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Un morto. | 95 |
dovevo prendere il toro per le corna e incominciare: Sofia, la lunga amicizia che ci lega, la mia esperienza, la tua giovinezza, il nostro affetto, la sua maldicenza... parlo del mondo.
O non era meglio scrivere?
Sì, no, scriverò, parlerò. Scoccarono intanto le otto ed io, rimandando al domani la decisione, cacciai la calza nel panierino e mossi dalla mia alla villa di Sofia.
La campagna era deserta, ravvolta in una leggiera nebbiolina. Attraversati i pochi sentieri che ci dividevano, entrai da Sofia, ma la cameriera mi avvertì che la signora non si trovava in salotto.
E dov’era dunque?
In giardino — proprio con quel fresco e quella nebbia — che calori!
Sorrisi e dissi alla cameriera che andavo a raggiungerla.
Eterni dei!
Li trovai tutti e due seduti sotto un’acacia caven, e quel ch’è peggio, abbracciati... modestamente, si intende, e inondati di lagrime.
— Che cosa fate qui?
Davvero, io dissi queste precise parole, piantandomi davanti a loro coll’intenzione di sbigottirli; ma non ne feci nulla.
Sofia fu la prima a rispondere, e mi dichiarò in mezzo alle lagrime che adorava Emanuele, il suo primo, il suo unico amore.
Fortuna che si trattava di un morto se poi fosse stato vivo!