Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LVII
Questo testo è incompleto. |
◄ | Parte III - Novella LVI | Parte III - Novella LVIII | ► |
S’è molte volte tra prudenti e dotti uomini disputato se all’uomo savio si convenga con nodo maritale legarsi, e per l’una parte e l’altra infinite apparenti ragioni addutte si sono, le quali troppo lungo e forse fastidioso sarebbe, chi raccontar le volesse. Quelli cui non aggrada che l’uomo libero e savio si metta nel numero dei coniugati, e, di libero, servo si faccia, per toccarne una o due, dicono che è pazzia manifesta che l’uomo disciolto si leghi in servitú e si metta sotto l’imperio d’una donna; perché, essendo l’uomo animale perfetto, viene a sottomettersi a la femina, la quale è animale imperfetto ed occasionato. Hanno poi sempre in bocca questi tali il detto di Talete Milesio, uno dei sette savii de la Grecia, il quale essendo giovine e stimolato dagli amici a deversi maritare, disse loro che non era tempo. Venuto poi in vecchiezza e pure sollecitato a prender moglie, rispose che era fuor di tempo, volendo il saggio filosofo darci ad intendere che a chi vuol viver quietamente e senza fastidii non istá bene a maritarsi giá mai, recando seco il matrimonio infinite cure, dissidii, turbazioni, perché il letto maritale ha sempre liti e dissensioni contrarie. Quelli poi che d’altro parere sono e a cui piace far nozze dicono nel matrimonio esser infiniti commodi e piaceri necessarii al viver umano, e che di non poca importanza è aver la moglie, che ne le miserie ti tenga compagnia, negli affanni ti consoli, ti porga nei perigli aita, nei dubii casi consigli, e in ogni sorte di fortuna teco sia sempre d’un volere e mai non t’abbandoni. Adducono poi lo star senza moglie esser quasi sempre tenuto infame e biasimato da molte nazioni; onde gli ebrei con ingiuriose parole mordevano chi a la vecchiezza senza moglie perveniva e il popolo israelitico con i figliuoli non accresceva. Licurgo, che agli spartani diede la norma e le leggi del governo e viver publico e privato, comandò che chi al tempo nubile non prendeva moglie non potesse veder gli spettacoli e giuochi de la cittá, e che nel piú algente freddo de l’invernata fosse ignudo astretto a circuire negli occhi del popolo la piazza publica. Era in Creta uno statuto, che ogn’anno si facesse la scelta dei giovini candiani i meglio disposti e i piú belli, e che tutti si maritassero. I turii per editto publico volevano che la giovertú con doni ed onori s’inducesse a maritarsi. Che diremo del divino Platone? non ordinò egli ne la sua repubblica che chiunque, passati i trentacinque anni, non era maritato, fosse infame e privato d’ogni onore? Si maritò Socrate filosofo sapientissimo, ed Aristotile maestro di coloro che sanno, e Pittagora e molti altri savissimi uomini ebbero moglie. Appo i romani Furio Camillo e Postumo, essendo censori, a quelli che a la vecchiezza erano senza pigliar moglie pervenuti, o vero che avevano rifiutato le vedove lasciate dai mariti morti su la guerra, statuirono una gravissima pena. Ma che vo io raccontando costoro, se nostro signor Iddio ordinò il matrimonio, che è sacramento de la Chiesa, e, fuor del matrimonio non lece a qualunque, uomo o donna che si sia, procrear figliuoli? Ora, se io volessi tutti i beni che dal matrimonio provengano discorrere, e per lo contrario quanti noiosi fastidii in esso siano raccontare, essendo i beni pur assai e non in picciolo numero i mali, averei troppo che fare; di modo che, avendo ciascuna de le parti le sue ragioni, e tuttavia disputandosi qual sia meglior openione de le dui, mai la controversia non è stata decisa, e la lite ancora sotto il giudice pende e, per mio giudizio, sempre resterá dubia. Il perché veggiamo tutto il giorno uomini e donne maritarsi, ed altresí molti e molte in perpetuo celibato dentro le mure dei sacri monasteri chiudersi. Onde, questionando si una volta pure di cotesta materia in una onorata compagnia, facendo ciascuno buone le sue ragioni, a la fine con assenso di tutti si conchiuse che, se pur l’uomo si vuol maritare, che a buon’ora prenda moglie e non aspetti gli anni de la vecchiezza, e che maggiore sciocchezza non è che maritarsi vecchio. Fu anco unitamente determinato