Novelle (Gogol)/Vita e opere di Nicola Gogol
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DOMENICO CIÀMPOLI
VITA E OPERE DI NICOLA GOGOL
Il paradossale Alessandro Herzen disse una volta, — e questa espressione fu ripetuta infinite altre volte e accentuata da molti storici stranieri, — che per la recente letteratura russa fu una grande fortuna esser essa stata così singolarmente il prodotto dell’ingegno aristocratico, che tutti gli autori appartennero al più alto od altissimo ceto. Questa circostanza ha garentita la letteratura dagli elementi popolari e le ha dato una certa eleganza e convenevolezza esterna e interna, che si manifesta nella elezione della forma e nel sentimento intimo della misura e del gusto.
Non si può negare che tali sieno state le condizioni della Russia e che fino al decimonono secolo l’intelligenza fu rappresentata infatti dalla nobiltà. Ma stimare perciò fortunata la letteratura, è, a nostro giudizio, abbastanza strano per bocca dell’Herzen.
La considerazione manca inoltre di precisione, se noi pensiamo che, dopo il principio del nostro secolo, il medio ceto inalzò sempre più fortemente la voce nella letteratura, riescendo a una sempre maggiore considerazione intellettuale, partecipando a formare il tempo. Poichè le Università eran divenute ospitali, anzi domini, alla filosofia tedesca (Schelling, Hegel), che riuniva nel suo seno lo spirito di ogni classe, non si può più parlare di un monopolio aristocratico della letteratura. Puskin andò per ragionamento all’aristocrazia; i suoi amici aristocratici (Zukovskij, conte Veljgorskij, principe Viazemskij, Pletnev, i salotti della vedova Karamzin, del principe Odoevskij) che sedevano al piano nobile letterario e volevano essere i soli giudici in fatto di lettere e di gusto artistico, erano rimasti, allo stringer dei conti, molto indietro al gusto del pubblico migliore, poichè essi non si lasciavano guidare da altri criteri che dalle antiquate teorie francesi di Batteux e dalla loro realtà verso il sistema di governo.
Tali criteri di casta e di oscurantismo facevano parer geniali le spettacolose produzioni di un Kukolnik, il fantastico pazzesco di un Marlinskij e l’ampollosità di un Benediktov, e non permettevano che si sapesse nulla della irragionevole plebe.
È qui apparve chiaro che il tempo della letteratura aristocratica era finito.
Rapidamente sorsero, l’un dopo l’altro, scrittori appartenenti al medio e perfino al basso ceto, i quali produssero un cambiamento nel gusto e nelle idee dominanti. Polevoi, Nadezdin, Belinskij, Gogol, Kolicov... Occorre ancora dimostrare che era proprio giunto il tempo di aggiungere al fiume aristocratico una fresca corrente democratica?
Senza il mercante Polevoi, forse sarebbe stato impossibile il figlio di un medico condotto. Belinskij: eppure Belinskij è diventato il Lessing russo. Il mercante di bestiame Kolicov e il cosacco ruteno Gogol — poichè, secondo il suo modo di pensare, fu cosacco ed asceta — prepararono quella corrente democratica, amica del popolo, a cui sono da riferire tanto la scuola poetica realistica del presente, come la critica sociale di Belinskij e dei suoi seguaci.
Non è affatto conditio sine qua non, che il realista scelga a soggetto solo i bassi strati della società, lasciando da parte il gran mondo, come romantico. Ma in Russia, la muraglia della Cina, eretta fra gli interessi e il grado di coltura dell’alto e del basso ceto, portò con sè la conseguenza che il realismo cominciasse con la descrizione della plebe e dei costumi popolari.
