Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte III/Novella IV
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al suo volere: che stesse forte, che non le faria male nessuno, e simili altre ciancie, a le quali ella nulla rispondeva. Ma volendo poi piantare il piuolo, ella, preso il coltello, diede sì fatta ferita in quelle parti al povero e sfortunato marito, che oltra che gli tagliò quasi via tutto il mescolo, gli fece anco una profonda piaga nel ventre, di modo che egli gridava quanto più poteva. Levati al romore quelli di casa ed entrati dentro la camera con candele accese, trovarono il meschino che, nel suo sangue involto, spasimato se ne moriva, di maniera tale che in meno d’un’ora morì. Il romore fu grande, e la sposa con un viso rigido altro non diceva se non che il marito la voleva ancidere. Fu da quei di casa tenuta sotto buona custodia e la matina messa in mano de la giustizia, la quale quella, udita la sua confessione, condannò ad esserle mózzo il capo. Il re Enrico ottavo, intesa la cosa come era seguìta, rimise il giudizio a la reina e a le dame de la corte. Elle, fatti sovra ciò lunghi discorsi, mosse a pietà de la semplicità d’Isabetta, la assolsero, conoscendo per la morte di lei non poter tornar la vita a Tomaso; il che fu dal re approvato. Altri vogliono questo accidente esser avvenuto a Roano, città primaria di Normandia, e fu de la medesima sorte di questo che ora v’ho narrato. Ma dei nomi del marito e de la donna non mi sovviene. Medesimamente sono in differenza questi che dicono esser il caso occorso a Roano, perchè altri lo narrano fatto sotto il re Francesco, primo di questo nome, ed altri sotto il presente re Enrico secondo. Tutti però affermano il re dopo la condannagione del parlamento aver la sentenza commessa a le madame de la corte, e la micidiale esser stata assolta. Pigliate mò qual voi volete, chè in libertà vostra è di prenderne una che più vi piaccia.
Non fu mai dubio, monsignor mio onorato, appo gli uomini saggi che tutti i disordini che al mondo avvengano, dei quali tutto il dì infiniti ve ne veggiamo accadere, non nascano perciò che l’uomo si lascia vincere e soggiogare da le passioni e dagli appetiti disordinati. Onde da l’utile e piacere, che indi cavarne spera, accecato, gettatasi dopo le spalle la ragione, che di tutte l’azioni nostre deveria esser la regola, segue sfrenatamente il senso. Chi non sa che amore è cosa buona e santa, cui senza non si terrebbe il mondo in piedi? Ma chi da lascivo e falso amore si lascia irretire e quello a sciolta briglia sèguita, non s’è egli veduto questo tale bruttarsi le mani nel sangue del suo rivale, e dai serpentini morsi de la velenosa gelosia ammorbato incrudelire col ferro ne la vita de la povera donna amata? Chi anco da l’ira sottometter si lascia, spesse volte dal furore de la còlera trasportato, a spargere il sangue umano e tôrre la fama a questi e a quelli pare che goda e che, usando crudeltà inusitata, trionfi. Ora se io vorrò discorrer per tutte le passioni che l’anima nostra conturbano e con mille taccherelle sforzano a far infiniti vituperosi effetti, mercè di noi stessi che non vogliamo con ragione governarci, io non ne verrei a capo in molti giorni, tanti e tali sono. Dirò pur una parola degli errori strabocchevoli che dal giuoco provengono, quando l’uomo, allettato dal piacere che prende di giocar il suo e quello degli altri, in tutto si dona al dannoso giuoco in preda. Presupponiamo per certo e fermo fondamento che qualunque persona al giuoco sì de le carte come dei dadi