Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LVIII
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buon tempo; di modo che, venuto il tempo che a lo scolare pareva di farsi dottore, prolungò accora il tempo dui anni, sempre godendo la sua donna.
Francesco Sforza, di questo nome primo duca di Milano, fu uomo in ogni etá ammirabile e da essere per le sue rare doti comparato con quegli eccellenti eroi romani, [che] dei gloriosi fatti loro hanno gli annali e le istorie riempite. Egli soleva molto tra i suoi piú familiari dire che erano in questa vita umana tre cose, ne le quali poco valeva l’industria de l’uomo, ma era bisogno che Dio ce la mandasse buona, come è costume di dire. Ed ancor che paiano cose ridicole, pur sono da essere raccontate. Se vai a comprar un mellone, egli ti parrá di fuori via bello, ben maturo, e se lo fiuti, sará odorifero: taglialo, trovi che nulla vale. Vuoi trovarti un buon cavallo, e ne vedi tre e quattro, e bene gli consideri di parte in parte; gli cavalchi, gli maneggi, ed uno piú de l’altro t’aggrada e ti pare perfetto: come l’hai compro e menato a casa, in dui o tre dí tu trovi che in lui si scoprono piú diffetti che non aveva il cavallo del Gonnella. La terza è che, quando vuoi pigliar moglie, te ne sono messe per le mani molte e di tutte n’hai ottima informazione, e beato chi piú te le può lodare: ne sposi una, e in pochi dí intendi che era madre prima che maritata. Sí che diceva il buon duca che, quando l’uomo vuol far una di queste tre cose, deve raccomandarsi a Dio e tirarsi la berretta negli occhi e darvi del capo dentro. E certamente, se vi [si] pensa su bene, che si troverá chi il sapientissimo duca non aveva cattivo parere, perciò che veggiamo tutto ’l dí, non parlando per ora se non de la terza, che molti, usata ogni diligenza ad uomo possibile in pigliar moglie, bene spesso si sono ingannati. Onde, di questo ragionandosi un dí a la tavola del signor Cesare Fregoso mio signore, messer Romano Tombese, che era alloggiato in casa, su questo proposito narrò una novella che diceva esser in Ferrara avvenuta; la quale avendo io scritta, ve la mando e dono, a ciò che veggiate che io di voi mi ricordo e che non m’è uscito di mente quanta umanitá mi usaste nel viaggio che da Castel Gifredo facemmo a Ferrara ed a la vostra villa a Gualdo, quando io andava in Romagna a Fusignano. Né crediate che mi sia uscita di mente quella moresca, che la notte a torno al letto ci facevano quei diavoli di mussoni che hanno il morso piú velenoso che bisce. State sano.Novella LVIII
Ne la cittá di Ferrara, mia nobile patria, fu giá non è molto un gentiluomo chiamato Lancilotto Costabile, il quale prese per moglie una gentildonna e riebbe un figliolo; e non dopo molto, lasciando la moglie ed il figliuolo sotto il governo d’un suo fratello, che era uomo di gran maneggio, si morí. Il fratello di Lancilotto, conoscendo la cognata esser molto proclive ad amore e che mal volentieri stava senza compagnia d’uomini, pigliata l’oportunitá, cominciò con bel modo ad essortarla che essendo troppo giovane si volesse maritare, e che egli s’affaticarebbe in trovarle il marito al grado di lei convenevole. La donna, che voglia non aveva di prender marito, ma viver libera ed oggi mettersi a la strada e dimane far un altro effetto, non la voleva intendere, ritrovando certe sue scuse di poca valuta. Il cognato, dubitando di ciò che era, cominciò con maggior diligenza a spiare tutte le azioni de la donna, e in breve s’accorse per che cagione ella non si curava di marito, avendo uno che suppliva in vece di quello. Il perché, multiplicate le spie, conobbe che il canevaro di casa teneva mano a la cognata e, tutte le notti che a lei piaceva, introduceva in casa Tigrino Turco, gentiluomo di Ferrara, del quale ella era innamorata, ed egli di lei. Certificato che fu di questo, tenne modo col canevaro, parte minacciandolo e parte con buone parole promettendoli di molte cose, che il canevaro restò contento d’avvisarlo la prima volta che la donna ricevesse Tigrino in camera. Onde essendo una notte gli amanti insieme ed amorosamente trastullandosi, il canevaro, non volendo mancare di quanto aveva promesso, poi che ebbe l’amante introdutto in camera, se n’andò ad avvisar il cognato; il quale, essendosi di giá provisto con alcuni uomini da bene, andò a la camera de la cognata e, quella pianamente con chiavi contrafatte aperta, trovò i dui amanti, stracchi del giocare a le braccia, ignudi dormire. Aveva egli recato alcuni torchi accesi in camera, e quelli che seco erano avevano le spade ignude in mano. Si risvegliò