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Haarlem Utrecht
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AMSTERDAM.


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A due viaggiatori, uno poeta e uno ingegnere, che andassero insieme, per la prima volta, da Haarlem ad Amsterdam, seguirebbe un caso che credo non accada sovente: l’ingegnere si sentirebbe un po’ poeta, e il poeta desidererebbe di trovarsi nei panni dell’ingegnere. Tale è questo strano paese, nel quale lo scrittore, per colpire l’immaginazione e destar l’entusiasmo, non ha da far altro che noverare i chilometri, i metri cubi d’acqua e gli anni di lavoro; onde un poema sull’Olanda sarebbe una meschina cosa senza un’appendice piena di cifre, e una relazione completa d’un ingegnere non avrebbe bisogno che del verso e della rima per essere uno splendido poema.

Appena partito da Haarlem, il treno passa sur un bellissimo ponte di ferro di sei archi, che accavalcia la Spaarne; il qual ponte, immediatamente dopo il passaggio del treno, si apre, come per incanto, [p. 290 modifica]nel mezzo, e lascia il varco libero ai bastimenti. Due soli uomini, movendo una macchina a un segnale del cantoniere, staccano, in due minuti, due archi del ponte, e in un tempo uguale, all’avvicinarsi d’un altro treno, li ricongiungono. Poco dopo passato il ponte, si vedono luccicare all’orizzonte le acque dell’Y.

Qui si prova più vivo che mai un certo sentimento d’inquietudine che turba sovente chi viaggia per la prima volta in Olanda. La strada corre sopra una striscia di terra che separa il fondo dell’antico mare d’Haarlem dalle acque dell’Y; prolungamento, così chiamato per la sua forma, del golfo di Zuiderzee, il quale s’addentra nelle terre, fra Amsterdam e la Nord-Olanda, sino alle dune del Mare del Nord. Per costrurre questa strada ferrata, che venne aperta nel 1839, prima del prosciugamento del lago d’Haarlem, si dovette sovrapporre fascine a fascine, palafitte a palafitte, pietre a pietre, sabbia a sabbia; formare una sorta di istmo artificiale a traverso le paludi; comporre, in una parola, il terreno, sul quale la strada doveva passare; e fu un lavoro pieno di difficoltà e dispendiosissimo, che richiede tuttora cure e spese continue. Questa lingua di terra si va assottigliando fino ad Halfweg, che è la sola stazione compresa fra Haarlem ed Amsterdam. Qui le acque dell’Y e il fondo del lago prosciugato sono divisi da cateratte colossali, alle quali è affidata l’esistenza d’una buona parte dell’Olanda meridionale. Se queste cataratte [p. 291 modifica]si aprissero, la città d’Amsterdam, centinaia di villaggi, tutto l’antico lago, una distesa di terra di cinquanta chilometri sarebbe invasa e devastata dalle acque. Il prosciugamento del lago d’Haarlem ha scemato questo pericolo; ma non l’ha tolto; e però ad Halfweg è stabilita una direzione speciale della così detta amministrazione delle acque, che custodisce quelle termopili dell’Olanda, coll’occhio sul nemico e la mano sull’armi.

Passata la stazione di Halfweg, si vede a sinistra, di là dal golfo dell’Y, un movimento confuso come di migliaia d’alberi di bastimenti sbattuti dalla tempesta, che si tuffino e si rituffino nel mare; e sono le braccia di centinaia di mulini a vento mezzo nascosti dalle dighe, i quali si stendono lungo la riva della Nord-Olanda, nei dintorni della città di Zandam, in faccia ad Amsterdam. Poco dopo, apparisce Amsterdam. Al primo aspetto di questa città, anche dopo aver visto tutte le altre dell’Olanda, non si può trattenere un movimento di meraviglia. È una foresta di altissimi mulini a vento della forma di torrioni, di campanili, di fari, di piramidi, di coni tronchi, di case aeree, che agitano da tutte le parti le loro enormi braccia incrociate, e formano al disopra dei tetti e delle cupole un roteamento immenso come d’un nuvolo d’uccelli mostruosi che battan le ali sulla città. In mezzo a questi mulini, s’alzano innumerevoli torricciuole d’officine, alberi di bastimento, campanili di architettura fantastica, cime di edifizi bizzarri, pinacoli, punte, forme sconosciute; più lontano [p. 292 modifica]si vedono altre ali di mulino fitte e intricate, che paiono una vastissima rete sospesa nell’aria; tutta la città è nera; il cielo basso ed inquieto; è uno spettacolo grandioso, confuso e strano, visto il quale, si entra in Amsterdam con una vivissima curiosità.

Il primo effetto che produce questa città, appena si sono percorse alcune strade, è difficile ad esprimersi. Pare una città immensa e disordinata; Venezia ingigantita e imbruttita; una città olandese, sì, ma vista a traverso una lente che la faccia apparire tre volte più grande; la capitale d’un’Olanda immaginaria di cinquanta milioni d’abitanti; una metropoli antica, fondata da un popolo di giganti sul delta d’un fiume smisurato, per servir di porto a una flotta di diecimila navi; una città maestosa, severa, quasi lugubre, che desta un sentimento di stupore, sul quale s’ha bisogno di pensare.

La città, posta sulla riva dell’Y, è fabbricata sopra novanta isole, quasi tutte di forma rettangolare, congiunte fra loro da circa trecentocinquanta ponti. La sua figura è un perfetto semicircolo, percorso da tanti canali in forma d’archi concentrici a quello che chiude la città, e attraversati da altri canali convergenti al centro, come i fili d’una tela di ragno. Un largo corso d’acqua, chiamato l’Amstel (il quale forma colla parola dam, diga, il nome d’Amsterdam) divide la città in due parti quasi [p. 293 modifica]uguali, e si va a gettare nell’Y. Quasi tutte le case sono fabbricate su palafitte per il che suol dirsi che la città di Amsterdam, rovesciata, presenterebbe lo spettacolo d’una grande foresta senza fronde e senza rami; e quasi tutti i canali son fiancheggiati da due larghe strade e da due file di tigli.

Questa regolarità di forma per la quale la vista può spaziare da tutte le parti, dà alla città un aspetto ammirabilmente grandioso. Ad ogni voltata di strada, si vedono nella nuova direzione, tre, quattro, persino sei ponti levatoi, quale ritto, quale abbassato, quale in movimento, i quali presentano all’occhio una fuga di porte, e una confusione inestricabile di travi e di catene, da far pensare che Amsterdam sia composta di tanti quartieri nemici fra loro e fortificati gli uni contro gli altri. I canali, grandi come fiumi, formano qua e là svolti e bacini spaziosi, intorno ai quali si gira, passando sur una successione di ponti congiunti gli uni agli altri. Da tutti i crocicchi si vedono prospetti lontani d’altri ponti, di altri canali, di bastimenti, di edifizi, velati da una leggera nebbia che fa apparire maggiore la lontananza.

