Opere complete di Carlo Goldoni - Volume I/Prefazioni dell'edizione Pasquali/Tomo X
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L’AUTORE
A CHI LEGGE.
(Tomo X)
Passato dunque a miglior vita mio Padre, e seppellito nella Chiesa de’ Padri di San Girolamo in Bagnacavallo, rimasto io alla testa della famiglia, ricondussi mia Madre e mio Fratello in Venezia. Si andò ad alloggiare in casa de’ cugini nostri Bertani, situata nella Parrocchia di San Tommaso, appiè del Ponte di legno, in fondo alla strada, detta la Calle dei Zingani. I Bertani erano parenti di mia Madre, che nacque da una figlia di Giacomo Bertan, Stampatore, in quel secolo, accreditato, e le di cui edizioni fanno onore al suo nome. Dimorava nella medesima casa la Sorella di mia Madre, di cui ho altre volte parlato, cioè la Signora Maria Salvioni, che vive al giorno d’oggi, piena ancora di robustezza di corpo e di spirito, in età di ottanta e più anni. Sendo la casa grande e assai comoda, ci fu assegnato un appartamento, sufficiente al nostro bisogno. Da lì a qualche mese passai a Modona, per rivedere i beni paterni e prender possesso del fideicommisso, di cui ho altrove parlato. La Signora Contessa Diana Belincini volea colà maritarmi. Mi fece l’onor di propormi una Giovane assai civile, ch’io conosceva. Feci l’uomo di garbo, rispondendole ch’io non potea aderirvi senza il consentimento di mia madre, e senza essere provveduto d’impiego; ma la cagion più forte si era, che un altro oggetto in Venezia avea di già preoccupato il mio cuore.
Dato dunque buon ordine alle cose di Modona, coll’assistenza utile ed amorosa del Signor Francesco Zavarisi, Notaio in detta città e mio Cugino; ammassato tutto quel danaro, che colà potei ammassare, me ne ritornai alla Patria. Voleva io continuare nel mio diletto esercizio di Cancellier Criminale, tanto più che avea di già i requisiti per divenir principale, ma vi si oppose mia Madre, non con violenza, che non ne era capace, ma colle più tenere dimostrazioni, dissemi che il Cancelliere non è mai stabile in alcun loco, ch’ella sarebbe costretta, o a vivere da me lontana, o a seguitarmi per tutto, con doppia spesa e con grave incomodo; soggiunse, ch’ella avrebbe desiderato ch’io mi stabilissi in Venezia, e intraprendessi la professione dell’Avvocato; ch’io poteva addottorarmi in Padova, ed avrebbe ella pensato alla spesa; e colle lagrime agli occhi mi fe’ acconsentire al di lei proggetto. Mi piacque di contentar mia Madre, ma fui ancor più contento, quando comunicato il pensiere alla persona amata, lo vidi da essa con allegrezza approvato.
Due erano le difficoltà per riuscirvi; l’una che, per legge, i sudditi Veneti, che vogliono addottorarsi in Padova, devono far i loro studj in quella Università e consumarvi cinqu’anni; l’altra, che avendo io perduto di vista lo studio delle leggi civili e canoniche, per abbandonarmi a quello della pratica criminale, avea bisogno di riprendere quell’esercizio per mettermi in istato di ottenere la Laurea. Rispetto alla prima difficoltà, come i Forestieri sono esenti in Padova dall’obbligo dei cinqu’anni, e come io sono oriondo di Modona, mi fu fatto grazia, benché nato io e mio Padre in Venezia, e fui ammesso al Dottorato de’ forestieri. Circa alla seconda difficoltà, siccome non ho mai mancato di coraggio in simili incontri, mi lusingai di potermi mettere in poco tempo in istato di espormi al pubblico esame, fondandomi anche sulla prevenzione che la cosa era ridotta alla più comoda facilità.