si dona, che a quello è congiunta l’ingorda cupidigia del guadagno, perchè chi di giocar troppo si diletta è naturalmente avarissimo. Ed ancora che l’uomo giocatore sia consueto il più de le volte a perdere, nondimeno tanto può la vana speranza di vincere, che egli tuttavia ritorna a giocare, sperando racquistar ciò che perduto aveva. Sovviemmi che essendo io in Mantova a ragionamento con il signor Giovanni di Gonzaga, ed essendogli detto che il signor Alessandro suo figliuolo s’aveva giocato e perduto cinquecento ducati, che subito egli mi disse: – E’ non mi duole punto, Bandello mio, dei danari da mio figliuolo perduti, ma duolmi che, per volergli ad ogni modo ricuperare, egli ne perderà degli altri pur assai. – Ne segue anco un altro non minor male: quando il giocatore ha perduto quattro e sei volte i danari che ha, e che il patrimonio più non basta a mantenerlo sul giuoco, il misero che senza il giuoco non sa nè vuol vivere, non avendo da sè il modo, affronta parenti ed amici e prende in presto quella somma di danari che può maggiore. Ma, perdendo e non avendo maniera di ristituire a chi deve, e tuttavia volendo pur stare sul giuoco, fa di quegli enormi misfatti che, oltra che lo rendono infame e odioso a tutti, a la fine lo conducono a vituperosissima morte. Onde saggiamente cantò il nostro mantovano Omero, quando nel terzo de la divina sua Eneide disse:
A che non sforzi i petti dei mortali,
essecrabile o fame d’aver oro?
Di questo ragionandosi a Pinaruolo in una buona compagnia per una questione seguìta tra dui giocatori soldati, il capitano Ghisi da Vinezia, uomo prode de la persona, dopo molte cose dette secondo il vario parere di chi ragionava, narrò un fiero accidente poco avanti a Vinezia avvenuto, il quale tutti riempì di meraviglia e stupore. Io alora, che presente ci era, lo scrissi, parendomi poter esser detto caso giovevole a molti per levargli dal giuoco. Ora che io faccio la scelta de le mie novelle per darle fuori, venutami questa a le mani, subito deliberai che sotto il vostro nome si leggesse, sì per l’antica domestichezza che ebbi già in Milano con la buona memoria di monsignor Gian Stefano Gloriero, vostro onorato padre, ed altresì per farvi certo che sempre di voi sono stato ricordevole, dopo che un dì nel convento de le Grazie di Milano, in compagnia del dotto messer Stefano Negro, di messer Valtero Corbetta, uomo ne l’una e l’altra lingua erudito, (e se male non mi sovviene, credo ci fosse anco messer Antonio Tilesio), dei Commentari de le lezioni antiche di messer Celio Rodigino a lungo ragionammo. De la memoria che di voi tengo ve ne potrà far fede messer Giulio Calestano, non mai stracco predicatore de le vostre singolari doti, col quale tante volte ho di voi e de l’umanissima e cortesissima vostra natura e dei castigatissimi vostri costumi ragionato, raccontando quanto prudentemente e con inaudita costanza abbiate sofferto i fieri ed impetuosi soffiamenti de la contraria fortuna, la quale tanto vi s’è mostrata per lungo tempo nemica. Nè solo eroicamente i suoi sbattimenti ed avversi colpi sofferto avete, il che a molti avviene, ma sì saggiamente vi sète saputo schermire con lo scudo de l’innocenzia contra i suoi velenosi dardi, che a la fine ogni suo impeto ed ogni sua rabbiosa furia ammorzato avete. Degnatevi dunque questo mio picciolissimo dono accettare con quella serena fronte che gli amici vostri veder solete. E che altro vi posso io dare, se non vi dono qualche mio incolto scritto? Feliciti nostro signor Iddio ogni vostro disio. State sano.