Le case, quasi tutte altissime, rispetto a quelle delle altre città olandesi, nere, colle finestre e le porte contornate di bianco, colle facciate a punta e a scalini, decorate di bassorilievi che rappresentano urne, fiori ed animali; sono quasi tutte difese sul davanti da colonnette, balaustrate, stecconati, catene, [p. 294 modifica]sbarre di ferro, e divise le une dalle altre da muriccioli ed assiti; e dentro queste specie di fortezze avanzate che ingombrano una buona parte della strada, vi son tavolini, panche con vasi di fiori, seggiole, secchie, carrette, ceste, carcasse di vecchi mobili; così che a guardar le strade da una delle estremità, pare che gli abitanti abbian portato fuori tutta la roba di casa per una sgomberatura universale. Moltissime case hanno un piano sottostante alla strada, al quale si scende per una scaletta di legno o di pietra; e in quel vacuo tra la strada e il muro, ci sono altri vasi di fiori, suppellettili, mercanzie esposte in vendita, gente che lavora, tutto un mondo sotterraneo che brulica ai piedi di chi passa.

Le strade principali presentano uno spettacolo unico al mondo. I canali sono coperti di bastimenti e di barconi; e sulle strade che li fiancheggiano, si vedono da una parte mucchi di botti, di casse, di sacchi, di balle; dall’altra una fila di botteghe splendide. Di qui formicola il popolo in soprabito, le signore, le fantesche, i merciaiuoli ambulanti, i bottegai; di là il popolo rozzo e vagante dei marinai e dei battellieri colle loro mogli e i loro bambini. A destra si ode il vivace cicaleccio cittadino, a sinistra le grida acute e lente della gente di mare. Da un lato si sente il profumo dei fiori che adornan le finestre e l’odore ghiotto delle trattorie; dall’altro, il puzzo di catrame e il fumo delle povere cucine delle barche a vela. Qui si alza un ponte levatoio [p. 295 modifica]per dar passo a un bastimento; là si affolla la gente per passare sopra un ponte spezzato che si ricompone; più oltre una zattera traghetta un gruppo di persone all’altra riva del canale; in fondo alla strada, parte un battello a vapore; dall’estremità opposta entra una fila di barconi carichi; qui si apre una cateratta; lì scivola un trekschuit; poco distante gira un mulino, laggiù si piantano le palafitte per una nuova casa. Il cigolío delle catene dei ponti si mesce collo strepito dei carri, il fischio dei piroscafi rompe le ariette dei campanili, i cordami dei bastimenti s’intralciano colle fronde degli alberi, la carrozza passa accanto alla barca, la bottega si specchia nel canale, le vele si riflettono nelle vetrine, la vita di terra e la vita di mare si rasentano, s’incrociano, passano l’una sull’altra, e si confondono in uno spettacolo nuovo ed allegro come una festa d’alleanza e di pace.

Se dalle strade principali uno si addentra nei vecchi quartieri, lo spettacolo cangia affatto. Le strade più strette di Toledo, i vicoli più oscuri di Genova, le case più squilibrate di Rotterdam, non son nulla in confronto della strettezza, dell’oscurità e dello scompiglio architettonico che si vede in quei quartieri. Le strade paiono crepe aperte dal terremoto. Le case alte e nere, mezzo nascoste dai cenci stesi sulle finestre e appesi alle corde, sono inclinate a segno da metter paura; alcune sono ripiegate sopra sé stesse, come se fossero sul punto di spezzarsi; [p. 296 modifica]altre si toccano quasi coi tetti, non lasciando vedere che un filo di cielo; altre pendono da due parti opposte, presentando la forma d’un trapezio rovesciato; e paion case da palcoscenico nell’atto che son portate via per cangiare la scena. Furon costrutte così appositamente per lo scolo delle acque, s’inclinarono perchè cedette il terreno? V’è chi crede la prima e chi la seconda cosa; ma i più le credon tutte e due, il che mi pare più ragionevole. Ed anche in quei laberinti, dove formicola una plebe pallida e trista per la quale un raggio di sole è una benedizione di Dio, si vedono vasi di fiori, specchietti e tendinette alle finestre, che rivelano una povertà non scompagnata dal gentile amor della casa.

La parte più pittoresca della città è quella compresa nella curva dell’Amstel, intorno alla grande piazza del Nuovo Mercato. Là si vedono crocicchi di strade tenebrose e di canali deserti, piazzette solitarie circondate da muri che sgocciolano acqua, case filigginose, muffose, screpolate, decrepite, bagnate da acque morte ed immonde; vasti magazzini, con tutte le porte e le finestre chiuse; barche e barconi abbandonati in fondo a canali senza uscita, che hanno l’aria di aspettare dei congiurati o delle streghe; mucchi di materiali da costruzione, che presentan l’aspetto di avanzi d’incendio o di rovina; bacini coperti d’erba e chiassuoli fangosi; muri, acqua, ponti, tutto nero e tetro, da destare in chi passi di là per la prima volta, un sentimento di inquietudine, [p. 297 modifica]come se ci spirasse la minaccia di qualche sventura.

Chi ama i contrasti, non ha che da recarsi da questa parte della città nella piazza chiamata il dam, dove convergono le strade principali, e si trova il Palazzo Reale, la Borsa, la Nuova Chiesa e il monumento detto la Croce di Metallo, innalzato in commemorazione della guerra del 1830. Là v’è un movimento fittissimo e continuo di gente e di carrozze, che rammenta lo square di Trafalgar di Londra, la Porta del Sole di Madrid e la piazza della Maddalena di Parigi. Stando là un’ora si gode il più svariato spettacolo che si possa vedere in Olanda. Passano faccioni rossi e petulanti dell’alto patriziato mercantile, volti abbronzati delle colonie, stranieri di tutte le gradazioni di biondo, ciceroni, suonatori d’organetti, ambasciatori della morte col lungo velo nero, cuffiette bianche di fantesche, panciotti variopinti di pescatori del Zuiderzee, orecchini a paraocchi delle donne della Nord-Olanda, diademi d’argento della Frisia, caschetti dorati della Groninga, camicie gialle dei lavoratori delle torbiere, gonnelle metà nere e metà rosse delle orfane degli ospizi, vestiti bizzarri degli abitanti delle isole, cignons spropositati, cappelli da carnovale; grandi spalle, grandi fianchi, grandi ventri, e tutta questa processione avvolta dal fumo dei sigari e delle pipe, e accompagnata da un suono di parole tedesche, olandesi, inglesi, francesi, fiamminghe, danesi, da [p. 298 modifica]credere d’essere capitati nella valle di Giosafat o ai piedi della torre di Babele.

