondo intorno,
e i morti saltaran for d’ogni tomba,
non sará pozzo, cacatoio e forno,
che, mentre il tararan del ciel ribomba,
non gitti fora sguizzeri, franzesi,
tedeschi, ispani e d’altri assai paesi;
57
e vederassi una mirabil guerra,
fra loro combattendo gli ossi soi:
chi un braccio, chi una man, chi un piede afferra;
ma vien chi dice: — Questi non son toi. —
— Anzi son mei. — Non sono; — e su la terra
molti di loro avran gambe de boi,
teste di muli, e d’asini le schiene,
sí come a l’opre di ciascun conviene.
58
Cosí col mio cervello assai lunatico,
fantastico e bizzarro sempre i’ masino.
Confesso ben, ch’io son puro gramatico,
che tant’è dire quanto: «son puro asino»;
assai meglior d’un puro matematico.
Ma perché i capuzzati non mi annasino,
io credo in tutto il Credo e, se non vale,
io credo ancor in quel di Dottrinale.