Poi che, signori miei, la questione e perigliosa rissa che s’è fatta tra i nostri dui soldati non è per altro avvenuta che per il giuoco di questi malvagi dadi, che invero sono cagione di molti grandissimi mali, come altresì sono le maledette carte, e ciascuno di voi ci ha detto sopra ciò che più gli è paruto a proposito; io medesimamente ve ne dirò quel tanto che al presente m’occorre. E ben che tutto ’l dì si dica che questo gioco viene da mala parte, e sovente de la sua malignità se ne veggiono mille essempi, io nondimeno ho deliberato di narrarvi uno strano, crudele e pietoso caso, il quale non è molto in Vinegia mia amabilissima patria avvenne. Come tutti potete sapere, egli non è mai così bene e con assidua diligenza coltivato orto, quantunque picciolo sia, che ognora tra le buone e salubri erbette non vi nascano delle inutili, triste e talora nocive e pestifere, onde bene spesso tra biete e petrosello germoglia la mortifera cicuta. Cavi pur, se sa, ogni ora il diligente giardiniero, vanghi, zappi e volti sossopra il terreno, che sempre vi cresceranno de l’erbe in copia. Non fia adunque meraviglia se in una grandissima città come è la patria mia Vinegia, così bella, così ricca, così popolosa e così per mare e per terra potente, vi si trovino talora uomini sgherri e malfattori e rei che commettono infiniti misfatti. Ma, per la Dio mercè, non vanno lungamente senza il convenevol castigo, perciò che quel sapientissimo senato, con gli ordinati ufficiali sovra i malefìci, talmente gli ha gli occhi a le mani che a la fine i rei e malfattori sono acerbissimamente puniti. Ma per tornare al ragionamento de le disconce cose e sceleratezze che tutto il dì si fanno, io mi fo ad intendere che il più de le volte elle procedano dal gioco. Perciò vi dico che, non sono molti mesi, in detta città di Vinegia fu un Pietro, figliuolo ultimo di quello speziale che tiene per insegna un pomo d’oro; il qual Pietro sin da picciolo fanciullo si diede a giocare, e crescendo in età sì fieramente crebbe in lui il disordinato appetito del giuoco, che in tutto a quello si diede, ogn’altra cosa abbandonando, e sempre in mano aveva tre dadi. E così andò la bisogna che, ancora giovinetto, per differenza che venne tra lui ed il compagno che seco giocava a’ tre dadi, questionando sovra il punto, egli con un pugnale gli diede nel petto e l’uccise. Scopertosi l’omicidio, Pietro se ne fuggì via; e chiamato da la giustizia e non comparendo, fu per inubedienza e contumacia per omicidiario bandito d’un semplice bando. Nè guari stette fuor de la patria, chè, secondo le nostre leggi che chiamiamo «parti», comprò un capo d’un bandito e fu dal suo bando assolto e a Vinegia se ne ritornò. Ma per questo dal giocare punto non si distolse, anzi quanto aver poteva tanto giocava, di modo che dove le mani su le robe de la casa poteva mettere, niente era sicuro. Ne la bottega anco de la speziaria spesso mancavano molte cose. Il padre, dolente oltra modo del giocar del figliuolo, deliberò con dargli moglie veder se poteva dal giuoco levarlo; ma questo fu indarno, perciò che Pietro seguiva pur il suo ordinario del gioco. Onde di già avendolo infinite volte ripreso e venutone seco a varie e male parole, veggendo che nulla giovava il gridar con lui e rammaricarsi di questo abominevole suo vizio, deliberò di levarselo di casa. E così, come volgarmente si dice, lo emancippò e gli assegnò la sua parte del patrimonio e lo lasciò in sua libertà, a ciò vivesse a suo appetito, sperando che devendo attender al governo de la sua casa e proveder ai bisogni de la moglie e di se stesso, lasciasse il giocare e divenisse altr’uomo da quello che solito era d’essere. Ma egli è troppo' 'mala cosa l’esser avvezzo ad una pessima ed invecchiata consuetudine, perciò che l’abito fatto in una viziosa usanza penso che, per quanto