Dalla piazza del Dam si arriva in pochi minuti al porto, che offre anch’esso uno spettacolo grandioso e strano oltre ogni dire. A primo aspetto, non ci si capisce nulla. Si vedono da ogni parte dighe, ponti, cateratte, palizzate, bacini, che presentano l’immagine d’un’immensa fortezza costrutta così astutamente, perchè nessuno riesca a raccapezzarne la forma; e non ci si riesce infatti che per mezzo della carta e dopo una passeggiata di parecchie ore. Dal mezzo della città, alla distanza di mille metri l’una dall’altra, partono in direzione opposta due gran dighe arcate che abbracciano e difendono dal mare le due estremità di Amsterdam sporgenti oltre il semicircolo delle sue case come le punte d’una mezza luna. Queste due dighe che hanno ciascuna una gran porta munita d’una cateratta gigantesca, racchiudono due bacini capaci di mille bastimenti d’alto bordo e parecchie isolette sulle quali son magazzini, arsenali, opificii, dove lavorano migliaia d’operai. Fra le due grandi dighe s’avanzano parecchie dighe minori, formate di robuste palizzate, che servono di stazione d’imbarco per i battelli a vapore. In tutte queste dighe s’innalzano case, tettoie, baracche, fra le quali formicola una folla di marinai, di passeggieri, di facchini, di donne, di ragazzi, di carrozze, di carri, chiamati là dalle partenze e dagli arrivi che si succedono rapidamente [p. 299 modifica]dal far del giorno alla sera. Dai punti avanzati di codeste dighe si abbraccia con uno sguardo l’intero porto: le due foreste di navigli dalle bandiere di mille colori, racchiusi nei due grandi bacini; i bastimenti che arrivano dal gran canale del Nord, e che entrano a vele spiegate nel mare di Zuiderzee; i barconi e le barche che s’incrociano da tutte le parti del golfo; la costa verde della Nord-Olanda; i cento mulini di Zandam; la lunghissima schiera delle prime case di Amsterdam che disegnano sul cielo le loro mille punte nere; le innumerevoli colonne di fumo filigginoso, che s’alzano dalla città sull’orizzonte grigio; e quando le nuvole sono in moto, una continua, rapidissima, meravigliosa variazione di colori e d’aspetti, per la quale ora sembra di essere nel più gaio, ora nel più tristo paese del mondo.

Ritornando in città, per osservare particolarmente gli edifizii, i primi a chiamar l’attenzione sono i campanili. In Amsterdam ci sono templi di tutte le religioni: sinagoghe, chiese per i riformati calvinisti, chiese pei luterani della confessione Ausburgo strettamente osservata, chiese per i luterani della confessione d’Ausburgo osservata largamente, chiese per i rimostranti, per i mennoniti, per i valloni, per gl’inglesi episcopali, per gl’inglesi presbiteriani, per i cattolici, per i greci scismatici; e ognuno di questi templi innalza al cielo un campanile che par stato fatto per vincere tutti gli altri di originalità e di bizzarria. Quello che dice Vittor Hugo degli architetti [p. 300 modifica]fiamminghi, i quali fabbricarono dei campanili ponendo un’insalatiera rovesciata sopra un berretto da giudice, una zuccheriera sopra l’insalatiera, una bottiglia sulla zuccheriera, e un ostensorio sulla bottiglia, si può riferire in parte anche ai campanili d’Amsterdam. Alcuni son formati di chioschi o di tempietti sovrapposti, altri di tante torricine che paiono tirate fuori l’una dall’altra, in modo che a dare un colpo sulla più alta, tutto il campanile si debba accorciare come un cannocchiale; altri son sottili come minareti, quasi interamente costrutti di ferro, ornati, dorati, traforati, trasparenti; altri coronati dal mezzo in su di terrazzini, di balaustrate, di archi, di colonne; quasi tutti poi sormontati da un globo o da una corona di ferro della forma d’un bulbo, sulla quale posa un’altra corona, che regge alla sua volta una palla, la quale sostiene un’asta, in cui è confitto ancora qualche altro oggetto, che forse non è l’ultimo neanch’esso; tal quale come le torricciuole che fanno i ragazzi, sovrapponendo tutti i ninnoli che cascan loro nelle mani.

Fra gli edifizii monumentali, che non sono molti, v’è il palazzo reale, il primo dei palazzi d’Olanda, costrutto tra il 1648 e il 1655, sopra tredicimilaseicentocinquantanove palafitte; grandioso, pesante e nero; del quale il più bell’ornamento è una sala da ballo che si dice la più vasta d’Europa, e il maggiore difetto, quello di non avere portone, per il che vien chiamato comunemente la casa senza porta. Per contrapposto, l’edifizio della Borsa che [p. 301 modifica]gli sorge dirimpetto, fondato su trentaquattromila palafitte, perchè non ha di notevole che un peristilio di diciassette colonne, si chiama la porta senza casa; bisticcio che ogni olandese si fa un dovere di ripetere agli stranieri, sorridendo impercettibilmente coll’estremità delle labbra. Chi capita ad Amsterdam nella prima settimana della Kermesse, ch’è il carnevale dell’Olanda, può vedere in questo edilizio uno spettacolo curiosissimo. Per sette giorni, nelle ore in cui non si fanno affari, la Borsa è aperta a tutta la ragazzaglia della città, che v’irrompe, facendo uno strepito infernale di pifferi, di tamburi e di grida; licenza che, se è vera la tradizione, sarebbe stata concessa dal Municipio in onore di alcuni ragazzi, i quali, al tempo della guerra d’indipendenza, giocherellando presso l’antica Borsa, scopersero gli Spagnuoli che si preparavano a far saltare in aria l’edilizio con un naviglio pieno di polvere, corsero a darne avviso ai cittadini, e mandarono così a vuoto il tentativo dei nemici. Oltre il palazzo reale e la Borsa, sono un bell’ornamento di Amsterdam il palazzo dell’industria, fatto di cristallo e di ferro, e sormontato da una cupola leggerissima, che da lontano, quando vi batte il sole, gli dà l’aspetto d’una grande moschea; e come monumenti storici, le vecchie torri che s’alzano sulla riva del porto.

Fra queste torri ve n’è una che si chiama Torre dell’angolo dei piangenti o Torre delle lagrime, perchè là s’imbarcavano altre volte i marinai olandesi [p. 302 modifica]per lunghissimi viaggi, e le loro famiglie andavano presso quella torre per salutarli e vederli partire, e piangevano. Sopra la porta v’è un rozzo bassorilievo segnato della data 1569, il quale rappresenta il porto, una nave che parte, e una donna che piange; e fu posto in commemorazione della moglie d’un marinaio, che morì di dolore per la partenza di suo marito.