Al tempo della reazione politica e del dominio del romanticismo bizzarro, che agitavasi solo nei salotti o... in Oriente, fu grande l’audacia di descrivere lo stato del popolo russo. Ciò non poteva, come si opinava, produr null’altro che rozzezza e trivialità. D’altra parte, dati i pochi rapporti degli scrittori con la vita popolare, era naturale che le descrizioni ben poco rispondessero alla realtà, che fossero cioè fatte secondo lo stesso canovaccio romantico. Infatti, furono di tal sorta i racconti del più tardi famoso storico e panslavista M. P. Pogodin, che col titolo di «Il mendicante», «La sposa sulla fiera», ecc., come i primi immaturi tentativi del realismo democratico dipendono troppo dal sentimentale romanticismo della scuola di Karamzin. Anche gli altri contemporanei e compagni di lotta di Gogol (come B. Weltmann, Dahl) non uscirono da una sentimentale democrazia, ed occorse il genio del suddetto poeta per fondare in Russia la scuola realista.
Nelle sue prime novelle (passiamo sotto silenzio i suoi sfortunati tentativi poetici, come l’Epos «Hans»), Gogol è però ancora tutto romantico, se bene anche un po’ nazionale, ciò che non si può dire delle poesie altamente romantiche di Puskin e Lermontov, delle novelle di Marlinskij, Polevoi, e degli altri poeti del dolore di quel tempo.
Gogol nelle sue novelle idealizza l’Ukraina coi suoi uomini grandi e piccini, secondo il punto di vista della concezione soprannaturale del mondo. La fantasia di Gogol vive come nel più prossimo passato; rimane egualmente nel suo elemento. Onde, quel suo acuto intuito, quel penetrare pieno d’amore nella vita famigliare e popolare dei Piccoli-russi, vita con la quale era cresciuto strettamente legato; e inoltre il rivelarsi del poeta umano nell’amabile umorista alla Dickens, che motteggia bonariamente e punge con malizia, senza mescolar neppure una goccia di fiele alla sua comicità. Nelle sue posteriori novelle pietroburghesi, e ancora più nel suo poema in prosa «Anime morte», e nella commedia-libello «L’Ispettore», il suo umorismo diventa sempre più amaro, e corrisponde al tempo del puro realismo.
Nicola Vasilevic Gogol (1809-1852) era figlio di un possidente piccolo-russo, nella cui famiglia si eran conservate in non turbata freschezza le leggende del passato dell’Ukraina, ch’egli stesso raccontava con accento drammatico. Il figlio ereditò il talento narrativo e comico, e venne a dodici anni al liceo di Bezborodki, a Nezin. Quivi egli si diede poco allo studio, ma tanto più al leggere e al comporre. Sin dal liceo, si manifestò chiaramente la sua facoltà di osservazione, la sua acuta conoscenza dei caratteri, sopratutto delle debolezze e delle follie umane. Egli aveva un’alta opinione di sè, era ambizioso, e sperava di fare una brillante carriera. Dopo la morte del padre, dedicati alcuni anni di cura alla madre ardentemente amata, lasciò il Mezzodì per Pietroburgo, dove cercò un posto, prima da impiegato, poi da commerciante. Egli escogitò i più pazzi progetti, pensò di fuggire all’estero (i passaporti erano allora difficili a ottenere), ma venne solo fino ad Amburgo e ritornò indietro.
Dopo essere stato impiegato, maestro e persino per impegno di amici influenti (del circolo di Puskin), professore di storia all’Università di Pietroburgo, posto cui dovette rinunziare dopo un fiasco quasi completo (Gogol era appena mediocremente colto), si dedicò tutto alla letteratura. Nel 1831 si era già fatto, d’un tratto, un nome con le sue «Veglie alla fattoria di Dikanka», una serie di racconti ruteni, tra cui «La notte di maggio», «La notte prima di Natale» e «Vij», si distinguono per l’ondeggiante lirismo e il potente umorismo. A questa raccolta seguirono ancora due altre: «Arabeschi» e «Mirgorod», con le famose novelle «Possidenti del tempo passato», «La lite di Ivan Ivanovic con Ivan Nikiforovic», e le novelle storiche «Taras Bulba», e più tardi le storie di Pietroburgo. «La Prospettiva della Nevà», «Il mantello», «Il ritratto», ed altre.