ne ho udito dire, non si possa se non con difficultà grandissima e fatica inestimabile lasciare. Indi a la giornata Pietro andava di mal in peggio, giocando tuttavia più che mai, ora una cosa di casa vendendo ed ora un’altra, con perpetuo rammarico e rimbrottamento di sua moglie. Aveva Pietro una sua zia, sorella di sua madre, che essendo rimasa vedova era d’oneste facultà assai agiata e si ritrovava qualche somma di danari contanti. Ella amava molto Pietro e spesso l’aveva sovvenuto di danari, ora venti ora trenta ducati donandogli. Ma poi, intendendo come egli teneva la moglie in gran disagi, e che quanto aveva il tutto ad una barattaria si giocava e perdeva, ella, trovatasi mal contenta, deliberò di non gli dar più danari. Onde ricorrendo a lei Pietro per soccorso, ella agramente lo ripigliò, con acerbe parole castigandolo, e in fine gli conchiuse che da lei non isperasse più d’aver un marchetto se non cangiava vita e costumi. Nondimeno prima che partisse, egli seppe tanto cicalare e prometter a la zia di non giocar più, che la buona femina gli diede una decina di ducati. Ma sì tosto egli non gli ebbe in mano che tutti se gli giocò e, come tanti altri, andarono in Persia. Questo come la zia intese, totalmente tra sè determinò, e glielo fece intendere, che più da lei non isperasse d’aver un danaro. Andava nondimeno Pietro spesso a visitarla con speme pure di cavarne alcuna cosa, e fingeva sempre che ci fossero mille bisogni per la casa; ma egli cantava a’ sordi e seminava in arena, perchè la zia s’aveva fitto in capo di non voler più dargli danari poi che egli dal gioco non si voleva astenere, anzi sì avvezzo ci era che averia giocato la parte sua del sole. Ora veggendo egli che indarno s’affaticava, nè sapendo che altro modo usare per aver danari, si trovava molto di mala voglia nè sapeva ove dar del capo, parendogli che, essendo vivo e non giocando, egli fosse assai peggio che morto. Così tutto di mala voglia, mille tra sè pensieri facendo e nessuno trovandone che gli recasse profitto per poter ricuperar danari e giocare, viveva in pessima contentezza nè sapeva che farsi. Ora vedete, signori miei, ciò che fa questo malvagio giuoco e dove conduce assai volte i suoi seguaci, e a che strabocchevole ed enorme misfatto si reca l’uomo per l’ingordigia e disordinato appetito, o bene o male che sia, per poter aver danari da mantenersi sul giuoco. Poi che Pietro non si seppe risolvere a via veruna che atta fosse a fargli imborsare argento, a la fine accecato dal disordinatissimo suo desiderio e perversa voluntà, gli cadde ne l’animo che saria ben fatto, avvenissene ciò che si volesse, d’ancidere questa sua zia e rubarle tutti i danari ed altri ori ed argenti che ella aveva. Nè solo deliberò svenar lei, ma ammazzare anco tutti quelli di casa. Fatta questa malvagia deliberazione, e parendogli non poter commodamente per sè solo essequire cotal sceleratezza, scoperse l’animo suo a Giovan Nasone, uomo di malissima vita e villano di quelli de la villa de le Gambarare, ove assai ce ne sono che per ogni minimo prezzo gli par di trionfare ad assassinare, spogliare e strozzare uomini, chè tal è la fama loro. Il Nasone non si fece troppo pregare, e tanto meno i preghi furono di bisogno, quanto che Pietro gli offerse di donar per cotesta opera cento ducati d’oro. E messo ordine a quanto fare intendevano, fece Pietro far dui gran coltelli e di modo aguzzare che radevano, dei quali uno ne diede al Nasone e l’altro ritenne per sè. Pietro era molto pratico ne la casa de la zia, perchè spesso v’andava, e ancora che ella più non gli volesse dar danari, nondimeno egli frequentava tuttavia l’andarla a vedere e a mangiar spesso seco. Morì in quel tempo il vero padre de la patria nostra, il serenissimo prence messer Andrea Grito, duce sapientissimo, al quale successe messer Pietro