Ricorsi al Signor Gio. Francesco Radi, Avvocato Veneto, amico mio fin dall’infanzia, uomo di talento, e buon conoscitore delle Leggi comuni, non meno che di quelle del nostro Foro. Ripassai coll’aiuto suo, in termine di sei mesi, tutto il corso legale, m’instruì egli del metodo che si tiene in Padova per conferire la Laurea, e si esibì di accompagnarmi e di assistermi nell’occasione. Accettai l’esibizione cortese, e ci portammo in Padova unitamente. Fatto colà il deposito del danaro (parte essenzialissima del Dottorato) fatte le visite di rispetto e di convenienza a tutti quei che compongono quel collegio, scelto per Promotore il Dottor Pighi, celebre Professore in quella Università, si deputò la giornata per l’estrazione de’ Punti e la susseguente pe’l Dottorato. Il zelantissimo Signor Abbate Dottore Arrighi, Corso di nazione e Lettore Primario nella Università di Padova, veggendo con quanta facilità si facevano i Dottorati, avea ottenuto un decreto, in virtù del quale i giovani, pria d’esporsi alla grande azione, dovevano essere esaminati particolarmente, ed era proibito rigorosamente a quelli che dovevano argomentare contro del Candidato, fargli la politezza solita di comunicargli la sera innanzi gli argomenti medesimi, affinchè non avesse l’incomodo di rispondere all’improvviso. Passato io dunque alla casa del Signor Abbate per semplice cerimonia, e non instruito del nuovo metodo, ebbe egli la bontà di avvertirmi di tutto questo, e nel tempo medesimo mi fece l’onore di esaminarmi egli stesso con tutto il rigore possibile, balzando colle interrogazioni qua e colà per tutto il corso legale. Confesso che una tale sorpresa m’imbarazzò non poco, e le mie risposte non lo contentarono intieramente, dimodocchè ebbe la bontà di dirmi, che mi consigliava a meglio riflettere, pria d’espormi al cimento. Pensai un momento; poi gli risposi con arditezza ch’io era andato a Padova per questo, che la mia riputazione non mi permetteva di ritornarmene così vilmente, che la sorpresa mi aveva intimidito per quel momento, ma che mi sentiva bastante coraggio per azzardarmi. Parve un poco piccato della mia franchezza. Mi disse: domani ci rivedremo, e mi congedò. Arrabbiato, piucchè avvilito, tornai all’albergo, comunicai all’amico Radi la conversazione avuta col suddetto Lettor Primario. Stupì egli di una tal novità: disse, che se tal rigore avesse avuto lunga durata l’Università avrebbe molto perduto, e in fatti l’anno dopo fur rimesse le cose al primiero sistema. Intanto toccò a me a resistere a questo fuoco. Mi posi a ripassare i Punti Legali, che mi aveano toccato in sorte, studiai la materia seriosamente; fecemi il buon amico tutti quegli argomenti che gli suggerì il suo talento, ed io male non rispondeva, , ma siccome l’esito dipende moltissimo dalla memoria, e che la ripetizione degli argomenti malfatta o la falsa citazione di un testo può rovinar il merito di un Candidato, tremava internamente, malgrado il coraggio ch’io dimostrava.
In mezzo alle mie più serie occupazioni ed alla più interessata assistenza dell’amico, ecco degli Scolari che vengono al solito a ritrovarci, e per passar la sera con noi. La civiltà non vuole che si ricusino. Si burlano della novità del rigore e della mia apprensione, dicono che non conviene affaticare lo spirito soverchiamente, e che convien divertirsi. Ci propongono di giocare. Fan venire delle carte. Uno di essi propone il gioco della Bassetta, fa la Banca e taglia. L’amico mio, che amava il gioco, si lascia sedurre e punta; io che non era più virtuoso di lui, metto a parte i punti legali e prendo quei delle carte. Io prendo il mio danaro, l’amico il suo. Si passa la notte, e il nuovo sole ci trova al tavolino giocando. Ecco il bidello dell’Università, che viene per risvegliarci e per avvertirci che l’ora si approssimava. Poca fatica abbiamo fatto a vestirci. Se ne andarono gli Scolari col nostro danaro augurandoci miglior fortuna. L’amico ed io non osavamo guardarci in faccia. Prendo i punti legali in mano, e appena poteva leggere. Penso un poco, mi scuoto, mi riscaldo, mi fo animo e dico: andiamo. Si arriva al Collegio, mi destinano una stanza per ritirarmi; richiamo tutti i spiriti sconcertati; li riunisco al solo punto d’onore. Viene il momento fatale; entro nell’assemblea de’ Dottori, non guardo in faccia a nessuno. Salgo alla cattedra col Promotore, faccio la recita de’ miei punti, e la memoria mi serve felicemente. Eccoci agli argomenti. Ascolto il primo; lo riassumo e sbaglio una citazione. Il mio Promotore vuol suggerirmi. Si oppone il zelantissimo Signor Dottore Arrighi. Io mi ricordo del domani ci rivedremo, riprendo forza, e rispondo al primo argomento ed agli altri in seguito, non come un difendente risponde, ma come fatto avrebbe un’assistente, facendo tante dissertazioni quanti erano gli argomenti, senza il metodo ordinario scolastico, senza faticar la memoria colla materiale inutile ripetizione delle parole e delle citazioni dei Testi, ma facendo conoscere ch’io possedeva la materia, ch’era informato delle questioni, e che la scienza del Jus comune non consisteva nella ripetizione degli argomenti, ma nella cognizione del Codice e dei Digesti. Non so, se male o bene parlassi, ma so che l’audacia, e tuono di voce, e la velocità del discorso ha prodotto un movimento estraordinario in tutto quel venerabile consesso, con delle dimostrazioni d’applauso, seguite da una pienissima ballottazione favorevole, pubblicata poi dal bidello col nemine penitus, penitusque discrepante. Aperte allora le porte, entrava entro molta gente. Vidi l’amico Radi, che si asciugava gli occhi, piangendo per tenerezza, e vidi i Scolari, che mi avevano trattenuto la notte e che ridevano, non so se per piacere di vedermi contento, o per quello di avermi vinto il danaro.