che di tutte le pazzie non è la maggiore che veder uno che sia vecchio o molto attempato e prenda una giovane per moglie, che sua figliuola di gran lunga esser potrebbe, e di questo sí fatto matrimonio esser il piú de le volte seguíto male assai, con danno e vergogna del marito e de la moglie. Era in questi ragionamenti il gentilissimo giovine, delizia de le muse messer Alfonso Toscano, governatore dei signori figliuoli del signor Alfonso Vesconte il cavaliero; il quale, veggendo i ragionamenti esser terminati, narrò una novella molto a proposito di ciò che detto s’era. E parendomi degna d’esser annotata, quella descrissi. Ora, venutami a le mani mentre che io, riveggendo le mie novelle, insieme le metto, a questa ho messo ne la fronte il nome vostro, e ve la mando e dono per testimonio de l’amore che tra noi sin da’ primi anni sempre è stato, pregandovi che non solamente a messer Tomaso vostro fratello, ma anco al vostro diligente Bavasero la mostriate, se egli piú di me si ricorda, che pure era solito esser ognora di me ricordevole. State sano.Novella LVII
Non sono, per mio giudicio, inutili né da essere sprezzati questi ragionamenti che qui ragionati si sono, e veramente la conchiusione è non solamente vera ma divina. Ché in effetto, se le cose che fanno le giovani donne, quando s’abbattono aver marito vecchio, si sapessero e venissero in luce, si vederebbe che il piú d’essi vecchi rimbambiti, anzi pur quasi tutti, se ne passano in Cornovaglia senza partirsi da casa. Ed io per me non saperei che castigo darne a le povere donne: non che voglia dire che facciano bene, ché non lo fanno, ma perché mi pare che il peccato loro sia degno di compassione e perdono. Maggior castigo crederei io che meritassero i parenti che una fanciulla dánno ad un vecchio per moglie; ma piú di tutti merita il vecchio le catene e i ceppi, e quasi che dissi ancora la mannara e le croci, ché, veggendosi inabile ad essercitare il matrimonio, prende a contentar una giovane che straccherebbe dieci valorosi uomini. E nondimeno pare che quanto piú alcuni sono riputati saggi ed arche di prudenza, tanto piú incappino in questo labirinto, come con una mia novelletta che intendo di narrarvi potrete di leggero conoscere. Vi dico adunque che in una cittá d’Italia, ove ordinariamente fiorisce lo studio de le buone lettere, cosí d’umanitá come di filosofia, e de le divine ed umane leggi, cittá assai copiosa di belle e piacevoli donne, che di rado sogliono pascersi di lagrime né di sospiri degli amanti, fu, non ha molti anni, un dottor di leggi canoniche e cesaree molto famoso. Questi, essendo stato adoperato in molte legazioni, e di continovo riuscito con onore ed utile, ebbe ne la patria sua una ventura publica di ragion civile con onesto salario. E perché in effetto egli era dotto e con buona grazia leggeva, e molto umanamente accoglieva gli scolari, la sua scola era piú de l’altre frequentata, di modo che aveva sempre grandissimo numero d’auditori. Ora, passando giá messer lo dottore cinquanta anni ed essendo ricco, temendo forse non a la sua ampia ereditá mancassero eredi, entrò nel pecoreccio di prender moglie, e non pensate che ne volesse una di trentacinque in quaranta anni. Egli tanto praticò che ebbe una fanciulla di dicesette anni, compressa, di pel rosso e di viso assai bella, ma tanto leggiadra e viva e sí baldanzosa, che non trovava luogo che la tenesse. Il che molto piaceva al dottore e si teneva per ben maritato, parendogli aver moglie che allegro lo terrebbe. Di vestimenti, d’anella, di carretta e donzelle la teneva molto ben in ordine, e davale tutta quella libertá che ella voleva pigliarsi. Ma la povera giovane era sempre raffreddata, perché la notte messer lo dottore la teneva molto mal coperta, ed anco di rado le faceva in letto compagnia. Era tra gli auditori suoi uno scolar lombardo, giovine nobile, il quale desiderava di riuscir eccellente negli studii de le leggi, e diligentemente a quegli giorno e notte, non perdendo tempo, attendeva, di modo che in tutto l’auditorio aveva nome d’esser il piú dotto e il piú acuto che ci fosse. Questi di rado abbandonava il dottore e, sempre a lato a quello, proponeva dei dubbii che aveva o su le udite lezioni o sovra alcun testo. Il