È stato osservato che quasi tutti gli stranieri che vanno a veder quella torre, dopo aver dato un’occhiata al bassorilievo e alla Guida che ne spiega il significato, si voltano verso il mare come per cercare il bastimento che parte, e rimangono qualche tempo pensierosi. A che cosa pensano? Forse a quello che pensai io stesso. Seguono quel bastimento nei mari artici, alla pesca delle balene o alla ricerca d’una nuova via per le Indie, e alla loro mente si spiega come una visione l’epopea tremenda della marina olandese in mezzo agli orrori del polo: i mari ingombri di ghiaccio, il freddo che fa cadere a brani la pelle delle mani e del viso, gli orsi bianchi che s’avventano sui marinai, e spezzan le armi coi denti; i cavalli marini che accorrono a stormi furiosi per rovesciare le scialuppe; le rocce di ghiaccio mulinate dalle onde e dal vento, e le vaste pianure ghiacciate e mobili che s’incontrano, imprigionano e stritolano le flotte; le isole deserte sparse di cadaveri di marinai, di carcasse di navi, di cinture di cuoio rosicchiate nella disperazione dell’agonia dagl’infelici che morirono di fame; poi le frotte di balene che volteggiano intorno ai navigli, le formidabili [p. 303 modifica]contorsioni del mostro ferito nelle acque insanguinate, le barche rovesciate dai colpi di coda, i pescatori che cascan nel mare, e vi rimangono irrigiditi, i naufraghi erranti seminudi nella nebbia e nelle tenebre, le fosse scavate nel ghiaccio e ricoperte col ghiaccio per ripararsi dalle fiere, i sonni che finiscono colla morte. Poi ancora sconfinate solitudini bianche e brumose, dove non si sente altro rumore che quello dei remi delle scialuppe ripercosso dalle caverne e i gridi lamentevoli delle foche; poi altri deserti dove non è più traccia di vita, le montagne di ghiaccio incommensurate, gl’immensi spazi ignoti, le nevi secolari, l’inverno eterno, la tristezza solenne delle notti del polo, il silenzio infinito in cui l’anima si spaura, i marinai consunti, trasfiguriti, moribondi, che s’inginocchiano sul ponte, e giungono le mani verso l’orizzonte infocato dall’aurora boreale, chiedendo a Dio di rivedere il sole e la patria. Scienziati, mercatanti, poeti, tutti s’inchinano a quelle umili avanguardie che hanno tracciato coi loro scheletri sulle nevi immaculate del polo il primo sentiero della vita.

Da questa torre, voltando a destra, e seguitando a camminare lungo il porto, si arriva alla Plantaadije, vasto quartiere composto di due isole congiunte da molti ponti, nel quale c’è un parco, un giardino zoologico, un giardino botanico, un passeggio pubblico, che formano una grande oasi verde ed allegra in mezzo alle acque livide e alle case nere. Là concerti [p. 304 modifica]musicali, là feste notturne, là il fiore della bellezza amsterdamese; fiore che, per buona fortuna dei viaggiatori di fibra sensitiva, spande un profumo soave; ma che non dà al capo. Dal qual pericolo, in ogni caso, non c’è miglior rifugio che il giardino zoologico, proprietà d’una società di quindicimila soci; il più bel giardino zoologico d’Olanda, che pure ne ha dei bellissimi, e uno dei più ricchi d’Europa; nel quale si scorda facilmente in mezzo alle salamandre massime del Giappone, ai serpenti boa di Iava e ai bradypi didactyli di Surinam, i visetti pallidi e gli occhi azzurri delle belle calviniste.

Dalla Plantaadije, passando su parecchi ponti, e fiancheggiando diversi canali, si arriva sulla grande piazza del Boter Markt, dove c’è una statua gigantesca del Rembrandt e l’ufficio del consolato italiano. Da questa piazza si va al quartiere degli Ebrei che è una delle meraviglie di Amsterdam.

Per andarci, domandai la strada al nostro gentilissimo console, il quale mi rispose: — Cammini diritto fin che non si trovi in un quartiere infinitamente più sudicio di tutti quelli ch’ella ha considerati finora come il non plus ultra del sudiciume; quello è il ghetto; non può sbagliare. — Andai innanzi, ognuno può immaginare con che aspettazione; passai accanto a una sinagoga; mi soffermai un momento in un crocicchio; poi presi la strada più stretta, e in capo a pochi minuti, riconobbi il ghetto. La mia aspettazione fu superata. [p. 305 modifica]È un labirinto di strade strette, fangose e cupe, fiancheggiate da case vecchissime, che pare debbano cadere in rovina a dare un calcio nel muro. Dalle corde tese fra finestra e finestra, dai davanzali, dai chiodi piantati nelle porte, spenzolano e svolazzano sui muri umidi camicie sbrandellate, gonnelle rappezzate, vestiti unti, lenzuoli macchiati, calzoni cenciosi. Davanti alle porte e sugli scalini rotti, in mezzo alle cancellate cadenti, sono esposte le vecchie mercanzie. Rottami di mobili, frammenti d’armi, oggetti di divozione, brandelli d’uniformi, avanzi di strumenti, frantumi di giocattoli, ferramenti, cocci, frangie, cenci, tutte le cose che non han più nome in alcuna lingua umana, tutto quello che hanno guasto e disperso la ruggine, il tarlo, il foco, la rovina, il disordine, la dissipazione, le malattie, la miseria, la morte; tutto quello che i servitori spazzano, che i rigattieri ributtano, che i mendicanti calpestano, che gli animali trascurano; tutto ciò che ingombra, che insudicia, che puzza, che stomaca, che contamina; tutto si ritrova là a mucchi e a strati, destinato a un commercio misterioso, ad accoppiamenti impreveduti, a trasformazioni incredibili. In mezzo a quel cimitero di cose, a quella babilonia d’immondizie, brulica un popolo macilento, pezzente, pidocchioso, accanto al quale i gitani dell’Albaicin di Granata son gente pulita e profumata. Come in tutti i paesi, così anche là hanno preso ad imprestito dal popolo presso cui vivono, il colore del pelo e del viso; ma hanno conservato i nasi adunchi, i menti aguzzi, [p. 306 modifica]i capelli crespi, tutti i tratti della razza semitica. Il vocabolario non ha parole per dare un’immagine di quella gente. Capigliature in cui non è mai passato un pettine, occhi che fanno raccapriccio, magrezze di cadaveri consunti, bruttezze che destan pietà, vecchi che serbano appena figura umana, ravvolti in ogni sorta di vestiti di cui non si riconosce più né colore né forma né a che sesso appartengano, dai quali escono, e s’allungano tremolando mani scheletrite con giunture acute di locuste e di ragni. Tutto si fa in mezzo alla strada. Le donne friggono i pesci su piccoli fornelli, le ragazze cullano i bambini, gli uomini rimestano i loro vecchiumi, i ragazzi seminudi si avvoltolano sul selciato coperto di legumi fradici e di brutture di pesci; le vecchie decrepite, sedute in terra, combattono colle unghie ferine i prudori del corpo immondo, scoprendo coll’inconsapevolezza del bruto cenci riposti e membra da cui lo sguardo rifugge. Camminando per lunghi tratti sulla punta dei piedi, turandomi qualche volta il naso, badando a scansare cogli occhi le cose di cui non avrei potuto sostenere la vista, percorsi quasi tutte quelle strade, e quando riuscii sulla sponda d’un largo canale, in un luogo aperto e pulito, mi parve di essere capitato nel paradiso terrestre, ed aspirai con voluttà l’aria impregnata di catrame.

