Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LVI

Novella LVI - Un prete con una pronta risposta mitiga l’ira del suo vescovo che voleva imprigionarlo.
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[p. 144 modifica]di modo che tuttavia se n’andava di male in peggio. Onde, avendo una volta tra l’altre in una lite di grandissima importanza usate certe sue baratterie, falsificate alcune scritture e produtti testimoni falsi, fu a gran pericolo de la vita. Alora messer Galeazzo Calvo Mariscotto, uomo di grande autoritá, agramente lo sgridò e riprese acerbissimamente, ed essortandolo che oramai a tante sue sceleratezze volesse por fine e non tener sempre la conscienza sotto i piedi, perché il gran diavolo infernale un giorno, non s’emendando, il porterebbe via in anima e in corpo. Sorrise a questo il malvagio dottore e disse che non sapeva ove fosse la conscienza e che cosa faceva il demonio che non veniva. E di piú disse: – Messer Galeazzo, io vi vo’ dire la veritá. La sera, quando io mi corco per dormire, io mi fo il segno de la croce, di meraviglia che questo vostro diavolo, che mi predicate esser sí terribile, non m’abbia il dí portato via. La matina poi, destandomi, mi levo e di meraviglia anco mi segno, che mi ritrovo pur vivo e sano. Ma io lo scuso, ché deve aver altro che fare. Ma che! tutte sono favole di frati, ché non ci è né diavolo né inferno. – Udendo messer Galeazzo cosí scelerata risposta, stette un poco sopra di sé; poi gli disse: – Voi ve n’accorgerete a la fine dove i peccati vostri vi meneranno. – Né altro mai piú volle dirgli, parendoli che sarebbe pestar acqua in mortaio.


Il Bandello al dotto giovine
messer Cristoforo Cerpelio bresciano


La vostra elegante e latinamente cantata elegia, Cerpelio mio, che, in lode mia composta, m’avete mandata, ho io lietamente ricevuta e con non picciolo mio piacere letta e riletta. E chi è colui che sia cosí stoico ed alieno da le passioni, a cui le proprie lodi sempre non siano care, e che con diletto non le senta? Certamente, che io mi creda, nessuno. Quegli stessi filosofi, che nei libri loro essortarono gli uomini a disprezzare la gloria e non si curar de le lodi, andarono con gli scritti loro cercando la gloria e desiderando d’esser lodati. Egli è troppo appetibile e dolce l’esser lodato, e tanto, che non solamente gli uomini, ma bene spesso si sono veduti animali [p. 145 modifica]irrazionali, de le lodi che loro erano date, allegrarsi. Non nego adunque che la elegia vostra mirabilmente m’abbia dilettato, anzi liberamente lo confesso. Ed ancora ch’io non conosca esser in me quelle vertuose doti e quelle parti che di me cosí leggiadramente cantate, e porti ferma openione che tale mi predicate quale, amandomi, vorreste ch’io fossi; tuttavia il sentirmi da voi lodare m’è stato molto caro. Onde sommamente vi ringrazio che di me abbiate sí buona openione e che a le mie rime volgari attribuiate ciò che a la vostra dotta e polita elegia meritamente si conviene, e vie piú assai che a me. Ma per non parere ch’io voglia rendervi il contracambio di parole, perciò per ora non dirò altro circa essa elegia. Io al presente assai poco attender a le muse posso, per i continovi affari del mio signore. Nondimeno, come io ho modo di rubar alquanto di tempo, mi sforzo pure di tornar con loro in grazia. Scrivo poi talora de le novelle che sento narrare, o di cui dagli amici m’è il soggetto mandato. E perché so che vi piace legger de le mie composizioni, vi mando una breve novelletta, che qui in Verona nel suo palagio narrò il generoso ed umanissimo signor conte Alberto Sarrego in una piacevole compagnia. Essa novella ho dedicato al vostro dotto nome, a ciò che resti sempre appo chi la vedrá per testimonio de la nostra cambievole benevoglienza. State sano.Novella LVI

Un prete con una pronta risposta mitiga assai
l’ira del suo vescovo che voleva imprigionarlo.