Il Dottor Pighi mio Promotore fece allora la solita cerimonia, dandomi in nome dell’Università gli onori e le facoltà Dottorali, formando il solito elogio al suo candidato, e come egli era uomo di talento, pronto di spirito e buon Poeta, terminò con alcuni versi, che non poteano esser fatti che all’improvviso, poiché alludevano alla maniera mia di rispondere non usitata, e calcolata da lui per la migliore di tutte. Terminate le solennità ordinarie, scesi dal posto ed accolsi le congratulazioni di tutti, ma quelle, che più mi piacquero, furono le congratulazioni dell’Abbate Arrighi, e lo ringraziai di avermi messo a quella disperazione, che dato mi aveva il maggior vigore. Ritornato alla locanda coll’amico Radi, e fatte le nostre riflessioni sull’accaduto, consolandoci dell’esito fortunato, rivolgemmo i nostri pensieri alle nostre saccoccie, sicuri che la Laurea Dottorale non ci dava il modo di pagar la locanda, nè di supplire alle altre spese occorrenti. Vi erano ancor delle mance indispensabili da pagarsi. Vuole il costume, che si presenti una guantiera d’argento al Promotore; evvi la spesa del Privilegio in pergamena. Dovevasi pagar il viaggio di ritorno in Venezia. Mia Madre mi aspettava, mi aspettavan gli amici, e non volea far sapere la mia condotta. Qual partito si avea a prendere in tale occasione? Io avea un diamante in dito di qualche prezzo, confidatomi dalla mia bella. L’impegnai e me ne prevalsi. Lo ricuperai qualche mese dopo, ma quante invenzioni mi costò il nascondere la verità! Siccome il gioco era stato la causa di tal disordine, me ne son ricordato nella mia Commedia del Giocatore, allora quando Florindo impegna il giojello di Rosaura. Ritornato in Venezia, e consolata sopra tutti mia Madre, ricorse ella a mio Zio Indrich, di cui altrove ho parlato, acciò mi mettesse nello Studio di qualche buon Avvocato, affine ch’io facessi la pratica necessaria per esercitare tal professione, e necessaria per ottenere il Mandato, cioè la permissione di esercitarla in Venezia. Mio Zio in fatti mi appoggiò ad uno de’ più accreditati e de’ più onesti Avvocati di quel tempo, il Signor Carlo Terzi. Consumati i due anni di pratica, dalla legge voluti, mi esposi all’esame ordinario, al Magistrato Eccellentissimo de’ Censori; ottenni subito il mio Mandato; vestii la Toga Forense, e furono miei Compari, cioè assistenti amichevoli, in tal funzione il celeberrimo Signor Avvocato Sebastiano Uccelli, ed il Signor Fiscale Roberti, e presi alloggio nella Parrocchia di San Paterniano, in una casa del fu Signor Andrea Ceroni Interveniente, o sia Sollecitatore, situata sopra il Ponte Storto, e sopra il Rio, cioè sul Canale detto di San Paterniano, coll’entrata in una piccola strada che, per di dietro alla casa stessa, conduce al Canale, e dove abitava in quel tempo il prefato Signor Sebastiano Uccelli.