In Amsterdam, come in tutte le altre città olandesi, ci sono molte società particolari, alcune delle quali hanno l’importanza di grandi istituzioni nazionali; [p. 307 modifica]principalissima la Società d’utilità pubblica, fondata nel 1784, che è quasi un secondo governo per l’Olanda. Il suo scopo è l’educazione del popolo, alla quale provvede colla pubblicazione di libri elementari, letture pubbliche, biblioteche per gli operai, scuole d’istruzione primaria, scuole professionali, scuole di canto, case di asilo, casse di risparmio, premi di buona condotta, onorificenze per gli atti di valore e di abnegazione. La società, retta da un consiglio d’amministrazione composto di dieci direttori e d’un segretario generale, si compone di più di quindicimila soci, divisi in trecento gruppi, i quali formano altrettante società indipendenti, sparpagliate nelle città, nei villaggi, nei più piccoli Comuni dello Stato. Ogni socio paga poco più di dieci lire l’anno. Colla somma (modesta rispetto alla vastità dell’istituzione) che questa tassa produce, la società esercita, come disse Alfonso Esquiroz, una specie di magistratura anonima sui pubblici costumi; stringe insieme col vincolo d’una beneficenza imparziale tutte le sètte religiose; spande a larga mano per tutto il paese istruzione, soccorsi, conforti; e come nacque indipendente, così opera e procede fedele al principio degli Olandesi, che l’albero della beneficenza deve crescere senza innesti e senza puntelli. Altre società come l'Arti et Amicitiae, la Felix Meritis, la Doctrina et Amicitia, hanno per iscopo l’incremento delle arti e delle scienze, promuovono mostre pubbliche, concorsi, letture, e sono ad un tempo splendidi luoghi di ritrovo, [p. 308 modifica]forniti di belle biblioteche, e di quasi tutti i grandi giornali d’Europa.

Sulle istituzioni di carità d’Amsterdam ci sarebbe da scrivere un libro. È noto quello che Luigi XIV, quando si disponeva ad invadere l’Olanda, disse a Carlo II d’Inghilterra: "Non abbiate timore per Amsterdam; io ho ferma speranza che la Provvidenza la salverà, non fosse che in considerazione della sua carità per i poveri." Là tutte le sventure umane trovano asilo e lavoro. Mirabile sopra tutti è l’ospizio degli orfani di cittadini amsterdamesi, che ebbe l’onore di ospitare quell’immortale Yan Speyk, il quale, nel 1831, sulle acque della Schelda, salvò l’onore della bandiera olandese col sacrifizio della sua vita. Questi orfani hanno un costume curiosissimo, metà rosso e metà nero, in modo che guardati di profilo, da una parte paion vestiti per una festa carnevalesca, dall’altra, per una cerimonia funebre; e questa bizzarra divisa è stata scelta perchè sian riconosciuti dai tavernai a cui è proibito di lasciarli entrare a far stravizi, e dagl’impiegati delle strade ferrate che non debbono lasciarli viaggiare senza il permesso dei direttori: la qual cosa, sia detto di volo, si sarebbe potuta ottenere con un vestimento meno ridicolo. Questi orfani bicolori si vedono per tutto, freschi, puliti e cortesi, che rallegrano il cuore. In tutte le feste pubbliche, occupano il primo posto; in tutte le cerimonie solenni si ode il loro canto; la prima pietra dei monumenti nazionali è posta dalle loro mani; e il popolo li ama e li onora. [p. 309 modifica]Per finir di parlare degli stabilimenti, bisognerebbe rammentare le industrie particolari di Amsterdam, come il raffinamento del borace e della canfora e la fabbricazione dello smalto; ma son cose da lasciarsi ai viaggiatori enciclopedici di là da venire. Merita però un cenno speciale la pulitura dei diamanti, principalissima delle industrie amsterdamesi, la quale, come fu per lungo tempo, in Europa, un segreto degli Ebrei d’Anversa e d’Amsterdam, è tuttora esercitata quasi unicamente dai circoncisi. Questo commercio ammonta anno per anno alla somma di centomilioni di lire, e provvede alla vita di più di diecimila persone. Uno dei più belli opifici è quello posto in Zuanenburgerstraat, nel quale gli operai medesimi spiegano in francese le tre operazioni del taglio, della prima pulitura e della pulitura definitiva, fatte sotto gli occhi dei visitatori, con un garbo e una destrezza ammirabili. È bello il vedere quelle umili pietruzze, somiglianti a’ frammenti di gomma arabica sudicia, che a trovarsele in casa si butterebbero dalla finestra insieme coi mozziconi di sigaro, vederle in pochi minuti, trasformarsi, accendersi, animarsi quasi d’una vita sfolgorante e festosa, come se comprendessero il destino che li trasse dalle viscere della terra per farli servire alle pompe del mondo. Di quante strane vicende sarà testimonio o attore o cagione, quella piccola pietra che l’operaio stringe fra le dita del suo guanto ferrato! Andrà forse a brillare sulla fronte d’una Regina, che una notte l’abbandonerà nei suoi [p. 310 modifica]scrigni per sottrarsi alla folla che ha atterrate le porte del palazzo. Caduta nelle mani d’un comunista, scintillerà dopo qualche tempo sul tavolo d’una Corte d’Assisie accanto a un pugnale macchiato di sangue. Passerà per una lunga vicenda di feste nuziali, di conviti, di danze, e poi trasvolando per la porta del Monte di Pietà o per il finestrino d’una carrozza assalita, andrà di mano in mano, di paese in paese, a sfolgorare sulle dita d’una principessa in un palco del teatro dell’opera di Pietroburgo. Di qui andrà ad aggiungere un punto luminoso sopra la sciabola d’un pascià dell’Asia Minore; e poi a tentare la virtù d’una crestaia di sedici anni nel quartiere di Sant’Antonio a Parigi; e infine, chi sa? a ornare l’orologio d’un pronipote di colui che l’ha messa pel primo agli onori del mondo; poiché di quegli operai ve n’è qualcuno che mette tanto da parte da lasciare un capitaletto alla sua discendenza. Fra gli altri, v’era qualche anno fa, nell’opifizio di Zuanenburgerstraat, il vecchio israelita che lavorò il famoso diamante Koynor, il quale, oltre la gran medaglia d’onore dell’Esposizione di Parigi, gli fruttò una mancia di diecimila fiorini e un bel regalo della Regina d’Inghilterra.