In tutte queste novelle, narrate con rara maestria, è molto di fantastico, ma vi è pure la vita interamente riprodotta. I tipi della scuola spirituale della bursa, che già Narernyi aveva cercato di descrivere, si presentano vivamente, in tutta la loro tipica singolarità, le poetiche e religiose concezioni del semplice popolo, le indescrivibili attrattive della steppa d’Ukraina, la sua tranquilla grandiosità, la variopinta folla del villaggio cosacco (Secji), con la sua impronta orientale e la sua cultura sanzionata dalla tradizione, tutto è dipinto con largo, fluente pennello.
La domestica filosofia del Bursak, Homa, il lieto fabbro Vakula, i figli di Bulba, infine la colossale figura di Bulba stesso, questo spartano d’Ukraina, questo vero eroe omerico, questo tipico rappresentante non solo della forza bruta, ma anche della isolata civiltà dei cosacchi; e, d’altra parte, quel fangoso, lacrimevole mondo di Pietroburgo, la Prospettiva della Nevà, coi suoi pittori mezzo affamati, e le cortigiane e gli smargiassi come Pirogov, Piskarev; gli impiegati subalterni Popriscin, Basmacjkin, e tanti altri..., quale contrasto e quale minuzioso realismo!
Ma noi non ammiriamo solo la fotografica fedeltà della rappresentazione, sentiamo anche tutta l’interna miseria di questi uomini ridicoli (nelle novelle pietroburghesi), tutta la mancanza di ideali, e la deformità della loro natura. E infatti, se Gogol lascia attraverso il riso trasparire le lacrime lacrime di dolore sulla miseria della vita, sopra le dolorose condizioni che tali uomini producono, sentiamo pure che il poeta stesso non si solleva al disopra di questa miseria della vita che lo circonda. Nel 1836 Gogol si guadagnò, con la sua tagliente commedia «Il revisore», l’antipatia e il dispetto degli alti circoli, benchè l’imperatore Nicolò, dopo alcuni temporeggiamenti, permettesse la rappresentazione e ne ridesse cordialmente fino alle lacrime.
La commedia infatti versava il corrosivo dello spirito, con inaudita audacia, sopra le corrottissime amministrazioni del governo, e dava in preda — veramente senza volerlo — alla beffa ed alle risa della società tutto il sistema di Nicolò. Gli idoli, che fino allora erano stati tenuti per intangibili e consacrati, si videro gettati nel fango, dati alla meritata vergogna. Questi idoli si chiamavano l’autorità e la venalità, sulle quali, sole ed uniche, era fondato il principio del governo di Nicolò. Ora l’incanto era rotto, e l’autorità non era più lo spauracchio della società. La commedia di Gogol poneva al posto dell’autorità un’altra potenza: la pubblicità, la pubblica opinione. Il primo atto di questa, nel ridestarsi, doveva essere la condanna del sistema dominante. In ciò consiste l’importanza politica del «Revisore» di Gogol, che divenne chiara solo più tardi per lo stesso autore, ma non poteva sfuggire ad uomini penetranti come Belinskij, Herzen, ecc. Del resto, la favola del «Revisore» (la cui idea fu data a Gogol da Puskin) è originale, lo spirito colpisce, la comicità trascina. L’individuo il quale, secondo la notizia di un’ispezione, gli spaventati impiegati che hanno tutti una cattivissima coscienza, ritengono per un ispettore di Pietroburgo, si trova essere il vanitoso smargiasso Hlestakov, che approfitta della grande confusione per alleggerire la genterella di parecchie centinaia di rubli, fidanzarsi in apparenza con la figlia del governatore, per poi dileguarsi su di una troika e non lasciarsi vedere mai più! Ma l’effetto principale è nella chiusa; nel momento che gli ingannati impiegati vogliono far buon viso a cattiva sorte, un gendarme annuncia che è giunto il vero revisore, e vuole tutti gli impiegati presso di sè!
La scena di esordio potrebbe dare una prova del carattere di questa sdegnosa satira politica.
Scontento del successo della produzione, Gogol lasciò di malumore la Russia, quando il ministro dell’istruzione, Norov, gli ebbe procacciato una pensione imperiale e il soggiorno all’estero.