dottore, veggendolo ingegnoso ed acuto e desideroso d’imparare, volentieri ascoltava e benignamente gli rispondeva, dichiarandogli i proposti articoli ed esortandolo a studiare, offerendosi da ogni tempo per udirlo ed insegnarli. Per questo andava spesso il giovine lombardo a trovar suo maestro a casa e facevasi chiarire quei dubbii che a la giornata gli occorrevano. Ma egli in questo mezzo entrò in un maggior dubbio che non era quello dei testi raccolti da Giustiniano o de le glose d’Accursio o di quanti mai ne mossero Baldo e Bartolo. E questo avvenne perciò che, praticando assai sovente in casa del dottore e veggendo la moglie di quello piú e piú volte, che molto gli piaceva, di sí fatta maniera di lei s’innamorò, che ordinariamente andava a casa del dottore piú per veder la moglie di quello che per imparar da lui. Nondimeno, essendo bramoso di pascer la vista con le bellezze de la donna amata, trovava ogni dí nuovi dubii, per aver occasione d’andar a trovare il dottore e veder quella che piú cara aveva e piú amava che le pupille de gli occhi suoi. Piaceva molto al dottore l’acutezza de l’ingegno e prontezza del suo discepolo, ed aveva di lui openione che riuscir devesse uno dei buoni dottori che ne lo studio fossero, e quando di lui parlava nei circoli degli scolari, meravigliosamente lo lodava. La donna, veggendo quasi ogni dí il giovine lombardo, avendolo piú volte udito commendare dal marito, e parendole che amorosamente fosse da lui, sí com’era, vagheggiata, e bello e costumato giudicandolo, perché Amore a nullo amato amar perdona, di lui s’innamorò e cominciò con gli occhi colmi di pietá a rimirarlo. Del che il giovine, che avveduto era e non teneva gli occhi ne le calze, di leggero s’accorse e ne mostrò meravigliosa contentezza. Onde cominciatosi con lei a domesticare, cortesemente la salutava e con mille propositi piacevoli seco s’interteneva, non avendo perciò ancora ardire di parlarle d’amore. Tuttavia non si poteva talora contenere che alcuna paroletta amorosa mezza mozza non gli uscisse di bocca, e sempre che con lei favellava gli tremava la voce e tutto di rossore se gli spargeva il viso. Ella, che era di carne e d’ossa e di natura assai compassionevole, e che giá il giovine molto amava, desiderando che egli piú chiaramente si discoprisse, per meglio spiar l’animo di quello, un giorno gli disse: – Scolare, se volete esser inteso, egli vi conviene parlar piú apertamente che non fate e scoprire l’animo vostro, perché, se bene io sono moglie d’un dottore, io però mai non ho studiato, né so intender chi non mi parla chiaramente. Sí che voi m’intendete. – Il giovine, udita cotal proposta da la donna, si tenne per ben avventuroso, parendogli comprendere che indarno non amava. Onde, quanto piú seppe il meglio, quella ringraziò e dissele che con piú commoditá o le scriverebbe o le diria a bocca l’animo suo, e che basciandole umilmente le mani le restava affezionatissimo servidore. Assicuratosi in questo modo del buon volere de la sua cara ed amata donna, le scrisse un’amorose lettera con quelle dolci parole che questi giovini innamorati costumano di scrivere quando la prima volta scrivono a le loro innamorate. Fatta la lettera, se n’andò secondo il solito a la casa del dottore, e, trovata sotto il portico la donna che cuciva tutta sola, le diede essa lettera in mano, supplicandola che degnasse aver di lui compassione e tenerlo per fedelissimo servo. Poi di lungo andò a la camera de lo studio del dottore, secondo che era il suo solito, a conferir seco alcun passo di legge. La donna, come ebbe ricevuta la lettera, se la pose in seno, ed indi a poco entrò ne la sua camera e, dentro serratasi, aperse essa lettera, e quella diece volte e piú lesse. E dando indubitata fede a l’amorose parole che lo scolare le scriveva, essendo naturalmente disposta a le fiamme amorose e giá avendo l’amore del giovine compreso e cominciato ad amarlo, si dispose con tutto il core riceverlo per amante e per signore. Onde fra sé diceva: – Ecco che la mia buona ventura una volta mi s’è mostrata e scoperto il camino di potermi dar il meglior tempo del mondo, avendomi questo giovine mandato innanzi gli occhi. Egli è bello, costumato, nobile e leggiadro, e mi pare tanto discreto