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Il paradossale Alessandro Herzen disse una volta, — e questa espressione fu ripetuta infinite altre volte e accentuata da molti storici stranieri, — che per la recente letteratura russa fu una grande fortuna esser essa stata così singolarmente il prodotto dell’ingegno aristocratico, che tutti gli autori appartennero al più alto od altissimo ceto. Questa circostanza ha garentita la letteratura dagli elementi popolari e le ha dato una certa eleganza e convenevolezza esterna e interna, che si manifesta nella elezione della forma e nel sentimento intimo della misura e del gusto.
Non si può negare che tali sieno state le condizioni della Russia e che fino al decimonono secolo l’intelligenza fu rappresentata infatti dalla nobiltà. Ma stimare perciò fortunata la letteratura, è, a nostro giudizio, abbastanza strano per bocca dell’Herzen.
La considerazione manca inoltre di precisione, se noi pensiamo che, dopo il principio del nostro secolo, il medio ceto inalzò sempre più fortemente la voce nella letteratura, riescendo a una sempre maggiore considerazione intellettuale, partecipando a formare il tempo. Poichè le Università eran divenute ospitali, anzi domini, alla filosofia tedesca (Schelling, Hegel), che riuniva nel suo seno lo spirito di ogni classe, non si può più parlare di un monopolio aristocratico della letteratura. Puskin andò per ragionamento all’aristocrazia; i suoi amici aristocratici (Zukovskij, conte Veljgorskij, principe Viazemskij, Pletnev, i salotti della vedova Karamzin, del principe Odoevskij) che sedevano al piano nobile letterario e volevano essere i soli giudici in fatto di lettere e di gusto artistico, erano rimasti, allo stringer dei conti, molto indietro al gusto del pubblico migliore, poichè essi non si lasciavano guidare da altri criteri che dalle antiquate teorie francesi di Batteux e dalla loro realtà verso il sistema di governo.