Non è molto che essendo io andato a Milano a visitare il signor Lodovico Vesconte e Borromeo mio socero, che in casa sua mi fu narrata una piacevolissima novella, per la quale manifestamente si comprende quanto a luogo e a tempo la prontezza d’un bel detto talora al suo dicitore giovi. Fu adunque, non è molto, vescovo di Como monsignor Gerardo Landriano, patrizio milanese, che fu anco cardinale, persona dotta e d’integritá di vita riguardevole molto e venerabile. Egli, visitando la sua diocesi, come regolarmente fa il nostro vescovo di Verona monsignor Matteo Giberti, riformò molti monasteri di monache e gli ridusse a l’osservanza della religione. Ma ne trovò uno sovra il lago di Como, detto dai buoni scrittori il lago «Lario» . Esso monastero era da ogni banda aperto e le sue monache vivevano dissolutamente con mala fama. Fece il buon vescovo ogn’opera [p. 146 modifica]per riformare il detto monastero e ridurlo a qualche norma di religione. Erano cinque le monache e non piú, le quali, perché erano avvezze a vivere licenziosamente, s’ostinarono di non voler cangiare il loro consueto modo di vivere. Il perché il vescovo diede loro per governatore un prete che passava quaranta anni, a cui tutta la contrada rendeva testimonio di dottrina e di santa vita. Comandò poi sotto pene gravissime che piú non si ricevesse monaca alcuna. Il prete, presa la cura de le cinque monache, faceva ogni cosa per ridurle a vivere onestamente, essortandole a servar la regola loro. Ma egli vi s’affaticò indarno, perciò che assai piú puotêro le cinque male femine che un solo prete. Onde andò sí fattamente la bisogna, che elle pervertirono chi loro cercava convertire, perché, a dirla come fu, messer lo prete in meno di tre o quattro mesi tutte le ingravidò. Il vescovo, come intese tale sceleraggine, si fece condurre in Como esso prete, ed aspramente minacciandolo lo riprese e gli disse: – Sciagurato che tu sei, tu hai molto bene adoperato il talento che Iddio t’ha dato di predicare ed ammonir le persone a la tua cura commesse. A questo modo si fa? – E rivolto ai suoi disse: – Menate questo scelerato in prigione, e non se gli dia altro che pane ed acqua. – Era il prete prostrato in terra, ed alzando il capo, disse al vescovo: – Domine, quinque talenta tradidisti mihi: ecce alia quinque superlucratus sum. – Che vuol dire: – Signore, tu m’hai dati cinque talenti: eccoti che altri cinque sovra quelli ne ho guadagnati. – Piacque tanto la pronta ed arguta risposta al vescovo, ancora che si pervertisse il detto evangelico, che egli, cangiata l’ira in riso, mitigò in parte l’aspra penitenza al prete. Nondimeno lo tenne alcuni mesi in prigione, di maniera che vi purgò la dolcezza che prima gustata aveva. Cosí adunque, avendo il vescovo fatta menzion di talenti, non parve che si disconvenisse al giá condannato prete col detto del sacro Vangelo aitarsi. Narrano alcuni altri la cosa esser accaduta ad un altro vescovo in altri luoghi. Il che può essere; ma avvenne anco al vescovo di Como.


Il Bandello [p. 147 modifica]al magnifico messer Giovanni Marino


S’è molte volte tra prudenti e dotti uomini disputato se all’uomo savio si convenga con nodo maritale legarsi, e per l’una parte e l’altra infinite apparenti ragioni addutte si sono, le quali troppo lungo e forse fastidioso sarebbe, chi raccontar le volesse. Quelli cui non aggrada che l’uomo libero e savio si metta nel numero dei coniugati, e, di libero, servo si faccia, per toccarne una o due, dicono che è pazzia manifesta che l’uomo disciolto si leghi in servitú e si metta sotto l’imperio d’una donna; perché, essendo l’uomo animale perfetto, viene a sottomettersi a la femina, la quale è animale imperfetto ed occasionato. Hanno poi sempre in bocca questi tali il detto di Talete Milesio, uno dei sette savii de la Grecia, il quale essendo giovine e stimolato dagli amici a deversi maritare, disse loro che non era tempo. Venuto poi in vecchiezza e pure sollecitato a prender moglie, rispose che era fuor di tempo, volendo il saggio filosofo darci ad intendere che a chi vuol viver quietamente e senza fastidii non istá bene a maritarsi giá mai, recando seco il matrimonio infinite cure, dissidii, turbazioni, perché il letto maritale ha sempre liti e dissensioni contrarie. Quelli poi che d’altro parere sono e a cui piace far nozze dicono nel matrimonio esser infiniti commodi e piaceri necessarii al viver umano, e che di non poca importanza è aver la moglie, che ne le miserie ti tenga compagnia, negli affanni ti consoli, ti porga nei perigli aita, nei dubii casi consigli, e in ogni sorte di fortuna teco sia sempre d’un volere e mai non t’abbandoni. Adducono poi lo star senza moglie esser quasi sempre tenuto infame e biasimato da molte nazioni; onde gli ebrei con ingiuriose parole mordevano chi a la vecchiezza senza moglie perveniva e il popolo israelitico con i figliuoli non accresceva. Licurgo, che agli spartani diede la norma e le leggi del governo e viver publico e privato, comandò che chi al tempo nubile non prendeva moglie non potesse veder gli spettacoli e giuochi de la cittá, e che nel piú algente freddo de l’invernata fosse ignudo astretto a circuire negli occhi del popolo la piazza publica. Era in Creta uno statuto, che ogn’anno si facesse la scelta dei giovini candiani i meglio disposti e i piú belli, e che tutti si maritassero. I turii per editto publico volevano che la giovertú con doni ed