Lando del mese di gennaro. Sogliono i nostri signori veneziani ne' 'la creazione del nuovo duce fare per segno d’allegrezza di gran giuochi e trionfi in piazza di San Marco, dove concorre tutta la città. Sapeva Pietro che sua zia non v’andarebbe, avendole domandato se a cotale festa andar intendeva ed ella rispostogli di no, perchè alquanto era cagionevole de la persona per un catarro che dal capo le distillava. Il perchè, non smosso punto dal suo fiero talento, deliberò egli il giorno de la festa di mandar ad essecuzione il suo scelerato pensiero d’ammazzar la donna, e non perder così oportuna occasione, onde avvertì Gian Nasone che a la prima ora de la notte si ritrovasse a la casa de la zia sul «campo», come noi costumiamo dire, di San Maurizio, luogo nel corpo de la città assai frequentato, ove egli, che in casa saria, l’attenderebbe e gli darebbe il tal segno quando devesse poi entrare. Ora, circa le ventiquattro ore, andò Pietro a trovar la zia, che in casa era con una sua figliuola di dodici in tredici anni e un figliuolino di circa sei anni e una massara. V’era anco alora un calzolaio che in casa praticava. E perchè tutto il giorno era nevicato assai forte, la massara discese a basso per spazzar la neve dinanzi a la porta. Smontò anco il calzolaio insieme con la fantesca e seco s’intertenne alquanto, ragionando fuor di casa su la «fondamenta», come quivi si dice. Pietro non volle altrimenti aspettar il Nasone, ma finse d’aver bisogno di far qualche suo servigio, e, smontato a basso, serrò la porta, veggendo che ancora la massara cicalava col calzolaio, di modo ch’ella rimase fuor di casa. Tornò poi subito su, ed avendo seco portato il tagliente coltello in un tratto svenò la zia e, passato in un’altra camera ove la figliuola col picciolo fratello faceva suoi giuochi puerili, ivi medesimamente, privo d’ogni umanità e compassione, antropofago più tosto o cannibale che veneziano, quelle picciole creature senza pietà ancise come dui agnellini. Sceso di poi a basso, aprì la porta e di dietro di quella si appiattò, aspettando che la massara entrasse; la quale, come ebbe spazzato, entrò dentro, e così subito non se n’avvedendo fu da Pietro con una gran ferita su la testa morta. Fatto questo, tornò egli a fermar la porta, e montato di sopra, sapendo qual era la cassa dei danari, presa la chiave di quella, che la sventurata zia aveva a la cintola, a suo bell’agio pigliò quanti danari ci erano, che ascendevano a mille ducati, e tutte le gioie con alcuni argenti. Ed empitosi le maniche de la veste che «a gomito» a Vinegia si chiama, discese a basso, ed inchiavata la porta, partendosi trovò il Nasone che secondo l’ordine dato aspettava il segno. A cui Pietro disse: – Andiamo, compagno, perchè io ho espedito il tutto, – e narrògli il modo che tenuto aveva. Ed in questo ebbe favorevole la fortuna, con ciò sia che mai non riscontrarono persona. Indi a lo splendore del lume de la luna numerò Pietro al Nasone i cento ducati che promesso gli aveva, e caldamente lo pregò che tenesse la cosa segretissima e andasse via e non ritornasse per alcuni mesi a Vinegia. E così chi andò in qua e chi in là di lor dui. Il calzolaio che era in casa de la vedova quando Pietro vi giunse, come avete udito, e con la massara scese a basso, abitava quivi vicino e talora soleva far alcuni servigetti a la donna, e quella sera deveva portarle de le candele per uso de la casa. Ma essendo stato a veder la festa che a San Marco si faceva fin circa le tre ore de la notte, comprato le candele, le portò a la donna. E giunto a la casa, picchiò a la porta due e tre volte molto forte, e non sentendo chi gli rispondesse, pensò la donna esser ita con Pietro, che lasciato aveva in casa, a cena con suoi parenti, essendo la costuma dei veneziani la invernata di cenar molto tardi. La matina poi, levato già