Osserva, Lettore mio gentilissimo, osserva il tuo Goldoni nel Frontispizio di questo Tomo, e vedilo colla Toga Forense, all’uso degli Avvocati del suo Paese. Se tu non sei Veneziano, e se mai ti trovassi in detta Città, sappi che il vestimento, onde la figura è abbigliata, è quello che usasi nella Primavera e nell’Estate, e si prende ordinariamente a Pasqua, e portasi sino tutto il mese di Ottobre. Un Avvocato, vestito come tu vedi, dicesi essere in ormesini, tratta la parola dall’ormesino, ch’è il drappo di seta, con cui si forma la sottoveste ed il gonnellino, e con cui si fodera la lunga e vasta Toga, che in detto tempo si porta aperta, come tu vedi. Negli altri tempi portasi la toga affibbiata con una cintura di velluto nero, adornata di varie lamine lavorate d’argento, e con larghe liste di pelli attaccate dall’alto al basso all’orlo della parte diritta, che copre l’altra, ed alle maniche di detta Toga, le quali pelli si cambiano, secondo la stagione più o meno avvanzata, e le une si chiamano Dossi, e le altre Vari. Le maniche tanto nell’estate che nell’inverno, fra il gomito ed il polso si allungano verso terra, e formano una specie di sacco o di tasca, che serve per riporvi le cose, che portansi ordinariamente sopra di sè, poichè l’abito, sia in pelli, sia in ormesini non ha saccoccie. Portasi ancora affibbiato alla spalla sinistra un pezzo di panno nero, della lunghezza di una canna in circa, e di due palmi in circa di largo, il qual panno discende egualmente, parte sul dinanzi e parte al di dietro della persona, sino alla cintura e sino al gomito. Chiamasi questo panno la Stola; molti non la portano, specialmente in estate, ma è necessaria in tutte le occasioni di pubblicità, o di cerimonia, e quando l’Avvocato presentasi ai Tribunali, dee distaccar la stola dal sito ordinario, e per segno di rispetto e di sommissione la ritiene attraversata al braccio sinistro, fra il gomito e il polso. Aggiungerò in questa occasione, che l’abito degli Avvocati in Venezia è simile in tutto a quello dei Patrizj generalmente, a riserva di quando alcuni di essi occupano le dignità principali della Repubblica, e portano le vesti, che si dicon Segnate, o rosse, o violate, o di panno, o di seta, secondo le cariche e le stagioni. Eccomi dunque vestito di un abito rispettabile e decoroso, ed adornato di un titolo, che ho sempre apprezzato e conservato con gelosia, ponendolo in fronte alle opere mie, malgrado l’abbandono dell’esercizio, nè mai per qualunque evento lascierò di gloriarmene, sperando di non avermene reso indegno, e che non ostante la distanza, in cui sono, sarà conservato il mio nome al Magistrato Eccellentissimo de’ Censori fra il ruolo degli Avvocati, poichè, come disse Marziale in altra occasione, e come trovasi inciso sotto il frontispizio suddetto,
Casibus hic nullis, nullis delebilis annis Vivet.
Astrea, che mi ha adottato per figlio, e l’Adria, mia clementissima Madre e Protettrice e Sovrana, furono da me a questo fine collocate al dissopra del Quadro, ed il mio nome fra le loro mani è in sicuro.
Torniamo a noi; torniamo a riprendere il filo del ragionamento interrotto. Contento io era per una parte del novello mio impiego, ma per l’altra rincrescevami in quei primi tempi vedermi disoccupato. Il mestiere dell’Avvocato è il più utile e il più decoroso del mondo, ma convien fare un lunghissimo noviziato, prima di essere conosciuti; pochi arrivano ad essere di quelli del primo rango, che sono i soli felici, e tutti gli altri restano nella turba de’ malcontenti. Non so a qual grado foss’io arrivato, se continuato avessi per lungo tempo in un tale esercizio. So bene, che i miei principj sono stati assai fortunati, e che tutti mi presagivano buona sorte. Non ho portata la Toga che otto mesi soli, e in otto mesi ho trattato due cause, fra le quali una di grandissima conseguenza, cosa assai rara nel nostro Paese, dove un giovane Avvocato dura fatica, dopo un più lungo tempo, ad esporsi, poichè non è facile a ritrovar la persona, che voglia confidar la sua causa alle mani di un principiante. Io aveva dato qualche saggio di me nell’Accademia del Dottore Ortolani, famoso per gli allievi da lui fatti nello Studio legale, e famoso altresì, perchè essendo egli divenuto cieco del tutto, non voleva esserlo e non lo pareva. Vi sono in Venezia varie di queste Accademie, nelle quali si esercita la gioventù, che vuole incamminarsi per la via dell’Avvocatura. Si figura una Causa fra due o più persone. Due Accademici prendono a difendere una parte, e due l’altra. Si disputa alla maniera del Veneto Foro. Gli astanti sono i Giudici, si presenta una pallottola a ciascheduno di loro, e ponendola essi nell’urna, o per il sì, o per il no, i difensori dell’una parte o dell’altra vincono l’opinione, e gli altri la perdono. Mi ricordo aver io proposto in detta Accademia il caso, che ho poi disteso nella mia Commedia dell’Avvocato, e mi sovviene che cedendo io la miglior Causa ai miei avversari, mi ha toccato difender la Giovane, e sostenere la donazione. Ho perduto, egli è vero, ma so che la mia disputa non mi fe disonore.