Ad Amsterdam c’è il più bel Museo di Pittura dell’Olanda.

Lo straniero che v’entra preparato all’ammirazione dei due più grandi capolavori della pittura olandese, non ha bisogno di domandare dove siano. [p. 311 modifica]Appena ha oltrepassato la soglia, vede una piccola sala piena di gente immobile e silenziosa, entra, e si trova nel penetrale più sacro del tempio: a destra ha la Ronda di notte del Rembrandt, a sinistra il Banchetto della guardia civica del Van der Helst.

Dopo aver visto e rivisto questi due quadri, mi divertii sovente a osservare coloro che entrano in quella sala per la prima volta. Quasi tutti, appena entrati, si fermano, guardano con stupore di qua e di là, poi sorridono, e poi si voltano a destra. Il Rembrandt vince.

La Ronda di notte, o come altri vorrebbe chiamarla, L’uscita degli archibugieri, od anche L’uscita della compagnia di Banning Cock, la più vasta tela del Rembrandt, è più che un quadro, è uno spettacolo, e uno spettacolo che sbalordisce. Tutti i critici francesi, per esprimere l’effetto che produce, si son serviti della stessa frase: C’est écrasant. Un gran movimento di figure umane, una gran luce, una grande oscurità: col primo sguardo non si afferra altro, e per qualche momento non si sa dove fissar gli occhi per cercare di rendersi conto di quella grandiosa e splendida confusione. Sono ufficiali, alabardieri, ragazzi che corrono, archibugieri che caricano e sparano, giovani che suonano il tamburo, gente che si china, parla, grida, gesticola; vestiti tutti d’un costume differente, con cappelli rotondi, cappelli a punta, pennacchi, caschi, morioni, gorgiere di ferro, collaretti di bisso, giustacuori ricamati d’oro, stivaloni, calze di tutti i colori, armi di [p. 312 modifica]tutte le forme; e questa frotta disordinata, tumultuosa e luccicante si stacca dal fondo oscuro del quadro, e s’avanza verso chi guarda. I due primi personaggi sono Frans Banning Cock, signore di Purmerland e di Ilpendam, capitano della compagnia, e il suo luogotenente Willem van Ruijtenberg, signore di Vlaardingen, che camminano l’uno accanto all’altro. Le due sole figure in piena luce sono questo luogotenente, vestito di una casacca di bufalo, con ornamenti d’oro, ciarpa, gorgiera, pennacchio bianco e grandi stivali; e una bambina che gli vien dietro, colla capigliatura bionda e imperlata, e una veste di raso giallo; tutti gli altri personaggi sono nell’oscurità o nell’ombra, eccettuate le teste che son tutte illuminate. Da che luce? Ecco l’enigma. È la luce del sole? è quella della luna? è quella delle fiaccole? Lumeggiamenti d’oro e d’argento, riflessi lunari, chiarori infocati, personaggi, come la bambina dai capelli biondi, che sembrano brillare di luce propria, volti che paiono rischiarati dalle fiamme d’un incendio, scintillamenti che abbarbagliano, ombre, crepuscoli e oscurità di sotterraneo, tutto vi si ritrova armonizzato e contrapposto con un ardimento miracoloso ed un’arte insuperabile. Vi sono delle stonature di luce? delle oscurità gratuite? degli accessori troppo rilevati a danno delle figure? delle figure vaghe o grottesche? delle lacune e delle bizzarrie ingiustificate? Tutto è stato detto intorno a codesto quadro, argomento d’entusiasmo cieco e di censure spietate, levato a cielo come una meraviglia [p. 313 modifica]del mondo, e considerato indegno del Rembrandt, discusso, interpretato, spiegato in mille modi e in mille sensi. Ma non ostante tutte le censure, tutti i difetti, tutte le opposte interpretazioni, esso è là da due secoli trionfante e glorioso, e più lo si guarda, più s’illumina e si avviva; ed anco veduto di volo, rimane per sempre nella memoria con tutti i suoi splendori e i suoi misteri, come una stupenda visione.

Il quadro del Van der Helst, (pittore del quale non si sa nulla, eccetto che nacque in Amsterdam sul principio del secolo decimosettimo, e vi passò una gran parte della sua vita) rappresenta un banchetto col quale la guardia civica di Amsterdam festeggiò la pace di Munster il 18 giugno del 1648. Il quadro contiene venticinque figure di grandezza naturale, tutte ritratti fedelissimi di personaggi noti, dei quali si conservano i nomi. Sono ufficiali, sergenti, portabandiere, guardie, aggruppati intorno a una mensa, che si stringono la mano, si portano brindisi, si apostrofano; e chi taglia, chi mangia, chi sbuccia aranci, chi mesce. Il quadro del Rembrandt è un’apparizione fantastica; il quadro del Van der Helst è uno specchio che riflette una scena reale. Non c’è unità, non ci son contrasti, non ci son misteri: tutte le cose vi son rappresentate colla stessa cura e la stessa evidenza. Teste e mani, figure vicine e figure lontane, corazze d’acciaio e frangio di trina, cappelli piumati e stendardi di seta, cornucopie d’argento e bicchieri dorati; vasi, posate, [p. 314 modifica]stoviglie, vivande, vini, armi, ornamenti, tutto spicca, splende, inganna, seduce. Le teste, considerate una per una, sono ritratti meravigliosamente riusciti, dai quali un medico potrebbe con tutta sicurezza argomentare il temperamento e prescrivere le cure preventive per la salute di tutti. Delle mani è stato detto argutamente e con ragione che, staccate dai corpi e mescolate tutte insieme, si potrebbero riconoscere e rimettere a ciascuna figura senza pericolo d’ingannarsi, tanto sono finite, distinte, individuate, per così dire, colle persone a cui appartengono. Viso per viso, costume per costume, oggetto per oggetto, più lo si guarda, e più si scoprono particolari, minuzie, tocchi, nonnulla d’un’esattezza e d’una verità da far strabiliare. Di più, quella varietà e quello splendore di colori, la bonomia e la freschezza dei volti, il vestiario pomposo, i mille oggetti luccicanti, danno tutti insieme a quel gran quadro un’aria di festa e di allegria, la quale facendo dimenticare la volgarità del soggetto, si trasfonde in chi guarda, e gli desta un sentimento di simpatia amichevole e di ammirazione serena, che si rivela in un sorriso affabile anche sul volto dei visitatori più accigliati.