che piú esser non potrebbe. E se io lascio andare questa ventura, quando mi verrá ella un’altra volta a le mani? Certamente io non sarò giá cosí sciocca che io non la prenda, avvengane ciò che si voglia. Ma che cosa mi può avvenire di male? tutte le lasciate, perdute si dicono, e in effetto le sono. Io fermamente mi persuado e tengo per certo che amandolo, come io caramente amerò, che anco egli amerá me e mi terrá cara. E cosí con lui potrò io ristorar il tempo che ho perduto e di continovo perdo con questo vecchio di mio marito, il quale a gran pena una volta il mese si giace meco e talora se ne stará dui e tre mesi che non mi tocca, e quando insieme siamo, il povero uomo è sí mal in gambe per quel mestiero ove io lo vorrei gagliardissimo, che ha sempre paura di morire. E pensava contentarmi con baci insipidi e darmi ad intendere che a questo modo ce ne viveremo piú sani. Io non so perché egli per sua moglie mi prendesse, e quasi che non maledico quel mio zio che fu cagione di farmelo sposare. Ché se la buona memoria di messer mio padre fosse stato in vita, io averei avuto un giovine, come piú volte mi diceva volermi dare. Lassa me! che ora mi trovo ne le mani di questo vecchio, che si crede contentarmi con tenermi onoratamente vestita, darmi anelli, collane e cinte d’oro, e farmi sedere in capo di tavola, dandomi bene da mangiare e meglio da bere. Ma io non so giá che mi vagliano coteste cose, quando la sera me ne vado sola a dormire con una donzella in camera, ed egli se ne va a la sua; e, che peggio poi è, quando egli si dorme meco, si leva sempre d’una e due ore avanti giorno e si va a sepellire tra i suoi libri. Che almeno vi rimanesse egli una volta da dovero! Sí che io mi delibero provedere a’ casi miei e fare come io so che fa una mia amica, che con un gentiluomo di questa terra si dá buon tempo e vita chiara. E nondimeno ella ha il marito giovine, che l’ama ed ogni notte con lei si giace. Né bastando questo, io so bene il luogo ove il dí se ne va a trovar il suo amante, e mostra d’andar a visitar infermi e parenti. E forse che ella sola fa di simile beffe al marito? Io ne so bene piú di tre para, che in vero non hanno la occasione né il bisogno che ho io, che lasciano i mariti e ad altri si dánno in preda. Il fallo mio, se fallo è e che mai si risapesse, sempre sará degno di scusazione. Se io ho marito, egli è tale che, se bene volesse e si mettesse con quante forze ha, non averá mai potere darmi di quei piaceri che communemente noi donne desideriamo e senza cui non è donna che possa lungamente gioiosa vivere. Ché assai meglio sarebbe mangiar meno e vestir mediocremente, e poi trovar il letto ben fornito di ciò che bisogna per trastullo de le donne. Pertanto io provederò a’ casi miei, ed userò ogni diligenza a me possibile, a ciò che biasimo alcuno a mio marito e a me non ne segua. – Su cotai pensieri stette buona pezza l’innamorata giovane, discorrendo la maniera che deveva tenere a dar compimento ai suoi amori, a ciò che messer lo dottore non s’accorgesse che altri maneggiasse i suoi quaderni. Ella aveva una donzella, la quale per l’ordinario dormiva seco in camera. A questa discoperse ella tutta la sua intenzion e il desiderio de lo scolare, e quella indusse a tenerle mano a questa amorosa impresa ed esser leale e segreta. E come ebbe la donzella a’ suoi piaceri disposta, scrisse una lettera a lo scolare di sua mano. In quella gli diceva che, vinta dai bei costumi che in lui vedeva e da l’altre doti che in lui erano, gli voleva tutto il suo bene e che era pronta a fargli ogni piacere, mentre che due cose le ne seguissero. L’una, che questo lor amore si conducesse con ogni secretezza, a ciò che mai nulla se ne sapesse onde potesse nascer infamia o scandalo alcuno. L’altra, che egli non volesse entrar in questo ballo d’amore per fare come molti fanno, i quali, posseduto che hanno l’amore de le loro donne, quelle abbandonano e ad altre nuove imprese si mettono, e quante donne veggiono tante ne vogliono, e di nessuna poi si curano. Per questo lo pregava che, secondo che ella s’era messa amar lui per amarlo eternamente, che anche egli il medesimo, volesse fare, ed amarla lei di cosí buon core come ella ferventissimamente amava lui. Onde in tutto