Nell’ozio, in cui io era obbligato di vivere, il dopo pranzo, dovendo restare in casa, nel mio Mezà, per aspettare se la fortuna volea mandarmi de’ litiganti, o almeno per acquistare concetto di giovane attento, ed attaccato al mestiere, mi si risvegliavano in mente di quando in quando le idee teatrali; ma siccome la Toga Forense mi aveva inspirata la serietà, invece di pensare a Commedie, rivolsi l’animo alle opere musicali, e composi un dramma per musica, intitolato Amalasunta, Opera di mia testa, di mia invenzione, ma per la quale avea spogliato bastantemente la Didone e l’Issipile di Metastasio. Ciò non ostante, mi pareva di aver fatto moltissimo, ed era assai contento della mia produzione. Ho trovato de’ lodatori, che mi hanno un po’ insuperbito, ed ho tenuto quest’opera presso di me con grandissima gelosia, finchè, trovandomi poi a Milano, ne rimasi disingannato; come avrò occasione di dire, allorchè parlerò del mio viaggio nella Città suddetta.
Un’altra opera ho fatto, in que’ tempi d’ozio, e vuò parlarne (benchè sia cosa che non lo meriti), per una ragione che si vedrà parimenti nel mio viaggio di Bergamo. Quando un uomo pensa e medita, e non ha faccende, dicesi ch’ei fa de’ lunarj. Chi avesse detto così di me, non l’avrebbe sbagliata, poichè effettivamente composi un lunario. Qualchedun che lo vide, trovollo degno del pubblico, ne parlò ad uno Stampatore, io non voleva darlo, ma offrendomi dodici zecchini in regalo e diverse copie, non potei resistere e glielo diedi, con condizione però che non si pubblicasse il mio nome. Era intitolato: L’esperienza del passato fatta astrologa del futuro. Il discorso generale e quelli delle stagioni erano tanto critici, che poteano passar per buoni, trattandosi di un lunario; e certcunente erano veri, ed avevano l’aria di novità. Di più non solamente ogni lunazione, ma ogni giorno eravi un quartetto, che conteneva un prognostico, cioè una Critica del costume; e come io aveva naturalmente lo spirito comico, ogni pensiere potea servir di soggetto per una Commedia, ed io medesimo me ne sono qualche volta servito. In fine il mio Lunario fece strepito, fu ristampato, ed ecco la prima volta ch’io ho avuto il piacere di dar qualche cosa alle stampe, è vero senza il mio nome, ma non ho mai negato di esserne io l’autore. So che dopo la medesima idea è stata copiata e contrafatta da altri, onore che mi è stato fatto in tutti i tempi, e che io non credeva di meritare.
Un giorno ch’io mi occupava, al solito, in cose di tal natura, , venne a ritrovarmi nel mio Mezà il Signor Paolo Indrich mio Zio, e com’era egli qualche volta burlevole, e pungeva con buona grazia, cominciò a divertirsi, prendendomi per mano e lodando il mio bel talento. Compresi bastantemente la sua gentile ironia. Mi difesi alla meglio, e conclusi che tralascierei di occuparmi in simili barzellette, se avessi l’occasione d’impiegar il mio tempo in cose serie, e specialmente nella mia professione. Postosi mio Zio anche egli in serietà, mi propose una Causa, lo ringraziai, mi accinsi ad ascoltarlo con attenzione, ed egli con quella bravura, che lo rese rispettabile al foro, m’informò con tanta energia e con tanta chiarezza, ch’io potei, quand’ebbe finito, riassumere tutta l’informazione e ripeterla, come s’io l’avessi trovata scritta, ed imparata a memoria. La Causa era del Territorio di Crema; trattavasi di servitù, di acque, di abuso e d’impedimento. Gli Avversarj avevano presentato un dissegno. Eravi per parte nostra un picciolo modello in legno, che mio Zio aveva portato seco. Vi era l’articolo legale, la dimostrazione di fatto, ed in virtù di Lettere Avogaresche la Causa era devoluta all’Avogaria, dinanzi a Sua Eccellenza il Signor Avogador Tiepolo di gloriosa memoria.
L’Avvocato della parte avversaria era il celeberrimo Signor Cordelina, che dovea parlare prima di me, ed io rispondendo alla disputa dovea soffrire l’interruzione del valoroso Signor Interveniente Monello, quanto bravo per i suoi Clienti, altrettanto acerrimo contro gli avversarj. La qualità della Causa, e il credito ed il valore de’ difensori avversarj, metteano in soggezione mio Zio medesimo, e mi confessò ch’ei venne a tentarmi, senza coraggio di abbandonarmi la Causa, ma veggendomi sì bene dalle sue parole instruito e così disposto all’impegno, volle esperimentarmi in azione, con animo di dimandare una seconda disputa, s’io non avessi fatto il dover mio al Tribunale, per non pregiudicare ai Clienti. Tre giorni dopo andiedi al cimento. Feci il mio dovere, feci bene la parte mia, riportai la vittoria, e tutto il mondo mi fece applauso, assicurando mio Zio che il suo Nipote gli avrebbe fatto non poco onore, e sarebbe divenuto un de’ bravi Avocati. Ma oimè! riuscì la cosa molto diversamente. Questa causa, che fu la prima, che mi fece del credito, fu l’ultima, ch’io trattai in Venezia, da dove non istetti molto ad allontanarmi. Il cambiamento totale della mia situazione, quel cambiamento che mi ha portato in seguito a consacrarmi al Teatro, merita bene, Lettor gentilissimo, ch’io ti narri distesamente i motivi che l’han prodotto. Vorrei che tu avessi tanto piacere nel leggerli, quanto io mi diverto nel raccontarli.