Del Rembrandt v’è ancora nel Museo il gran quadro intitolato: I sindaci dei mercanti di panno fatto diciannove anni dopo la Ronda di notte, con minor foga giovanile e meno bizzarria d’immaginazione; ma con tutto il vigore d’un ingegno maturo; e non meno meraviglioso dell’altro per l’effetto del [p. 315 modifica]chiaroscuro, per l’espressione delle figure. per forza di colorito, per esuberanza di vita: preferito da qualcuno alla Ronda. Del Van der Helst v’è un altro quadro, I sindaci della confraternita di san Sebastiano ad Amsterdam, nel quale risplendono pure, benché meno vivamente che nel Banchetto, tutte le meravigliose facoltà del grande maestro.

Lo Steen ci ha otto quadri, fra i quali il suo ritratto, che lo rappresenta giovane, bello, lungochiomato, e con un’aria quieta e meditabonda, che par che dica: — No, stranieri, non fui un dissipato, non fui un ubbriacone, non fui un cattivo marito: fui calunniato; rispettate la mia memoria. — I soggetti dei suoi quadri sono una fantesca che pulisce una pentola, una famiglia di contadini che torna a casa in barca, un fornaio che fa il pane, una scena di famiglia, uno sposalizio di villaggio, una festa di ragazzi, un ciarlatano in una piazza; tutti coi soliti ubbriachi, le solite risatacce, le solite figure grottesche mirabilmente colorite e lumeggiate. Nel quadro del Ciarlatano sopratutto la sua mania del grottesco raggiunge l’ultimo segno. Le teste sono deformi, i volti son musi, i nasi son becchi, le schiene son groppe, le mani son zampe, gli atteggiamenti sono contorsioni, le risa sono smorfie di maschere; sono personaggi, infine, dei quali non si può trovare un’immagine che dentro i vasi dei gabinetti anatomici o nelle caricature animalesche del Grandville. È impossibile trattenere le risa; ma si ride come dovevan ridere gli spettatori di [p. 316 modifica]Gymplaine, dicendo in cuor loro: — Peccato ch’è un mostro!

Eppure v’è un artista che fece discendere questo genere di pittura anche più basso che lo Steen, e fu Adriano Brouwer, uno dei più famosi scapestrati dell’Olanda. Costui fu discepolo di Francesco Hals, e s’ubbriacava con lui una volta al giorno, finché perseguitato dai creditori, fuggì da Amsterdam ad Anversa, dove lo arrestarono come spia, e lo cacciarono in prigione. Il Rubens lo fece uscire, e lo raccolse in casa sua; ma il Rubens menava una vita ordinata, e il Brouwer che voleva correre la cavallina, lo piantò. Andò a Parigi, e là ne fece di tutte le tinte, finché ridotto secco come un uscio, tornò ad Anversa, e finì la sua misera vita in un fondo di spedale all’età di trentadue anni. Come non bazzicò che le taverne e la canaglia, così non dipinse che scene grossolane e stomachevoli di donnacce e di mascalzoni ubbriachi, delle quali è principal pregio il colorito vivo e armonioso, e l’impronta originale. Il Museo d’Amsterdam ha due quadri suoi; uno che rappresenta un Combattimento di contadini e l’altro un’Orgia di villaggio. In questo c’è tutto il Brouwer. È una stanza di taverna, nella quale sono raccolti uomini e donne avvinazzati che bevono e fumano. Una donna è distesa in terra ubbriaca fradicia, e il suo bambino le piange accanto.

Gerardo Dow ha nel museo d’Amsterdam il quadro famoso: La scuola della sera o Quadro delle quattro candele, degno d’esser posto accanto alla [p. 317 modifica]sua Idropica del museo del Louvre, e fra le gemme più peregrine della pittura olandese. È un piccolo quadro, il quale rappresenta sul dinanzi un maestro di scuola con due scolari e una ragazza seduti intorno a un tavolino; un’altra ragazza intenta a uno scolaretto che scrive sur una lavagna; e in fondo alla stanza altri ragazzi che studiano. Ma l’originalità del quadro consiste in questo: che le figure sono la parte accessoria; e la parte principale, i protagonisti, il soggetto del quadro, in una parola, sono quattro candele: una che brilla in una lanterna abbandonata sul pavimento, un’altra che illumina il gruppo del maestro e dei due scolari; una terza, tenuta dalla ragazza, che rischiara la lavagna; la quarta sur un tavolino in fondo, in mezzo agli scolari che leggono. È facile immaginare quanta varietà di luci, d’ombre, di guizzi, di tremolii, di barlumi, di sfumature, un artista come il Dow abbia saputo cavare da quelle quattro fiammelle; che infinite difficoltà siasi create, che infinita cura le sia costato il superarle, e con che meravigliosa maestria le abbia superate! Questo quadro, dipinto, come disse un critico, con ciglia di bambino appena nato, e coperto d’una lastra di vetro come una reliquia, fu venduto nel 1766 per ottomila lire, nel 1808 per trentacinquemila; e certo non basterebbe aggiungere uno zero a quest’ultima cifra per comprarlo al presente.

Non si finirebbe più di descrivere, se si volessero rappresentare soltanto i quadri principali dei grandi artisti che adornano questo museo. Il melanconico e [p. 318 modifica]sublime Ruisdael vi ha una scena d’inverno e una foresta piene dell’anima sua come dei suoi paesaggi suol dirsi; il Terburg v’ha il suo celebre Consiglio paterno; il Wouvermans dieci ammirabili quadri di caccie, di battaglie e di cavalli; il Potter, il Karel du Jardin, il Van Ostade, il Cuip, il Metzu, il Van de Verde, l’Everdingen vi sono rappresentati da parecchie delle migliori opere del loro pennello, delle quali sarebbe fatica sciupata il tentare di offrire un’immagine colla penna. E non è questo il solo Museo di Pittura della città di Amsterdam. Un museo lasciato alla città da un Van der Hoop, antico deputato alla Camera degli Stati, contiene quasi duecento quadri dei primi artisti olandesi e fiamminghi; ed oltre a questa, vi sono parecchie altre ricchissime gallerie private.