Tigrino e, veggendo il cognato de la donna di quel modo provisto, si tenne morto e non sapeva che dire. Alora il cognato de la donna gli disse: – Tigrino, questa dislealtá e sceleratezza che tu in casa mia a disonor mio e di mio nipote hai usata, non è giá meritata da noi. Ma a ciò che ad un tratto questa macchia da noi si levi, tu farai bene e sodisfarai a tutti di far cosí: che sí come questa notte mia cognata è stata tua, ella anco per l’avvenire sia, fin che viverete; che sará, se tu a la presenza di questi uomini da bene la sposi. Altrimenti tu non andarai per fatti tuoi. – Tigrino conobbe che costoro non gli volevano far violenza, a ciò che, sposando la donna, il matrimonio fosse vero, e per questo era quivi il notaio con testimonii, che non avevano arme. Il cognato anco era disarmato. Pensò poi che se egli non la sposava, di leggero, essendo egli ignudo e solo, che da quelli armati sarebbe stato ammazzato. Il perché, tirato anco da l’amore che a la donna portava, la quale piangendo e dubitando anco ella de la vita lo pregava a far questo, quella a la presenza di tutti sposò, e in letto con la donna rimanendo, il suo terreno e non l’altrui ritornò a lavorare. Fatto questo, dopo qualche dí essendosi il matrimonio per tutta Ferrara divolgato e Tigrino avendo la moglie a casa menata, con quella godendo i suoi amori, lieta vita menava. Ma non troppo vissero in questa contentezza, ché Tigrino, morendo, passò a l’altra vita. Rimasi la donna la seconda volta vedova, e tuttavia desiderando d’aver qualche persona che le tenesse compagnia, avendo perciò sempre téma del cognato, che era in Ferrara uomo d’autoritá e di molta stima, tanto non si puoté contenere né tanto aver rispetto al cognato, che ella s’innamorò d’un giovine di bassa condizione. Ed avuto il modo di fargli intender l’amore che ella gli portava, vennero in breve a godersi insieme e qualche dí perseverarono godendo gioiosamente questi lor amori. Ma ella, che sempre averebbe voluto star sui piaceri, usando poco discretamente questa sua comoditá, fece di modo che per tutta Ferrara la pratica si divolgò, di tal maniera che senza rispetto veruno se ne parlava per le spezierie e ne le botteghe dei barbieri. Ella, essendo certificata che il cognato lo sapeva e che il suo amante per téma di quello non le voleva piú dar orecchie né venir ove ella si fosse, disperata e dolente oltra modo, fece tutto ciò che seppe e puoté per riaver l’amante; ma il tutto fu indarno. Il perché, poi che si vide esser totalmente frustrata del suo desiderio, e da l’ altra parte considerando che per Ferrara era mostra a dito, e che in tutto aveva l’onore suo perduto, – non so da che spirito spirata fosse, ma si può presumere che da buono e santo, – tenne pratica con le monache di Santo Antonio in Ferrara e lá dentro monaca si fece; ed anco oggidí vi dimora, e, con la vita che adesso fa, emenda gli errori passati, vivendo come si deve da le religiose donne vivere, perciò che assai meglio è pentirsi una volta che non mai.
Avvenne nel tempo de l’infelice Ludovico Sforza, duca di Milano, in una cittá del suo dominio, che una gentildonna di gran parentado si conobbe esser vicina al morire; e, sapendo che i medici per disperata avevano la cura di lei, fece chiamar a sé dui frati osservanti di san Domenico, dei quali l’attempato era quello a cui ella era solita confessar i sui peccati, e gli disse: – Padri miei, io conosco manifestamente che piú poco di vita m’avanza e che in breve anderò in altra parte a render conto come io di qua mi sia vivuta. E per fare dal canto mio ciò ch’io posso per scarico de l’anima mia, vi dico, affermo e confesso come il tale dei miei figliuoli, – e quello nomò, – non è figliuolo di mio marito, ma d’un mio amante, essendo mio marito fuor de la cittá, al quale diedi ad intendere, quando rivenne, che il figliuolo era nasciuto di sette mesi. Come io sia morta, congregate i miei figliuoli e a loro questa mia ultima confessione a mio nome manifestate. – E fatto chiamare il notaio che il suo testamento aveva scritto, gli disse: – Notaio, farai intender a’ miei figliuoli che di quanto dopo la morte mia gli diranno questi dui frati, credano loro e diangli quella fede che a me propria fariano. – Si morí la donna e dopo alcuni dí, finiti tutti gli ufficii, i dui frati fecero un dí congregar i fratelli, ch’erano piú di tre, ai quali, dopo che il notaio ebbe fatta l’ambasciata de la madre, essendo uscito fuori, cosí il frate vecchio disse: – Figliuoli miei, vostra madre, vicina a la morte, al mio compagno che è qui e a me lasciò che vi dicessimo come un di voi fratelli