Egli venne a Roma — dove pensava vivessero gli ideali dell’arte, — per raggiungere, come disse, la capacità di produrre qualche cosa di artisticamente grandioso, di inaudito. In Roma si diede allo studio delle opere d’arte, frequentò circoli artistici, e gli unici suoi punti di contatto con la Russia furono i pittori e gli scrittori russi che vi giungevano e vi dimoravano qualche tempo (Ivanov, Turghenev, e altri). Gogol concepiva molte grandi cose, ma scriveva solo le «Anime morte». Ai dolori fisici che in quel tempo cominciavano a visitarlo, si aggiunse pure una malinconia, che fu molto accresciuta dalla notizia della morte di Puskin. Nel 1842 Gogol apparve a Pietroburgo, e vi pubblicò la prima parte della sua epopea in prosa, «Anime morte».
Fu estrema l’impressione prodotta da questa comica e satirica pittura del tempo. Alle avventure dello speculatore viaggiante, Cicikov, che compera le anime morte, sono legati in modo piacevole la descrizione delle diverse case d’allora e il carattere delle vaghe personalità che agiscono. Cicikov compera dei contadini morti, ma che nominalmente valgono come vivi; li trasporta in un terreno senza valore (sempre nominalmente), e li ipoteca alla banca. Lo speculatore vuole con questo colossale inganno rialzare le sue sperperate finanze, e riprendere la carriera di impiegato, andatagli a male. Che cosa fosse questa carriera, lo vediamo dalla fine della biografia, maestrevolmente narrata, di questo uccello di rapina. Egli conosce profondamente l’arte d’ingannare — era nello stesso tempo capo della dogana e ricettatore e strozzino di una grandiosa banda di contrabbandieri. —
Finissime pitture di carattere offrono i tipi di tutti i notabili della città, capoluogo di governo, dal governatore al borgomastro, ai possidenti dei dintorni.
Si sollevano, tra questi, Manilov, che rappresenta con la sua famiglia la specie di gente che non appartiene a nessuna specie; Nozdrjov, chiacchierone e beone che in due giorni perde al giuoco la metà della sua rendita, che invita i suoi amici e dopo li fa bastonare; l’impassibile Sobakevic, che tiene sopratutto al solido, ingiuria tutti e fa con tutti i suoi conoscenti traffici da usuraio; Korobocika, «venuto su da un ceppo sconosciuto nella vita da contadino, un po’ guasta», che ha solo il senno per accumulare dei rubli; infine, Pljuskin, disseccato nella sudicia avarizia, che in mezzo ai suoi tesori ha appena qualche cosa di umano, — son tutti tipi unici, ma anche pitture dettagliate, belle, veriste. Noi desidereremmo solo, nelle «Anime morte», un ideale concetto che ci facesse indovinare in che consista appunto l’ideale di Gogol; quali alti ed etici principi egli ponga alla vita.
E perchè ciò vi manca? Solo perchè Gogol non ebbe un ideale determinato. Senza una fondata istruzione preparatoria, con la sola tendenza alla gloria e al piacere, egli salvò dalla tempesta della vita solo il suo geniale umorismo artistico, i suoi pensieri creatori e le sue mistiche illusioni, turbati da una malaticcia diffidenza verso gli uomini, e infine anche verso se stesso. Carattere irrequieto, chiuso, si trovò dopo la propria rivelazione, come scrittore, sotto l’influsso di amici legati da pregiudizi di casta. Egli aveva fatto epoca con le sue novelle, con le sue commedie (oltre «Il revisore», aveva anche scritto «Il matrimonio»), e con la prima parte delle «Anime morte», e del tutto incoscientemente, senza intenzione, solo coll’elementare forza del suo humour, che per lui costituiva, non solo l’ideale, ma sovente anche l’idea, aveva dato il segnale a una guerra di penna delle idee progressive contro la routine e la reazione, limitandosi sulle prime ai principi di estetica e di filosofia morale, nella quale i tipi meravigliosamente veristi di Gogol, erano il punto d’appoggio, e l’intelligenza del suo umorismo dava la misura del liberalismo o della tendenza alla reazione dei critici. Egli diede pure un potente impulso alla letteratura progressiva e d’opposizione, il cui capo divenne Belinskij. Ma Gogol rimase affatto lungi dal criticismo filosofico, sia di Belinskij, sia degli slavofili. La concezione del mondo di Gogol può essere indicata come medioevale-romantica.