Un amore, o per meglio dire, un impegno ha originato questa catastrofe, non so s’io dica per me sfortunata o felice. S’io mi fondo sulle speranze d’allora e su i prognostici favorevoli degli amici, ho perduto uno stato comodo e decoroso, ho perduto, può essere, dodici, quindici o venti mila ducati l’anno: frutto delle onorate fatiche dei primarj Avvocati del mio paese; ma siccome non era io inclinato al risparmio, avrei fatto anch’io probabilmente come fanno tant’altri, che profondono con magnificenza i loro profitti, e in capo all’anno si trovano, come io mi trovo presentemente, e forse peggio di me, poichè io non ho danari, ma non ho debiti, o almeno pochi. Tutti non hanno il talento ed economia giudiziosa del famosissimo avvocato Vecchia di onorevole ricordanza. Mi sovviene aver pranzato un giorno con esso lui, in casa di un suo Collega di professione, suo Compare e suo Amico, uomo anch’egli di merito e di fortuna, ma che aveva fama di essere troppo prodigo e soverchiamente magnifico. Il Vecchia avea volontà di rimproverarlo, con idea di correggerlo, e lo fece con arte e con buona grazia. Propose ai commensali l' istoria della sua vita. Ne fece in pochi periodi un epilogo delizioso, con quella energia e con quel tuono di voce, che furono le sorgenti della sua fortuna. Disse come avea principiato dal niente, come aveasi lungo tempo contentato del poco, e come era arrivato al molto ch’ei possedeva. Narrò che dei piccioli, come dei grandi guadagni, aveva fatte sempre tre parti. Una parte per il proprio mantenimento, che aumentò a misura che aumentavano i suoi profitti. Una parte per i prossimi suoi parenti, tutti da lui resi comodi e ben collocati; indi soggiunse col suo vernacolo Veneziano: La terza parte la metteva da banda per aver un pero da cavarme la sé co son vecchio; e rivoltosi verso l’amico, che dato aveagli un sontuoso pranzo: Compare, gli disse, per Dio, se farè cusì, co sarè vecchio, no ghavarè un pero da cavarve la sé.
Troppi erano gli amici ed i compari del Vecchia, perchè tu possa. Lettor carissimo, indovinare la persona, a cui era diretta l’apostrofe.
Poteva dunque esser anch’io nel numero di quegli Avvocati, che quantunque celebri e fortunati, non hanno il pero in vecchiaja, e poteva anch’essere di quegl’infelici, che ne penuriano in gioventù, onde, com’era incerto il destino che mi attendeva al foro, così non posso dolermi di una perdita ch’io non conosco. Il Teatro all’incontro non mi ha dato, è vero, grandi fortune, ma ho sempre vissuto bene, ho veduto molti Paesi, ho fatto degli amici per tutto, ed ho il piacere di essere conosciuto assai di lontano, in tempo che se fossi il primo Avvocato del nostro foro, non mi conoscerebbero appena dieci miglia lontano dal mio Paese. Tutta questa digressione a che serve? Serve per comprovare che un disordine qualche volta produce un bene, e, come dice il proverbio, tutto il male non vien per nuocere: onde non dirò nè infelice, nè fortunata la catastrofe, di cui ho principiato a parlare, e di cui proseguisco il racconto.
Un amore dunque ne fu la causa, ma siccome nella mia giovanezza era io soggetto facilmente ad innamorarmi, e con altrettanta facilità mi disnamorava, ne attribuisco dunque il motivo, piucchè all’amore, all’impegno.