il sole, ritornò il calzolaio a portar le candele; ma conoscendo che persona non era in casa, perchè nessuno al picchiare che forte faceva dava risposta restò fin a la sera, non sospettando perciò di cosa alcuna. La sera poi a un’ora di notte, ritornato a picchiare e non ci essendo chi li rispondesse molto,' 'andò spiando da’ vicini se sapevano ove la vedova fosse. E non ne trovando novella veruna, si ridusse a’ parenti più propinqui di quella, di modo che non la ritrovando a casa di nessuno di loro, il bisbiglio e il romore si levò grande, non si sapendo alcuno imaginare che potesse esser avvenuto di lei e dei figliuoli. Il perchè con alcuni dei parenti di quella, tra i quali era il crudelissimo omicida Pietro, che più di nessuno bravava, andò il calzolaio ad avvertire del caso la giustizia. Quei signori di notte, – che così sono detti, – tantosto mandarono lor sergenti, i quali ruppero la porta e ne la prima entrata trovarono rivoltata nel suo sangue la misera e povera massara col capo fesso in due parti fino a’ denti. Sbigottiti tutti a così fiero spettacolo ascesero di sopra, ove trovarono in una camera vicina al fuocolare la donna e in un’altra le due picciole creature morte nel proprio sangue, che a pietà averebbero commosso le più fiere e crudeli tigri de l’Ircania. Avvisati i signori de l’empio e sceleratissimo caso, per non lasciare tanta sceleraggine impunita cominciarono con diligentissima cura a far quelle informazioni che si potevano le maggiori. I parenti medesimamente di buon core molto vi s’affaticavano e sovra tutti Pietro maggior sentimento mostrava degli altri di dolore, parendo che di tanta crudeltà non si potesse dar pace, e sovra il corpo de la zia gettato gridando smaniava, dicendo che nulla si risparmiasse per ritrovar il malfattore. Ora, informazione altra non si trovavano se non che il calzolaio affermava al suo partire de la casa de la vedova avervi lasciato Pietro, ed egli confessandolo ma dicendo subito dopo lui essersi partito, su questo indizio fu sostenuto Pietro dal capitano dei zaffi e dettogli che bisognava che si presentasse avanti ai signori de la notte. Egli punto non si smarrì, anzi, mostrando gran fermezza d’animo, montò in barca col capitano, e seco andò un suo cugino, figliuolo d’un’altra sorella de la morta zia. Accostatosi Pietro al cugino e dicendogli forte che stesse di buona voglia perchè era innocente, nascostamente poi gli diede un libricciuolo di tavolette ove per memoriale con uno stile d’oricalco si scrive ciò che si vuole. Quivi aveva già Pietro notato il numero dei danari, gioie ed argento che rubati aveva, e messovi anco su i cento ducati dati al Nasone. Poi piano gli disse: – Cugino mio caro, di grazia abrusciate questo libretto, e trovate subito Gian Nasone e ditegli che per ogni modo se ne vada via. E di me non abbiate punto paura, chè io mi saperò ben diffendere. Io mi fido di voi. La cosa è fatta e rimedio non ci è. – Fu menato Pietro a le prigioni, e il suo cugino andò verso casa tutto smarrito e di malissima voglia, non sapendo che farsi. E poi che assai ebbe pensato ciò che far devesse, a la fine, o mosso da lo sdegno di così enorme e scelerato omicidio, o per paura de la giustizia, o che che se ne fosse cagione, portò ai signori il libricciuolo e disse loro ciò che Pietro detto gli aveva. Fu subito il Nasone preso, il quale senza aspettar tormenti confessò la cosa intieramente come era seguìta. Mostrarono il libricciuolo a Pietro, il quale negò tutto ciò che il cugino detto aveva, e, confrontato con il villano, con buon volto diceva non saper nulla di quanto colui parlava. Nè mai fu possibile, per quanti indizii si avessero nè per quanti tormenti gli sapessero dare, che egli volesse confessar cosa alcuna, anzi animosamente rispondeva al tutto. Aveva egli tratto il suo coltello in un canale