I suoi concetti politici erano lontanissimi da quelli di uno Stato moderno, anche misuratamente liberale. Nella sua pungente satira, quindi, noi non possiamo scorgere un fine cosciente. Nelle sue creazioni, noi non ci troviamo di fronte a un fanatismo patriottico, come credono alcuni tedeschi scrittori di saggi, ma al fanatismo dell’ironia, dell’auto-ironia. «Di che cosa ridete? Voi ridete di voi stessi!», ci dice ogni sua linea. E Gogol rise su tutto, anche sopra se stesso. Da principio rideva così, per suo piacere, ma infine, per un malsano bisogno di sferzare se medesimo, di auto-sezione. Gogol fu entusiasta e fantastico. Per essere idealista gli mancarono i fondamenti teoretici, la scuola filosofica dello spirito, la capacità speculativa. Il suo gusto da poeta, si univa alla sua facoltà analizzatrice. Fu un poeta, ma non un pensatore. Ciò doveva trovar conferma nei fatti. Il suo sguardo intellettuale si oscurò in tale misura, che gli sembrò di aver più nociuto che giovato con le sue geniali creazioni, con la sua satira, alla Russia della schiavitù. Tutta la sua opera gli appariva un alto tradimento contro la patria, contro il suo popolo, un peccato che doveva essere compensato con una più degna attività; e ritenendo sempre di essere chiamato a qualche cosa di grande, concepì il piano di presentare in una seconda parte delle «Anime morte» un modello di tutte le virtù. Ma prima doveva compiere un’intima rigenerazione. Dapprima pubblicò le «Lettere scelte» (1846), cui gli intelligenti della Russia risposero con una vera tempesta di indignazione. Le «Lettere» non solo oltraggiavano i migliori progressi della cultura e della civiltà occidentale, ma sopratutto calpestavano le idee di umanità e libertà, portando sugli scudi i principi dell’oscurantismo, che stavano in acuta contradizione coi disegni (già maturantisi nei circoli governativi) di emancipazione dei contadini. A dir breve, le lettere contenevano in fondo nè più nè meno, che un’Apologia della schiavitù. Riconoscendo troppo tardi il suo errore, si sprofondò con Zukovskij, nel quale aveva trovato un consolatore, in finezze teologiche e nei misteri della Chiesa ortodossa. La rivoluzione di febbraio del 1848 e la sua lieve ripercussione a Pietroburgo (nel processo di Petrasevskij) sconvolse completamente il suo spirito, ove un indirizzo mistico ed estetico operava già da lungo tempo la sua azione deleteria. Il suo animo era malato, non trovava mai pace. Da Roma era tornato a Pietroburgo; di qui si recò a Wiesbaden, a Parigi e di nuovo a Roma. Da Roma (1848) volle infine cercar riposo a Gerusalemme.
Intanto apparve l’attesa seconda parte del libro, che offriva chiaramente la prova del cammino della follia, su cui errava un uomo già tanto geniale, ora distrutto. I promessi eroi della virtù la figlia del generale Betriscev, Ulenjka, Kostanzoglo, Murazov — non sono che macchine muoventisi, marionette. Cicikov cade nelle mani della giustizia, ed è liberato solo per protezione di Murazov, quando, in un solitario luogo, ritorna in sè e sconta i suoi inganni con una vita cristiana.
Gogol morì, pare, in piena pazzia. Deve essere stato trovato morto di fame, innanzi alla Santa Immagine, il 21 febbraio 1852, in Mosca.
A discolpa di Gogol, si può dire che egli fu una delle inevitabili vittime, che fanno le epoche di transizione, quando due avverse concezioni del mondo si combattono a vicenda.