Fin quando vivea mio Padre, ebbi occasione, col mezzo suo, di conoscere una signora, che avea una quindicina di anni più di me, per lo meno, ma che non era stata mai maritata, quantunque da lungo tempo desiderasse di esserlo. Non le mancava nè merito personale, nè beni di fortuna per collocarsi. In età di trentacinque anni, incirca, era fresca, come di quindici, e malgrado la pingue corporatura, ed una fisionomia più virile che feminina, sapea sì ben usare le grazie, e i vezzi della gioventù, che avrebbe potuto nasconder gli anni, se qualche ruga non li avesse manifestati. Bianca come la neve, colorita senza artifizio, occhi neri e vivaci, labbro rubicondo e ridente; il naso solo, un poco troppo elevato nella sommità, sconciavala un pocolino, ma davale altresì un’aria di maestà, allora quando si componeva in attitudine grave e seriosa. Padrona di se medesima, teneva ella una casa, in cui nulla mancava al comodo e alla proprietà. Avea dello spirito, dell’educazione, del sentimento. Sapea la musica perfettamente. Facea dei versi, che non erano intieramente cattivi; amava la conversazione, parlava assai volentieri, e parlava molto di se medesima, amando quelli che sapevano meglio lodarla, ed affettavano di più attentamente servirla. Savia però ed onestissima, sapeva unire il contegno alle buone grazie, e l’esemplarità dei costumi alla vita lieta e civile: eppure con tutto questo, e con ventimila ducati di dote, malgrado la volontà decisa di collocarsi, non avea trovato ancora il partito. La difficoltà proveniva dal suo carattere. Estremamente sensibile e delicata, trovava dei difetti in tutti quelli che le potean convenire, e non sapeva determinarsi alla scelta. Io era fra il numero di quelli che meno le dispiacevano. L’estro poetico, ch’io possedeva, lusingava la sua inclinazione, e i versi ch’io componeva in sua lode me la rendevano affezionata. Molti difetti avrà ella scoperti in me; ma quello che più dovea disgustarla, si era lo stato mio di fortuna. Calcolando essa però, ch’io potea un giorno divenir qualche cosa, e che una dote passabile potea farmi arrivar più presto a migliorar condizione, so che non era lontana dal preferirmi; dissemi cose tali da potermene lusingare, parlò a mia madre in maniera, ch’ella ne era più di me lusingata, e si sollecitò il mio Dottorato per questo; ma allora quando io mi credea più sicuro di possederla, un’avventura mi fece perdere la speranza.
S’introdusse in casa della signora un personaggio di nascita assai superiore alla mia, di fortune poco più avvantaggiose. Dandole il rango maggior franchezza e maggior libertà di parlare, si dichiarò spasimato, e si esibì di sposarla. Lusingata ella dal titolo, si lasciò vincere dalla vanità, ed aderì alla proposizione. Io me ne accorsi, me ne assicurai, e acceso più di sdegno che di gelosia, non degnai di dolermene, ma ne meditai la vendetta. Viveva in casa con essa una sua Nipote, che non aveva altro merito che quello della gioventù, e come io sapeva quant’era la Zia sensibile, allora quando le parea di non essere preferita, mi posi ad amoreggiar questa giovine, e ad usarle tutte quelle attenzioni, ch’io solea praticare a quell’altra. Se ne accorse la Zia, e pagar volendo col dispetto il dispetto e la vendetta colla vendetta, sollecitò l’affare col nuovo Amante. Ma qual fu il di lei stordimento, allorchè seppe che non a lei, ma alla sua robba si faceva l’amore? Quando intese farsi l’ingiuriosa proposizione, che se voleva essere la Moglie di un Cavaliere dovea comprarsi un sì bel onore colla donazione della metà de’ suoi beni? Rinunziò ella all’idolo dell’ambizione, congedò l’amante interessato, ed io, godendo del disordine in cui la vedeva, continuai a coltivar la Nipote, per maggiormente punirla. Era già qualche tempo ch’io avea composta per essa una canzonetta assai tenera ed espressiva, e che dovea servirmi di mezzo per dichiararle l’amor mio e la mia inclinazione. Non glie l’aveva ancora comunicata, poichè mi riserbava di farlo in una serenata, che doveva eseguirsi sotto le di lei finestre, e a tal effetto m’avea composto l’aria il Sig. Francesco Brusa, dilettante in quel tempo, e poi per sua disgrazia professore di musica. Il nuovo partito, che lusingato avea la Signora, mi fece sospendere la serenata, ed ora mi venne in animo di eseguirla, non per lei, ma per la Nipote. Una sera di grand’estate giocavasi all’ombre in terzo, quand’ecco tutto in un tempo odesi nel canale una sinfonia strepitosa, poichè niente risparmiai acciò la serenata fosse magnifica. Si lasciò il gioco, si corse al poggiuolo, e fu cantata la mia canzone dalla brava Agnese, che passò poscia al Teatro di San Samuele per gl’intermezzi, e di cui avrò occasion di parlare.
Terminata la serenata, strolicavano tutti, chi ne poteva esser l’autore. Io sosteneva assai bene l’incognito, però tutti si unirono a credere che da altri non potesse venir che da me, ma non sapevasi, s’io ordinata l’avessi per obbligar la Nipote, o per riguadagnare la Zia. Questa se ne lunsingava moltissimo, e tutto avrebbe accordato in quel punto, purch’io dichiarassi la cosa fatta per lei. In fatti il giorno dopo, vedutomi ella entrare nella sua casa, in tempo ch’io volgea i passi verso l’appartamento della Nipote, mi chiamò a sè, e mi fece passare nelle sue camere. Colà, colla maggior serietà possibile, l’interpellò nuovamente, se io era l’autor della serenata e il compositor della canzonetta, e per chi intendeva io di aver ordinato un simile divertimento. Soggiunse che da questa mia dichiarazione potea dipendere.... non disse che, ma uno sguardo tenero me lo fece capire. Io ebbi la crudeltà di nascondermi, o almeno di farle capire che non aveva agito per lei. Mi disse: Andate, ve ne pentirete. In fatti me ne andiedi, e me ne sono poscia pentito.