Ma il Museo della Ronda di notte e del Banchetto della guardia civica, com’è il primo a visitarsi, è anco quello nel quale gli stranieri, prima di partire da Amsterdam per la Nord-Olanda e la Frisia, dove non ci son più musei, vanno a dare un addio alla pittura olandese. In questo momento chiudo gli occhi, e mi par d’essere nella sala della Ronda e del Banchetto, il giorno che v’andai per l’ultima volta. Penso che fra poco lascierò, forse per non rivederle mai più, tutte queste meraviglie dell’ingegno umano, e questo pensiero mi rattrista. La pittura olandese non ha destato in me alcuna emozione profonda; nessun quadro m’ha fatto piangere; nessuna immagine m’ha levato in alto; nessun [p. 319 modifica]artista m’ha inspirato un sentimento d’affetto vivo, lieto, riconoscente, entusiastico. Eppure sento che dai musei dell’Olanda ho portato via un tesoro. M’è rimasto scolpito nella mente tutto un popolo, tutt’un paese, tutto un secolo. Di più, è un’illusione o un effetto reale? Tutte quelle immagini di tranquille massaie, di beati vecchioni, di bimbi paffuti, di ragazze sane e fresche, di stanzine ben chiuse e di tavole ben fornite, quando me le ravvivo dinanzi agli occhi, mi sento meglio fra le quattro pareti della mia cameretta, mi rannicchio con maggior gusto nel mio cantuccio, son più contento del solito di vivere in famiglia, d’avere delle sorelle e dei nipotini; benedico più affettuosamente il mio focolare, e mi siedo con più serena allegrezza alla tavola parca e pulita di casa mia. Non è forse bene, dopo aver visto angeli e donne divine e amori sovrumani e grandi sventure e grandi trionfi; dopo aver inorridito, pianto, adorato, sognato; dopo di essersi slanciati col pensiero e col cuore sopra le nuvole; ridiscendere un po’ sulla terra per persuadersi che tutto non è da sprezzare, che i sopraccapi bisogna a tempo e luogo saperli buttare dalla finestra, che in questo mondicino non ci si sta poi tanto male come si dice, che la vita convien pigliarla come Dio la manda, e che non bisogna essere né visionarii, né turbolenti, né orgogliosi, né indiscreti, né matti? E questa persuasione m’ha messo nell’animo la pittura olandese, e sia benedetta la pittura olandese. Studenti d’anatomia, guardie civiche, archibugieri, [p. 320 modifica]sindaci, serve, pescatori, beoni, tori, pecore, tulipani, mulini a vento, mari lividi ed orizzonti nebbiosi, rimanetemi per lungo tempo dinanzi agli occhi, e quando non sarete più nella mia mente che una reminiscenza confusa, mi resti la virtù di lavorare, di viver con giudizio e di far economia, da bravo olandese, per tornarvi a rivedere, se Dio lo consente!

Napoleone il Grande, in Amsterdam, s’annoiò; ma credo fermamente che sia stata colpa sua: io mi ci son divertito. Tutti quei canali, quei ponti, quei bacini, quelle isolette, formano una così grande varietà di prospetti pittoreschi, che per quanto si giri, non s’è mai finito di vedere. Vi son mille maniere di passare il tempo piacevolmente. Si va a veder l’arrivo dei battelli che portano il latte da Utrecht; si seguono i barconi che trasportano le masserizie per le sgomberature, con le fantesche dalla cuffia bianca ritte sulla poppa; si passa una mezz’ora sulla torricina del palazzo reale, di dove si abbraccia con uno sguardo il golfo dell’Y, l’antico lago d’Haarlem, le torri d’Utrecht, i tetti rossi di Zaandam, e quella fantastica foresta d’alberi di bastimento, di campanili e di mulini; si assiste all’estrazione del limo dei canali, alle accomodature dei ponti e delle cateratte, alle mille cure che richiede continuamente questa città singolare, costretta a spendere quattrocentomila fiorini all’anno per governare le sue acque; e quando non c’è altro, non manca mai lo spettacolo delle serve e dei servitori che con [p. 321 modifica]pompe e schizzetti lavano dalla strada gli usci delle case, le finestre del primo piano e i panni di chi passa. La sera poi, c’è la strada chiamata Kalverstraat, fiancheggiata da due file di botteghe splendide e di caffè metà illuminati e metà immersi nelle tenebre, nella quale sino a notte tarda formicola una folla fitta e lenta di gente piena di birra e di quattrini, mista a certi fassimili di cocottes impettite e affagottate, che non guardano, non ridono, non parlano, e vanno a tre e a quattro insieme, come se meditassero delle aggressioni. Dalle strade illuminate e affollate si riesce con pochi passi lungo i canali oscuri, fra i bastimenti immobili, in mezzo a un silenzio profondo. Di qui, passando sur un ponte, si arriva in un quartiere del popolo minuto, dove si vedono scintillare i lumi delle botteghe sotterranee, e si sente la musica dei balli dei marinai; e così si cangia ogni momento di spettacolo e di pensieri, con buona pace di Napoleone I.

Tale è questa città famosa, la storia della quale non è meno strana che la sua forma e il suo aspetto. Un povero villaggio di pescatori di cui è ancora ignoto il nome sulla fine del secolo decimoprimo, diventa nel secolo decimosesto l’emporio dei grani di tutta l’Europa settentrionale, spopola i porti fiorenti del mare di Zuiderzee, raccoglie nelle sue mani il commercio di Venezia, di Siviglia, di Lisbona, d’Anversa, di Bruges, attira negozianti di tutti i paesi, ricetta proscritti di tutte le religioni, si risol[p. 322 modifica]leva da innondazioni spaventevoli si difende dagli anabattisti, manda a vuoto le trame del Leicester, detta la legge a Guglielmo II, respinge l’invasione di Luigi XIV, e finalmente, come tutte le cose di quaggiù, declina, brillando ancora una volta della luce effimera di terza città dell’impero francese, onorificenza ufficiale, molto somigliante alle croci che si danno agl’impiegati malcontenti, per compensarli d’una traslocazione rovinosa. È ancora una ricca città commerciale; ma circospetta, lenta, appiccicata alle tradizioni, amica più del gioco della Borsa che delle imprese ardite, e che rivaleggia più brontolando che operando con Amburgo e Rotterdam, piene di giovinezza e di speranze. Malgrado ciò, ella serba ancora la maestà dell’antica dominatrice dei mari, è ancora la più bella gemma delle provincie unite, e lascia allo straniero che l’abbandona, un’immagine severa di grandezza e di potenza, che nessun’altra città d’Europa cancella.




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