e per tutto si metteva in poter di lui, ricordandogli che, essendo uomo, gli conveniva aver cura di se stesso e di lei appresso. Gli scrisse anco che ogni volta che vederebbe a la tal banda de la casa ad una finestra pendente di fuori un pannolino bianco, che egli con una scala di fune a le quattro ore de la notte vi si ritrovasse, e che il tal segno facesse, perché alora gli sarebbe mandato giú uno spago, al quale egli appiccarebbe la scala, che su sarebbe tirata e fermata di modo che potrebbe di leggero senza veruno periglio montare ed entrar dentro in camera, ove ella l’attenderebbe. Il giovine scolare, avuta la lettera, datali da la donna nel modo che egli a lei diede la sua, poi che letta l’ebbe cinque e sei volte e mille e mille basciata, non capeva di gioia nel cuoio e si riputava il piú avventuroso amante del mondo. Onde, trovata la scala e di notte andando a torno, attendeva che il panno al balcone pendesse. E vedutovelo una sera, lieto oltra modo, a l’ora deputata vi si ritrovò, e dato il segno e la scala acconcia, su salí e da la donna a braccia aperte e a suoni di soavissimi baci amorosamente fu ricevuto. Aiutato poi a spogliarsi da la donzella, si corcò in letto con la sua donna. Quivi parendo a l’innamorato giovine di nòtare in un cupo ed ampissimo mare di gioia, tale e sí buon conto rese dei fatti suoi e sí cavalerescamente nel correre e romper de le lance si diportò, che la giovane, che mai sí valorosa giostra sentita non aveva, restò meravigliosamente contenta. E parendole un grandissimo disvario da la giacitura del valente scolare a quella del vecchio marito, gli abbracciari d’esso marito riputava ombre e sogni. E se prima amava il suo caro amante, ora tutta ardeva, e le pareva che donna ritrovar non si devesse piú di lei contenta e felice. Onde dopo i reiterati baci, dopo gli amorosi e saporiti abbracciamenti, dopo i dolcissimi ragionari, misero tra loro ordine che tutte le notti che il dottore non giaceva con la donna, lo scolare supplisse. E per non fare che, come i gatti, ogni volta gli convenisse aggrapparsi a le mura, ebbe modo d’aver una chiave contrafatta d’un uscio di dietro e a lo scolare la diede. Onde molte notti si diedero buon tempo insieme, attendendo la donna a ricuperar il tempo perduto. Come s’è detto, il dottore di rado si giaceva con la donna e quasi per l’ordinario, quelle poche volte che voleva andarle, il diceva quando desinava; il che era cagione che gli amanti a man salva si godevano. E certo gran sciocchezza mi pare di coloro che hanno moglie e le lasciano dormir sole, che pure deveriano sapere qual è quella cosa di cui le donne per lo piú sogliono esser vaghe, e quanto i mariti le siano cari quando se ne stanno la notte con le mani a cintola. Pertanto, se a le volte avviene che elle si procacciano d’aver pastura fuor di casa, io per me troppo agramente non le saperei riprendere. E che, Dio buono! vogliono costoro far de le mogli, se al maggior bisogno loro le lasciano sole, con estremo periglio che di paura de la fantasma non muoiano o dal freddo restino assiderate e attratte? Non si sa egli che tutte le donne naturalmente sono timidissime, ed assai piú la notte che il dí desiderano d’esser accompagnate, e che senza l’uomo sempre la donna si reputerá esser sola? Chi non sa che per altro non si maritano se non per avere compagnia la notte? Hanno tutte le giovanette in casa loro da mangiare, bere e vestirsi onestamente, innanzi che si maritino, ma non hanno chi loro tenga compagnia la notte. Le maritate il giorno hanno mille traffichi, mille affari e mille lavori per le mani. Tu vedi quella cucire, trapungere con seta ed oro cuffie, camiscie ed altre bisogne, od attendere al governo de la casa. Quell’altra compartisce a le sue damigelle la tela, il filo e la seta, ed ordina loro ciò che vuole che esse facciano. Quell’altra da altri lavori prende l’essempio e ne fa di capo suo di nuovi; emenda questo, riconcia quello e in donneschi onorati essercizii va dispensando l’ore, e talora col canto dá alleggiamento a la fantasia e se stessa fin a la sera inganna. Ce ne sono poi di quelle che, di piú sublime ed alto ingegno, diventano domestiche de le muse e passano il tempo in leggere varii libri e in comporre alcuna bella