ragionando col Nasone, e per confessione d’esso Nasone si mandò a cavar fuori il coltello. Sapendo anco il Nasone chi era stato il fabro che fatti gli aveva, fu mandato per lui, il quale depose come ad instanza di Pietro gli aveva fatti. Ma Pietro il tutto negava e diceva con un viso saldo, come se innocentissimo fosse stato, che il villano ed il fabro erano ubriachi, smemorati e trasognati. Domandato come in tanti luoghi aveva sanguinosa la veste, rispose che passando vicino ad un macello s’era insanguinato ed altresì sul corpo de la zia ove s’era' 'gettato. Erano assai dubiosi i giudici per le salde risposte di Pietro; nondimeno per tanti indizii che ci erano e per la lettera del libretto, che fu provata esser di mano di quello, avendolo per convinto, lo condannarono ad esser tanagliato insieme con il Nasone, e che poi fossero squartati. Data la sentenza, andarono a la prigione il padre, la madre, la moglie e il fratello del misero Pietro a vederlo e confortarlo, e buona pezza stettero con lui. Il fratello di Pietro, che seco il dì innanzi aveva parlato, era da lui stato richiesto che gli desse qualche veleno che subito l’ancidesse, a ciò non si vedesse negli occhi del popolo così vituperosamente morire. Onde aveva preparato un terribile e presentaneo tossico e messolo in una picciola ampolletta e quella chiusa in una pianella; e lo disse a Pietro e seco mutò pianelle, che nessuno se n’accorse. Ora, non si volendo Pietro confessare, e dicendo che ingiustamente era condannato, si mandò per frate Bernardino Occhino da Siena, che alora in Vinegia con mirabilissimo concorso santamente predicava, che poi ha apostatato e fattosi luteranissimo. Andò fra Bernardino il giorno innanzi che la giustizia si deveva essequire, e cominciò ad essortar Pietro a la confessione e pazienza, il quale poco avanti aveva mangiato il mortifero veleno. Non aveva ancora il frate detto cinquanta parole a Pietro, che il tossico, per la sua fiera qualità molto pestifero, cominciò a far l’operazione sua, di modo che Pietro, stralunando gli occhi e gonfiando il volto meravigliosamente, divenne tanto orribile in viso che a ogni cosa rassembrava più tosto che ad uomo. Gli colavano gli occhi e il naso, e fuor di bocca gli usciva la bava di varii colori, fetida sovra modo. Del che fra Bernardino fieramente spaventato si levò, temendo che il misero così contrafatto non gli stracciasse il capuccino in capo. Di questo avvedutosi i guardiani de la prigione ed avvisati i signori, si mandò in fretta per medici; ma ogni soccorso fu in tutto vano, perchè, avendo il veleno già occupato il core e tutti i precordii, non se gli trovò rimedio valevole. Ma vedete se Pietro s’era in tutto dato in preda al gran diavolo! Egli, avendo commesso tanta sceleraggine e trovatosi senza speme di poter schivare la morte, poteva almeno e deveva salvar l’anima sua e non perderla insieme col corpo. Deveva confessarsi e chiamarsi in colpa di core dei suoi peccati, non si potendo trovar sì gran peccato che nostro signor Iddio, a chi si convertisce a lui confessandosi al sacerdote, non perdoni. Ma il misero volle pur morir più tosto eccellente ribaldo che convertito cristiano. Egli non si volle mai confessare, nè pentirsi di tanti mali commessi da lui, e a l’ultimo, avendogli il veleno chiuse le arterie vitali, e non potendo più parlare, ed avendo fatto tante ingiurie a Dio a al prossimo e a se stesso, non si curò ne l’ultimo de la vita perseverar nel male operare, chè essendo restato mutolo volle anco aggiungere, come si dice, «ferro a la cazza», parlando lombardamente. Egli volle far morire uno di quelli che erano a custodirlo, per avergli forse fatto qualche spiacere o per liberar il fratello che dato gli aveva il veleno. Onde quanto più puotè, non avendo modo di poter favellare, si sforzò con cenni ed atti suoi incolpare