Se Gogol, pel suo genio poetico, era giunto alla negazione del sistema di governo, e aveva dato al movimento progressista un potente impulso, vi erano altresì in Russia pensatori che arrivavano per altra via allo stesso ed anche a un più decisivo risultato. Nell’angusto cenacolo di giovani schellinghiani, ove nel 1830 stavano ancora latenti e mescolati gli elementi dell’occidentalismo e del panslavismo, e al quale appartenevano Venevitinov, il prof. Pavlov, il principe romantico un po’ nebuloso Odoevskij, Herzen, Nadezdin e Kireievskij, le idee di Schelling vennero applicate alla vita russa e rimaneggiate a seconda della vita stessa. Tutto lo sviluppo storico della Russia venne considerato dal punto di vista di quella concezione schellinghiana, sì che lo scopo della cultura e il problema dell’avvenire del popolo russo, furon costrutti astrattamente su questi astratti fondamenti. Vi era già in embrione la teoria della decadenza della civiltà occidentale e della necessità di una corrente vitale; vi erano pure gli elementi per il posteriore panslavismo, come opposizione filosofica, infine vi si evolsero le tendenze mistico-cattoliche insieme con la brusca negazione di tutto il diritto della Russia del suo passato; il presente e l’avvenire giungevano e trovavano la loro espressione nella «lettera filosofica» di Caadaev.
È un caso notevole, che nello stesso anno del «Revisore» di Gogol, apparve nel «Telescopio» di Nadezdin una «lettera filosofica» che aveva per autore il colonnello Caadaev. Pietro Iakolevic Caadaev (1793-1855), in questa lettera, diretta a una signora, paragona l’andamento dell’evoluzione storica russa con quello dell’Europa occidentale, e viene quindi all’importanza del Cristianesimo nella vita occidentale e sul suo sviluppo; e conchiude con un cenno alla rigenerazione cui dovrebbe assoggettarsi la Russia nello spirito cristiano occidentale, specialmente cattolico.
Questa lettera fece molto rumore, costò all’autore prigionia ed esilio; ma ebbe influsso anche sul pensiero di Herzen e Belinskij, il primo e genialissimo critico russo.
Il tratto principale dell’ingegno di Belinskij consisteva nella viva intelligenza dell’arte nella capacità di separare il vero dal falso e di conoscere ciò che è veramente geniale. Così egli riconobbe pel primo l’importanza di Gogol. I suoi primi articoli su Gogol nel «Telescopio» e nell’«Osservatore di Mosca», di cui tenne la redazione dal 1838 al 1839, «La novella russa e le novelle di Gogol» (1835) e la critica del «Revisore», sono brillanti apologie dell’umorista, geniali improvvisazioni sul suo genio. Belinskij si può dire interpretava Gogol con Gogol stesso. Ma egli dovette anche difenderlo contro i suoi avversari come contro i suoi troppo entusiastici partigiani. Ai primi apparteneva la stampa scandalosa di Pietroburgo, che lo dichiarava cinico, volgare e cattivo patriota; invece gli adoratori di Gogol erano i panslavisti, e questi andavano così oltre nella persona di H. Akasakov, da ritenere Gogol un emulo di Omero, cui solo Shakespeare poteva stare a fianco. Belinskij, che era abbastanza freddo per conservare misura anche nella lode, ridusse meritamente all’assurdo questo salto mortale.
Il coincidere dello sviluppo teorico delle idee col sorgere di ingegni, quali Puskin, Gogol, Lermontov, Koljcov, dimostra che una storica necessità era la causa di queste apparizioni.
Ciò vide Belinskij, ed uno dei suoi grandi meriti è l’aver degnamente illustrato cotesti ornamenti della poesia russa.
Pel testo ci siamo serviti della edizione illustrata Socinenia N. V. Gogolja, uscita a Pietroburgo nel 1909, con prefazione di V. N. Ladjzenskij. Per la nostra prefazione confronta, oltre la impareggiabile opera di Kulis: «Note sulla vita di N. V. Gogol», l’opera del Reinholdt: «Geschichte der russischen Literatur». Su Gogol si è scritto moltissimo in Europa e in America; ma noi abbiamo voluto dare semplicemente la sintesi più esatta, conforme a quest’ultimo studio.