rima. Altre poi con la musica, sonando e cantando, si trastullano, e in compagnia di vertuose persone ascoltano i ragionamenti che si fanno, ed anco spesso dicono il parer loro, di modo che il giorno non si lasciano rincrescer giá mai. La notte poi, perché tutta non si può dormire, vuol ogni donna, sia di che qualitá si voglia, esser ben accompagnata. Ora, tornando al nostro proposito, può forse essere che il nostro dottore credeva, che avendo la moglie la notte una donzella seco fosse ben accompagnata; ma ella non la intendeva cosí. Erano passati piú di duo mesi che egli non era giaciuto con la moglie, quando una notte gli venne voglia d’andar a trovarla, e levatosi da mezza notte uscí di camera. Soleva l’uscio de la sua camera ne l’aprirsi far gran rumore. Era in quell’ora la donna con lo scolare e seco giocava in letto a le braccia, e sentendo aprir l’uscio del marito, chiamò la Niccolosa, – ché cosí aveva nome la donzella, – e le disse: – Tosto leva su, ché io sento messere. – Ed ecco in questo, che il dottore due e tre volte si spurgò, per sputar il catarro. La donna, detto a lo scolare ciò che deveva fare se messere in camera venisse, lo fece vestire. In questo il dottore picchiò a l’uscio, e non gli essendo risposto, perché le donne facevano vista di dormire, picchiò piú forte. La donna alora disse, mostrando destar la donzella: – Niccolosa, Niccolosa, non senti tu? su, ché l’uscio nostro è tócco. – Ella facendo vista di sonnacchiosa, le rispondeva con parole mozze, borbottando. Il dottore sentendo ciò che dicevano, disse loro: – Aprite, aprite! non mi conoscete voi? – Era giá lo scolare vestito e postosi dietro a l’uscio. Alora la Niccolosa aperse al messere, il quale se ne andò di lungo al letto, e in quello, non essendo lume in camera, lo scolare destramente, senza esser dal dottore né visto né sentito, uscí di camera e per la via che era entrato in casa se ne partí fuori. Messer lo dottore si corcò a lato a la moglie, che poca voglia di lui aveva. Né per questo rimase la donna che ogni volta che voleva non facesse venire lo scolare e con lui non si desse buon tempo; di modo che, venuto il tempo che a lo scolare pareva di farsi dottore, prolungò accora il tempo dui anni, sempre godendo la sua donna.
Francesco Sforza, di questo nome primo duca di Milano, fu uomo in ogni etá ammirabile e da essere per le sue rare doti comparato con quegli eccellenti eroi romani, [che] dei gloriosi fatti loro hanno gli annali e le istorie riempite. Egli soleva molto tra i suoi piú familiari dire che erano in questa vita umana tre cose, ne le quali poco valeva l’industria de l’uomo, ma era bisogno che Dio ce la mandasse buona, come è costume di dire. Ed ancor che paiano cose ridicole, pur sono da essere raccontate. Se vai a comprar un mellone, egli ti parrá di fuori via bello, ben maturo, e se lo fiuti, sará odorifero: taglialo, trovi che nulla vale. Vuoi trovarti un buon cavallo, e ne vedi tre e quattro, e bene gli consideri di parte in parte; gli cavalchi, gli maneggi, ed uno piú de l’altro t’aggrada e ti pare perfetto: come l’hai compro e menato a casa, in dui o tre dí tu trovi che in lui si scoprono piú diffetti che non aveva il cavallo del Gonnella. La terza è che, quando vuoi pigliar moglie, te ne sono messe per le mani molte e di tutte n’hai ottima informazione, e beato chi piú te le può lodare: ne sposi una, e in pochi dí intendi che era madre prima che maritata. Sí che diceva il buon duca che, quando l’uomo vuol far una di queste tre cose, deve raccomandarsi a Dio e tirarsi la berretta negli occhi e darvi del capo dentro. E certamente, se vi [si] pensa su bene, che si troverá chi il sapientissimo duca non aveva cattivo parere, perciò che veggiamo tutto ’l dí, non parlando per ora se non de la terza, che molti, usata ogni diligenza ad uomo possibile in pigliar moglie, bene spesso si sono ingannati. Onde, di questo ragionandosi un dí a la tavola del signor Cesare Fregoso mio signore, messer Romano Tombese, che era alloggiato in casa, su questo proposito narrò una novella che diceva esser in Ferrara avvenuta; la quale avendo io scritta, ve la mando e dono, a ciò che veggiate che io di voi mi ricordo e che non m’è uscito di mente quanta umanitá mi usaste nel