Veggendo ella che nulla potea sperare da me, e temendo di veder sua Nipote maritata prima di lei, pose gli occhi sopra di una persona che avea del merito, ma non osava di dichiararsi, e in brevissimo tempo si accordarono le condizioni fra loro e ne seguirono gli sponsali. La Nipote allora cominciò ad essere l’invidiosa, ed io mi credeva in debito di sostenere un impegno contratto per bizzarria. Non era in caso allora di prendere Moglie, e molto meno una Moglie che prometteami di dote seimila ducati, ma senza alcun fondamento; onde per far qualche cosa anche noi, si segnò il contratto, si pubblicarono le nozze stabilite, con un anno di tempo a concludere; si ricevettero le congratulazioni e le visite dei parenti e degli amici; si mise la sposa in una pompa superiore alla sua ed alla mia condizione, e mia Madre, che mi credeva vicino a sposar la Zia, ch’era ricca, fu costretta per l’amore che mi portava a contentarsi che io sposassi la Nipote assai povera. Quello che sconcertò ancor d’avantaggio gli affari miei, fu la gara in cui si pose la giovane di comparire al pari dell’altra, che potea farlo senza verun incomodo, ed io alla fine dell’anno, quando dovea concludere il Matrimonio, mi trovai senza danaro, coi beni miei ipotecati, con poco guadagno e senza alcuna speranza di conseguire la dote. Qual partito doveva io prendere in una tal circircostanza? Rovinarmi per sempre e rovinar la giovine, che era acciecata dall’amore e dall’ambizione? Confesso che, quantunque cominciato avessi a trattarla per mero capriccio, coll’uso e col tempo, e per le buone grazie che mi faceva, avea cominciato ad amarla, ma grazie al mio buon temperamento, mi sentiva forza bastante per lasciarla senza morir di dolore. Compresi, che se restato fossi in Venezia, non mi avrei potuto sottrar dall’impegno, onde presi la risoluzione di andarmene ed abbandonare la Patria, i Parenti, gli Amici e la mia Professione, in mezzo alle più belle speranze, che lusingar mi potevano con fondamento. Mia Madre sola fu a parte della mia risoluzione e del mio segreto. Aveva fatti dei debiti, bisognava pagarli, ed ella sola poteva assistermi col sagrifizio de’ suoi effetti dotali. Lo fece colle lagrime agli occhi, ma conobbe la necessità di farlo, per non vedermi perduto affatto con una Moglie al fianco. Andò ella a ritirarsi a Modena con mio fratello, per vivere colà economicamente col prodotto de’ miei effetti, e abbandonò i suoi in Venezia ai miei Creditori, finche fossero soddisfatti. Accomodate così le cose alla meglio e con segretezza, affinchè la giovine non lo penetrasse, mi determinai a partire. Ma per dove, con quali mezzi ed a che fare fuor di Venezia? Tutte le mie speranze fondate erano sopra la mia Amalassonta. Pensai di portarla a Milano, credendo che gl’impresarj di quel famoso Teatro me l’avrebbero ben pagata, e me ne avrebbero ordinate dell’altre, e in poco tempo avrei fatto il credito e la mia fortuna. La cosa è arrivata diversamente, come dirò a suo luogo; ma intanto, fissata la risoluzion di partire, niente ha potuto arrestarmi. Scrissi una lettera alla sfortunata giovine che mi aspettava, e glie la feci pervenire allora quando io era partito. Le dipinsi il mio stato, le dissi tutte quelle ragioni che ho in questi fogli distese, e concludeva dicendo, che s’ella avesse il modo sicuro di mandare ad effetto la promessa dei seimila ducati di dote, sarei volato alla Patria, e l’avrei sposata col maggior piacere del mondo, e non mentiva in questo sicuramente, e l’avrei fatto di cuore per debito e per attaccamento, quando riparato avessi a quel precipizio, che mi vedea sovrastare. Non ebbi da lei risposta, perchè non le dissi allora dove addrizzarmela. M’imbarcai per Padova; ecco il primo passo già fatto, eccomi per quella via che mi ha condotto al Teatro. Non fu il dramma per musica, che mi vi ha condotto. Non era questa la mia vocazione. Vedrai ben presto. Lettor carissimo, quali accidenti, quali avventure mi hanno fatto abbracciare il miglior partito.