uno dei guardiani de la prigione, accennando avergli dato il veleno. Il perchè fu preso il povero guardiano e fieramente tormentato, il quale perciò, constantemente sopportando i tormenti, nulla confessò. Ma che deveva egli confessare se era innocente? Ora essendo state conosciute le pianelle del fratello e trovato in quelle un buco picciolo ove il veleno era stato riposto, mandarono i giudici a chiamar esso fratello. Ma trovato quello essere da Vinegia partito, tennero per fermo lui essere stato che dato a Pietro avesse il veleno. Furono presi i garzoni de la speziaria, tra i quali uno confessò che aveva veduto al fratello di Pietro preparare non so che cose velenose, ma che non sapeva a che fine. Il perchè il fratello di Pietro, fatto da la giustizia citare e non comparendo fu bandito, e liberato il povero guardiano. Morì in quel mezzo Pietro, e, così morto come era, insieme col Nasone suso una barca fu menato per tutta Vinegia, e furono tutti dui con l’affocate tenaglie grandemente straziati, ben che Pietro già morto nulla sentisse. Poi in quattro pezzi furono, come meritato avevano, smembrati e posti in quelle salse lagune su le forche per èsca a’ corbi e ad altri fieri augelli. Cotale fu adunque il fine del malvagio giocatore Pietro, il quale aveva anco un altro peccato grandissimo, chè, per quanto n’intendo, era il maggior bestemmiatore e rinegatore di Dio e de’ santi che fosse in quei contorni. Ma meraviglia non era che bestemmiasse, essendo questo scelerato vizio di modo unito e congiunto ai giocatori, come è il caldo al fuoco e la luce al sole.
Giovami credere che non vi sia uscita di mente l’istoria che l’anno passato il signor Tomaso Maino, essendo voi con alcuni signori e gentiluomini a diporto ne l’amenissimo giardino dei nostri signori Attellani tanto amici vostri, narrò, essendosi non so come entrato a ragionare de le fierissime crudeltà che Ecelino da Romano, empio e sovra modo crudelissimo tiranno, in diversi luoghi negli uomini e ne le donne, di qualunque età fossero, usava. Alcune se ne dissero, tra le quali fu raccontata quella che egli in Verona essercitò contra dodici mila giovini padovani, che egli, avendo occupata Padova, da le primarie famiglie aveva scelto e seco per ostaggi condutti. Onde intendendo in Verona che Padova se gli era ribellata, fece dai soldati suoi miseramente ancidere tutti quegli sfortunati dodeci mila giovini che per ostaggi teneva, nè volle, per preghiere che fatte gli fossero nè per danari che se gli sapessero offerire, a nessuno donar la vita già mai. Quivi alora si travarcò da questo fiero ragionamento a parlare de le condizioni che un buon prencipe, che desideri fuggir il nome del tiranno e farsi più tosto dai popoli suoi amare che temere, si deveria sforzar d’aver e metterle in essecuzione, perciò che la maggior fortezza e ricchezza che possa dar speme al prencipe di qual si sia stato o regno deve esser senza dubio l’amore, se crede mantenersi contra i nemici suoi. Chè come il popolo ama il suo signore, può bene egli esser sicuro che quello gli sarà fedele e mai non appetirà di cangiar padrone. Ora su questi ragionamenti il gentilissimo signor Tomaso Maino ci disse la sua novella, la quale a tutti che quivi eravamo parve mirabile e degna di memoria, così per dimostrar la immanissima tirannide d’uno, come anco per far conoscere che in ogni tempo e in ogni nazione si trovano alcune tra le donne di grande eccellenza e meritevoli che sempre con prefazione d’onore siano ricordate. Voi alora a me rivoltato, sorridendo mi diceste: – Bandello, questa certo non istarà male tra le tue novelle. – Anzi bene, – risposi io, e vi promisi scriverla; il che, ritornato a casa, feci. Ora, andando raccogliendo e mettendo insieme esse novelle secondo che a le mani mi vengono, a questa ho voluto porre il nome vostro in fronte, a